Un uomo solo contro un’intera corporazione

Netflix e Discovery Channel Canada hanno unito le forze per mettere in scena un potente dramma storico ambientato nel convulso periodo della lotta per il predominio sulle terre del Nord America, dando vita a Frontier, un ambizioso progetto a sfondo storico che fa del freddo e della violenza una parte importante della stessa messa in scena.

Un complicato intrigo politico

Riassumere la vicenda raccontata nelle sei puntate della prima stagione di Frontier è abbastanza complicato, soprattutto per la narrazione corale e di amplissimo respiro. Il filo conduttore che unisce tutti i protagonisti e coprotagonisti è la conquista della Hudson Bay e il controllo del commercio delle pelli. Il fulcro geografico dell’intera vicenda è il Forte di Saint James, porta di ingresso per le terre selvagge del nord del Canada. In questa cittadina portuale si muove e vigila la Hudson Bay Company (HBC), una appendice semiprivatizzata e militarizzata del Governo Inglese, che ha tutta l’intenzione di conquistare e colonizzare l’intera area, in perfetto stile britannico. A capo del fronte inglese c’è il vecchio e sadico Lord Benton, coadiuvato dal capitano Winchester, suo sottoposto. I due prendono in consegna la città per aumentare i profitti della compagnia. La missione di Benton e Winchester è in realtà duplice: devono infatti anche liberare la zona da un gruppo di briganti, capitanati da un nome noto, Declan Harp, mezzosangue inglese-nativo, con un passato burrascoso che affonda le sue radici all’interno della compagnia stessa.

Harp comanda un manipolo di uomini e donne che cercano di mettere i bastoni tra le ruote alla HBC, con ogni mezzo, soprattutto cercando di coinvolgere la pletora di piccoli e medi commercianti e soprattutto i nativi americani, così da rosicchiare i guadagni alla enorme corporazione britannica. In realtà i propositi di Harp sono molto più prosaici, come si scoprirà fin dalle prime battute, e quello che sembra un eroe politico, alla fine si mostra essere un marito e padre in cerca di vendetta.

In mezzo a questa vicenda a metà strada tra l’intrigo politico e la vendetta familiare, si inseriscono gli altri personaggi, come Micheal Smyth, ladruncolo clandestino a bordo della nave di Lord Benton, ragazzo difficile che si è lasciato la sua amata Clenna in Inghilterra in preda a un destino infausto a base di prigione e Giubbe Rosse, e Grace Amberly, padrona della Locanda di Fort Saint James e ambiziosa traffichina dal passato nebuloso.
Il cast poi è ingigantito da tantissimi altri comprimari che si guadagnano i loro momenti di gloria durante gli innumerevoli intrighi che circolano intorno a questa regione.
La serie è infatti corale sotto ogni punto di vista, tanto che Harp, che dovrebbe essere il protagonista, quasi non si vede per le prime due puntate. La storia cerca di tenere testa alle decine di vicende che si intrecciano, tra tradimenti e omicidi, cercando di mantenere una parvenza di ordine, con il solo risultato di mostrare ancora di più l’entropia storica che ha governato sovrana in quel periodo estremamente convulso della storia canadese.

Purtroppo, questo voler correre dietro a un sacco di personaggi genera un po’ di confusione, soprattutto all’inizio della stagione, quando ancora si deve familiarizzare con tutti i nomi. Un altro vero grosso problema di questo tipo di approccio corale è che qualche volta alcune parti della vicenda restano un po’ in sospeso, o addirittura non risolte del tutto. Va da sé che in una serie televisiva, ci aspettiamo che questi piccoli particolari siano poi ripresi e rammendati nella stagione seguente (già in fase di filming) e quindi per ora non lo consideriamo una pecca, ma solo un reminder per quello che verrà.

In Frontier, se proprio vogliamo andare a fargli le pulci, c’è un solo grande assente, o meglio, poco presente: i Nativi. Badate, c’è la meravigliosa Sokanon, “indiana” braccio destro di Harp, ma quel che manca o che si vede poco, è la sofferenza delle popolazioni indigene per mano degli inglesi. Alcuni eventi coinvolgono in maniera diretta alcune tribù e i Lake Walker hanno un ruolo quasi cruciale, ma solo perché vengono continuamente menzionati come fulcro del commercio di pelli nella regione, e – a parte questo – raramente si vede il loro punto di vista. Posso capire che non sia questo il motivo portante del film, ma in un contesto storico così complicato, lasciare certe vicende solo sullo sfondo per concentrarsi sulle vicissitudini terrene pare un piccolo passo falso.

Quella sporca dozzina

Se siete arrivati fin qui, avrete sicuramente capito che le sei puntate che compongono Frontier sono dense di avvenimenti e infarcite di personaggi, il tutto calato nella splendida cornice del freddo Canada, che richiama tanto le atmosfere innevate e ghiacciate di Revenant.

Il vero dilemma è: ne vale la pena?
Paradossalmente, la risposta è difficile e tutto dipende da cosa voi vi aspettate da una storia del genere. Con un retroscena di questa natura e il supporto di Discovery Channel Canada, va da sé che la prima cosa da aspettarsi è un dramma storico di grande respiro. Ed in effetti, possiamo dirvi che l’intero impianto narrativo è basato su luoghi e fatti realmente esistenti o esistiti.
Saint James Fort era davvero uno dei più importanti porti per il commercio di pellame tra Nord America e Inghilterra; la Hudson Bay Company era un apparato mostruoso volto al solo rendimento economico con potere militare; e per finire, esistevano gli innumerevoli piccoli commercianti che cercavano di rimanere a galla in mezzo a questa masnada di lupi inferociti. Purtroppo, a parte questa cornice ben fatta, non si hanno altri guizzi o rimandi storici, nessun piccolo indizio sulla condizione degli abitanti di Saint James, o su come ci si arrabattava il quel periodo. La parte puramente sociale della Storia è lasciata a poche sparute carrellate che mostrano le strade sterrate e qualche abitante cencioso ai margini.
La stessa considerazione si può fare per le popolazioni locali, in gran parte a malapena menzionate e poi dimenticate, come piccole note a margine di una storia che non riguarda loro. Per cui non credete che sia una versione canadese di Balla coi Lupi. Se è questa l’idea che vi siete fatti, allora no, siete fuori strada.
Un aspetto storico molto circostanziato e ampiamente descritto in Frontier è invece la violenza e il senso di pericolo che serpeggia per le strade. Le Terre Selvagge, lo sono per davvero, con la legge del più forte che la fa da padrone, dove i lupi non sono solo quelli che ululano nei boschi.  

Un altro approccio alla serie è quello di paragonare il telefilm a Braveheart, con la lotta tra il popolo oppresso e un governo britannico dal pugno di ferro. Oh, beh, a parte il fatto che gli Inglesi sono dipinti come il vero male assoluto, le somiglianze con Braveheart sono praticamente finite.
Uno dei cardini del film di Gibson è il suo protagonista estremamente carismatico, che porta avanti la propria vendetta aizzando l’intera Scozia. In Canada le cose sono diverse.
Harp, interpretato da un granitico Jason Momoa, è in cerca di vendetta, ha la stesso spirito ribelle di Wallace ed ha anche lo stesso piacere per la violenza, ma il paragone, onestamente, si ferma qui. Harp, almeno in questa stagione, non è un trascinatore di popoli: sappiamo solo che è temuto, che crea scompiglio, ma non si parla di lui nelle taverne, la gente non lo usa come spauracchio per mettere a nanna i bambini, né tanto meno ne aspetta la venuta per essere liberati da chissà quale oppressione. Semplicemente, la vicenda di Harp resta sempre confinata tra lui e i suoi uomini, un manipolo di poche persone che lo seguono e darebbero la vita per lui. Il carisma di Harp, il suo fascino, purtroppo è per pochi, ma non per tutti. Forse, visto il finale di stagione, la profondità di questo personaggio verrà sondata ulteriormente nelle prossime puntate, magari cercando in qualche modo di ricostruire la sua indole alla luce delle attuali vicende.
Ma questo lo scopriremo solo vivendo.

Sangue e neve

Da un dramma storico, per giunta prodotto da Discovery Channel, ci aspettiamo una messa in scena degna di questo nome. E possiamo tranquillamente dire che non rimarrete delusi: ci sono gli abiti d’epoca, le costruzioni d’epoca, i comportamenti d’epoca. Quel che forse manca, o si sente appena, sono i piccoli dettagli, che sono stati indovinati per metà. Da una parte le unghie dei cacciatori sono scure per la terra e la sporcizia, dall’altra i volti sono sempre puliti e freschi di belletto; gli abiti cenciosi e strappati fanno da contraltare a dentature scintillanti e perfette.
Il diavolo si annida nei dettagli e noi siamo qui per andare a stanare tutti questi piccoli difettucoli, ma badate la critica non è fine a se stessa. Il problema con queste produzioni così radicate in un contesto storico è che bisogna tenere alto il livello di dettaglio per non far sgretolare l’illusione di essere davvero lì, alla fine del 1700 in mezzo ai boschi con dei cacciatori. Basta solo una cosa fuori posto per far svanire la magia e perdere parte dell’attenzione del telespettatore. Non che il telefilm sia fatto male, questo sarebbe ingiusto, ma ha delle piccole cadute di stile che purtroppo risaltano se le si vanno a cercare.

La caratterizzazione dei personaggi è elaborata e ricercata in alcuni frangenti, estremamente clichettosa in altri. Queste mancanze in sede di script e costruzione della storia sono però coadiuvate da ottime prove di attore, tra cui citiamo soprattutto Alun Armstrong, vecchia gloria del cinema e del teatro inglese nei panni di Lord Benton e la splendida Zoe Boyle, rossissima direttamente da Downton Abbey per impersonare Grace Amberly. Un po’ più legnosi invece Jessica Matten, bellissima nei panni della nativa Sokanon, e Landon Liboiron, che interpreta Michael Smyth e “soffre” di una inequivocabile somiglianza con Daniel Radcliffe.

Dal punto di vista tecnico, il telefilm scorre liscio, senza grossissimi sprazzi di genio, con una regia che fa quel che deve fare, portando lo spettatore al centro dell’azione e dentro le vicende. La violenza, come già ampiamente accennato, è cruda e visibile, con sangue e mutilazioni e torture, ma ben distribuita e soprattutto sempre inserita con criterio all’interno della narrazione.

Eugene Fitzherbert
Vittima del mio stesso cervello diversamente funzionante, gioco con le parole da quando ne avevo facoltà (con risultati inquietanti), coltivando la mia passione per tutto quello che poteva fare incazzare i miei genitori, fumetti e videogiochi. Con così tante console a disposizione ho deciso di affidarmi alla forza dell'amore. Invece della console war, sono diventato una console WHORE. A casa mia, complice la mia metà, si festeggia annualmente il Back To The Future Day, si collezionano tazze e t-shirt (di Star Wars e Zelda), si ascolta metal e si ride di tutto e tutti. 42.