Con Halo Infinite 343 vuole rendere il brand più maturo, ma senza rinunciare alle sue tradizioni non può riuscirci

Nella sua analisi del primo Doom, quello del 1993, Tim Rogers mostra come in realtà il gioco parli più di solitudine che di violenza: in effetti, se si fa un calcolo meramente quantitativo del tempo che si passa nel cercare di capire dove andare rispetto ai minuti investiti nelle sparatorie, il doomguy (e noi con lui) ne passa di più rappresentato come un soldato sperduto all’Inferno che come un atipico vendicatore terrestre. In tal senso, la copertina dell’originale offre una rappresentazione visiva della condizione emotiva del nostro avatar, con occhi terrorizzati e il corpo graffiato dagli artigli dei demoni. Al contrario, quella del reboot del 2016 rispecchia la nuova interpretazione del brand da parte di ID Software e Bethesda: un potente soldato che quasi strozza un demone, che cerca di fuggire dai suoi… artigli. Demone: è con questo termine che i Covenant si riferiscono a Master Chief, almeno nei capitoli che precedono Halo Infinite. Per gli Umani egli è invece il salvatore, l’eroe, “il capo“, mentre per i Precursori è sempre stato solo un Attivatore. Queste ultime definizioni, però, servono più che altro in termini narrativi, e si riflettono ben poco sul piano ludico: quando salviamo qualche marines, unica tipologia di “umani” con la quale interagiamo, lo facciamo solo per caricarli sul Warthog e, quasi sempre, condannarli a morte. Ciò che siamo davvero è ciò che i Covenant dicono di noi: demoni intergalattici, che vendicano e proteggono l’umanità e le specie di tutte le galassie dalla cieca visione dei Profeti.

In Halo Infinite, Master Chief (e noi con lui) viene però definito come Preda da parte degli Esiliati, il nemico principale del nuovo capitolo della saga. La sua armatura è lacerata da graffi e ammaccature, il suo popolo è stato massacrato, i suoi amici morti o dispersi, e il luogo dove si ritrova suo malgrado, lo Zeta Halo, è il dominio di questa nuova potenza galattica: Halo Infinite vuole raccontarci di un Master Chief psicologicamente distrutto, e che nonostante tutto riesce ancora a fare il “suo dovere“.

Anche se non fosse stato esplicitamente dichiarato dal team di sviluppo, la natura di reboot di questo capitolo sarebbe stata evidente a chiunque conosca la saga: il recupero di alcuni elementi identitari del primo Halo è palese, e il tentativo di chiudere i legami col passato narrativo è tanto solare quanto mal gestito, ma più che un demerito di Infinite quest’ultima è la conseguenza di una gestione del brand priva di visione sin dall’allontanamento di Bungie. Eppure, la prima scena interattiva del gioco spezza nettamente i legami col passato: infatti, il messaggio che compare a schermo intero quando iniziamo l’avventura ci comunica che premendo la freccia verso il basso si attiva un radar che ci indica con cosa possiamo interagire, cosa è un’arma e cosa un collezionabile, dove andare per proseguire con la trama e molto altro.

Poco dopo, finita la sequenza lineare delle prime missioni, appena “usciti” sullo Zeta Halo (unica ambientazione di Halo Infinite) interagiamo con una mappa che ci spiega all’incirca dove, come, cosa e quanto troveremo di volta in volta. Sin dall’inizio il gioco ci pone dunque in contraddizione col racconto: dello Zeta Halo sappiamo moltissimo, e l’assenza di qualsiasi tipo di dinamismo nei pattern di pattuglia o esplorazione dei nemici ci fa sentire tutt’altro che prede, ma potenti e astuti cacciatori. Molto Halo, poco Infinite. Ed è un bene, almeno per me.

Come per Doom, negli anni Halo ha perso quelle componenti di solitudine, di cripticismo dei suoi livelli, di ripetizione asfissiante dei suoi scenari che caratterizzavano il primo capitolo, per trasformarsi in una saga molto più “spendibile” secondo i canoni del periodo di pubblicazione: Halo 2 aggiunse varietà col doppio protagonista; Halo 3 rese l’elemento “spettacolare” molto più centrale (in linea con i Gears e gli Uncharted del periodo); l’intro di Halo 4 cercò di imitare i QTE cinematografici (circa) di Naughty Dog, senza riuscirci; Halo 5 puntò tutto sulla resa scenica e sull’aggiunta di boss fight. Halo Infinite, pur recuperando l’identità “sparatutto” del primo capitolo, si limita solo a quello: tutto il resto sembra invece preso da ciò che il mercato suggerisce, e non pare esserci una motivazione creativa forte alle spalle, per queste aggiunte. Vediamo perché.

Come molti dei giochi singleplayer degli ultimi anni, Halo Infinite soffre di sonarizzazione: parlano tutti, tanto, sempre, costantemente, commentano ogni azione a schermo, ripetutamente (Aloy sto guardando te). In effetti, una delle critiche storiche rivolte alla serie (condivisa da altri brand con avatar muto, come Zelda) riguarda il generale mutismo di Chief, che nella trilogia originale parlava davvero col contagocce, e che nei capitoli successivi si è sempre limitato a commenti brevi e spesso didascalici, mai particolarmente complessi o legati chissà a quali temi. Anzi: le sue frasi “strafottenti”, spesso da Action Movie (memorabili in tal senso gli scambi con Arbiter), arrivavano anche in momenti estremamente tragici (dove per tragico si intende la fine della vita nell’universo), e unite a sceneggiature e regie meramente funzionali al gameplay formavano un racconto che si limitava a reggere l’impalcatura ludica.

Se il commento costante può anche funzionare per i personaggi (Eivor di Valhalla, Geralt, Aloy, ecc.), lo stesso non vale per gli avatar: più un involucro viene caratterizzato da dialoghi, frasi e riflessioni, più è difficile sentirci “sovrapposti” a quest’ultimo. Nel tempo, siamo stati portati a guardare a Chief non come a un doomguy nello spazio, ma come a un Nathan Drake tra le navi spaziali. Il problema è che a quel punto bisogna che dialoghi e meccaniche riflettano questi caratteri, i personaggi devono acquisire più spessore delle maschere che indossavano fino a quel momento (e il termine maschera lo uso dico senza una punta di negatività, anzi), il racconto deve avere maggiore credibilità nella messa in scena e nei ritmi. Se già in Halo 4 e 5 la drammaticità degli eventi assume toni più “sentiti” ed espliciti, in Infinite le scelte di regia e la maggiore loquacità “complessa” di Chief fanno esplodere queste problematiche: per esempio, il tentativo di imitare il modello registico di God of War, ricorrendo al piano sequenza per larghi tratti dell’esperienza, funziona solo a singhiozzo, forzando spesso la messa in scena e risultando mero espediente stilistico senza una motivazione coerente alle spalle, dato che poi il mission design propone ancora banali sequenze ad arene fuori tempo massimo nel panorama della narrativa interattiva.

In effetti God of War è un esempio perfetto per raccontare quanto accade anche a Halo Infinite: nell’immaturità adolescenziale dei suoi racconti precedenti, il gioco mostrava maggiore maturità linguistica, perché usava delle interazioni più coerenti con gli obiettivi del racconto, privo di particolari pretese. Se la volontà creativa non è più quella di mettere in scena lo sfogo adolescenziale di una maschera ma il dramma umano di un personaggio, bisogna evolvere anche le meccaniche e i modi necessari per veicolare questa storia: cosa che non avviene con God of War, e che non avviene in Halo Infinite. Così come in God of War il dramma padre/figlio deve fare quasi sempre posto a esplosioni colorate, elfi massacrati e caccia alle Valchirie, in Halo il senso di colpa e il fondamentalismo religioso sono meri appigli tra un Grunt suicida e un Brute martellante. Addirittura, in Halo Infinite Master Chief esprime pareri su cosa significhi essere un soldato, sul concetto di sacrificio e su quelli di colpa e responsabilità, dando forma a un pensiero militarista che fino a oggi avevo potuto far finta che tra i tanti marines e comandanti del gioco lui, almeno lui, non pensasse. Sì, sono poche frasi nell’arco di tutta la campagna (comunque non estesa), ma ti rimangono impresse proprio per la distanza con la tradizione.

Voi direte “sì vabbè, ok, però ci attacchi un pippone enorme sul fatto che Halo era soprattutto gameplay con trama di contorno, e poi scrivi solo del racconto? Dicci com’è il gameplay, sii coerente!”. A parte che il racconto è anche, soprattutto il gameplay, ma… com’è il gameplay? Una goduria suprema. Da anni non mi capitava di finire un gioco per una recensione e ricominciarlo subito con difficoltà maggiore (e finirlo): il puro gunplay è strepitoso, ogni arma funziona in contesti diversi e i livelli di difficoltà non aumentano vita e scudi, ma pattern e mira dei nemici. Un esempio: a Eroica, i Brute ti lanciano contro le bobine energetiche che si trovano in giro, cosa che a Normale non mi è mai capitato di vedere. Ecco, uno dei problemi ludici del gioco è sicuramente la difficoltà Normale, che quando si è a piedi si trasforma in “prendi ogni bobina e tirala” (dinamica sufficiente a liberarsi anche di nemici molto potenti), e che sui mezzi si traduce in “prendi il Wasp (velivolo) e hai finito l’open world”. Ma anche a quel livello, almeno le missioni della campagna e le boss fight non raggiungono mai livelli di facilità eccessiva, costringendoci a usare le diverse abilità e armi disponibili.

Il punto è che il famoso “Golden Triangle“, il triangolo dorato composto da armi-granate-corpo a corpo che ha da sempre caratterizzato la serie, e che nel tempo è stato abbandonato da Bungie prima e 343 poi per esigenze di mercato, è finalmente divenuto un “Pentagono Dorato“, formato dall’aggiunta delle abilità e delle bobine, strumenti tanto arcaici in termini di presenza scenica quanto efficaci in senso ludico nello sviluppo della progressione di Halo Infinite.

È per questo gunplay che il sandbox, da questo punto di vista, funziona: ci sono pochissime cose da fare, che giustificano il loro essere lì perché sparare non è un accessorio per accedere a un racconto o a un punteggio di completamento, ma l’esatto opposto. Non sono elementi aggiunti perché così il prodotto finale ha più contenuti, ma lo strumento per farti accedere al cuore dell’esperienza: sparare. L’esatto opposto di Far Cry, insomma. Non solo: la struttura sandbox permette di gustarsi le parti più strafottenti e sopra le righe di Halo, come le stazioni di propaganda che rompono la quarta parete e ti dicono “sì, ok, stai vincendo, ma lo stai facendo a Leggendaria? Altrimenti sono buoni tutti”. Il sandbox funziona anche perché è l’unico momento nel quale effettivamente percepiamo la solitudine, lo spaesamento (complice una minimappa che non indica i percorsi da seguire) e la quasi unicità di Chief, in un panorama che offre solo morte aliena e architetture fredde e inumane. Perché però ho scritto “da questo punto di vista”? Perché in realtà Halo Infinite, rinunciando all’identità più lineare della serie e abbracciando la componente sandbox, presta il fianco a un altro tipo di approccio, quello dell’ottimizzazione.

Sono infatti sicuro che una larga parte dell’utenza, quella che nel contratto col designer aggiunge la postilla “userò tutti gli strumenti che mi concedi per vincere” (postilla totalmente legittima proprio perché concessa dal designer), giocherà un Halo Infinite che si sintetizza così: combo rampino-scivolata fino alla base più vicina, poi chiama il Wasp e si è finito il gioco. Ovviamente la componente gunplay ne verrà strozzata, e nella seconda run che ho fatto, tutta giocata in modo “ottimale”, la differenza tra il giocare la campagna e il giocare il sandbox è talmente netta che sembrano quasi due giochi diversi. Per fortuna, anche volendo completare ogni singolo collezionabile, Infinite esaurisce presto i suoi contenuti sandbox, ma purtroppo le missioni non sono rigiocabili e quindi, per potersi godere di nuovo il gunplay, bisogna ricominciare tutto dall’inizio: una volta che un sandbox doveva avere mille attività tutte uguali, mannaggia!

Sono anche sicuro che molte delle critiche sottolineeranno la sostanziale ripetizione delle ambientazioni e degli interni, ma sono contento non abbiano deciso di strafare mandando a quel paese la lore della serie, almeno in questo: lo Zeta Halo è stato creato per riprodurre solo ed esclusivamente l’habitat tipo dell’umanità, così come di certo sei mesi di permanenza degli Esiliati non concedono il tempo per costruire templi e mercati, ma solo strutture militari. Al massimo, ci sarebbe da chiedersi come mai i Precursori hanno considerato come habitat tipo dell’umanità le foreste del Nord-Ovest del Pacifico, giusto sopra la California… “Secondo te, questo anello sempre uguale, identico, è una metafora della vita, o una presa in giro dei Precursori?“, dice uno dei personaggi di Infinite. È l’unione tra il risparmio produttivo e la coerenza con la lore, gli ho risposto. Stesso discorso vale per gli interni: spessissimo ci troveremo a percorrere stanze identiche, perché identiche sono le strutture e le funzioni dei luoghi che percorriamo. Di solito Halo “risolve” questo problema concependo tipi di missioni diverse: esplosioni, carri armati, incursioni nel territorio nemico, ecc. Infinite ci prova, ma non riesce a eguagliare nessuno dei capitoli precedenti, e con l’aggiunta delle fasi sandbox la sensazione di star ripetendo sempre la stessa azione è più evidente. Anche qui, penso che per i fan della serie non sarà un problema, mentre a chi sfrutterà il Game Pass per provare “il gioco del momento” sicuramente peserà. Un esempio per far capire quanto sarà diversa la visione del gioco tra fan e novizi: la più tediante e ripetitiva delle missioni, che prevede l’attivazione di tre pilastri sparsi per la mappa, in luoghi sempre identici e con l’unica variante del tipo di nemici presenti, è una diretta citazione a un’attività speculare del primo Halo, con tanto di “sorprese” posizionate nello stesso momento narrativo.

Ci sarebbe molto altro da dire su Infinite: la sua struttura sandbox è abbastanza atipica, mi viene in mente solo Mad Max come titolo paragonabile, e il rapporto con la nuova IA è in effetti molto simile a quello che ha Max con il suo accompagnatore motorizzato; come sempre, i dialoghi tra NPC sono tra i più ricchi che esistano, e mostrano come il patriarcato sia non globale ma intergalattico (“mi dicono che tua madre è famosa sulla Terra”, mi ha detto un Grunt), e lo stesso vale per il razzismo (i Brute schiavizzano i Grunt, che varie volte dicono “in questi momenti di pausa, penso sempre di provare a fuggire”), per non parlare invece degli Elite e del loro approccio vichingo/cavalleresco alla vita; è palese che il progetto decennale di cui parla 343 sarà composto di aggiunte tramite patch che modificano anche il mondo di gioco, che mostra già i segni di un’autonoma ricostruzione (e quindi nuovi livelli, scenari, ecc.); la trama è sbrigativa col passato e iper-accellerata sul futuro, finendo per essere poco più di un ponte per il prossimo contenuto. Ma tutto questo rimane comunque sullo sfondo di un’accoppiata narrazione/gunplay che domina lo sviluppo dell’esperienza.

C’è stato un momento in Halo Infinite che mi ha colpito proprio per il suo essere atipico rispetto a questo binomio. Mi trovavo vicino all’ennesima base da conquistare, e avvicinandomi alla zona di combattimento mi resi conto di un fatto peculiare: non c’erano nemici inquel luogo. Convinto d’aver beccato qualche bug, o magari qualche ritardo nello spawn degli avversari, andai verso il centro della base per farla mia. A un metro dal pulsante d’attivazione, sentii il laser di una lama Elite mimetizzato attivarsi, e una voce dal nulla disse: “offrimi una battaglia degna, Preda!“. Guardando subito il punto più lontano possibile da me, usai il rampino per fuggire, cambiandolo poi al volo con l’abilità radar (una delle meccaniche offerte dal gioco), scoprendo così la posizione di uno dei due nemici presenti, subito eliminato con una granata. L’altro, reclamando vendetta e caricandomi a testa bassa, mi offre così l’opportunità di schivarlo ancora col rampino, e ucciderlo con un colpo di precisione. Ecco, quel momento mi ha fatto effettivamente sentire una Preda: potente, sì, ma mortale perché passibile di esser sorpresa, colpita all’improvviso, sia dal nemico che dall’ambiente circostante. Purtroppo, gran parte della sorpresa era dovuta al fatto che solo alla decima base da liberare il pattern di ripetizione schematica si è interrotto. Episodi simili, pur presenti ed esaltanti, alla fine dell’esperienza risultano essere solo “sussurri ed echi lontani“, come dice uno dei personaggi del gioco, di ciò che Halo è stato, almeno per me.

Non riesco a formulare una frase migliore di questa per far capire il mio stato d’animo sul gioco, al quale sono legati anche ricordi di un’adolescenza liceale in cooperativa su Halo 3 e Reach: l’Halo in Infinite mi diverte da morire, l’Infinite in Halo non mi è piaciuto affatto. E dunque, all’arrivo del gioco sul pass, quando lo ricomincerò a Leggendario (il codice recensione non mantiene salvataggi e teschi, ecco perché aspetto), probabilmente mi tapperò il naso di fronte a un Master Centri… ehm, Chief, che alla fine della fiera comprende i genocidi perché “in fin dei conti era un soldato, faceva quello che pensava fosse giusto“. Come tante delle grandi produzioni videoludiche, anche Halo Infinite dimostra dunque che per quanto il settore sia potente in termini economici, culturalmente soffre ancora in modo devastante il paragone con le altre forme espressive, e ciò accade soprattutto in quella parte dell’industria e del mondo creativo che si presenta come “pioniera” della narrazione, e che si organizza da sola le serate degli Oscar. E quest’ansia di prestazione ci spinge troppo spesso a forzare idee moderne con strutture (per esempio Halo) pensate per fare altro: o cambi la struttura (che figo sarebbe un gioco di un burocrate UNSC che alla Papers, Please! deve decidere chi sale sulle scialuppe di salvataggio?), o racconti ciò che il sistema ludico che stai usando ti permette di narrare.

Ora scusate, torno a caccia sullo Zeta Halo, ho ancora un paio di teschi da trovare.