JETT: the Far Shore è sia una storia sul nostro futuro, sia uno specchio del presente videoludico

Uno dei concetti che di recente mi ha molto catturato è quello di iperstizione, termine che è divenuto assolutamente centrale nel mio modo di riflettere sul videogioco. Con iperstizione si intende quel fenomeno per il quale una storia immaginata si “avvera” nella realtà: un racconto visto come una premonizione del futuro. La tragedia globale del SARSCOVID-19 mi ha quasi costretto a vedere iperstizione un po’ ovunque, dato il morboso legame del settore videoludico con l’apocalisse e, più nello specifico, con quella climatica o batteriologica. Ovviamente, questo tipo di associazioni non sono né mie esclusive, né sono una novità a livello critico: basta leggere le recensioni di Death Stranding, di The Last of Us: Part II e, ne quasi sono sicuro, quelle che verranno di JETT: the Far Shore.

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A volte potrebbe sfuggirci quella che è un’iperstizione solo perché quella storia viene pubblicata dopo l’evento storico, anche se in realtà il suo sviluppo è iniziato ben prima dei primi segnali dell’avvenimento. Questo è il caso di JETT: the Far Shore, progetto videoludico dello studio Superbrothers e Pine Scented Software che difficilmente, dato il contesto in cui viene pubblicato, non richiamerà alla mente di chi lo gioca i temi vissuti negli anni della pandemia. Alcune associazioni col problema virologico non saranno istantanee, ma arriveranno a gioco già inoltrato; altre invece saranno più sottili, e cattureranno l’immaginario di chi prima, durante e “dopo” il Covid ha incontrato concetti come quello di Spillover. Come dicevo prima, non ho la più pallida idea se nella mente di chi ha sviluppato il gioco ci fosse l’intenzione di parlare di questi temi, ma la sovrapposizione con quest’ultimi è talmente evidente che è veramente molto difficile non solo passare oltre, ma in più non renderli un tema centrale dell’analisi del gioco.

Per capire il perché, bisogna prima spiegare di che cosa parla JETT: The Far Shore. Il gioco racconta di una missione spaziale lanciata da un’umanità oramai destinata a scomparire: il pianeta è arido, il cielo grigio, e i volti che incontriamo hanno i segni della rassegnazione, della malinconia e del dolore. Noi faremo parte di un piccolo gruppo di esseri selezionati per ricominciare in un altro pianeta, col compito di salvare la storia, la cultura e la scienza del nostro Popolo. Fin qui, le connessioni con la stragrande maggioranza delle produzioni fantascientifiche videoludiche sono numerose, ma si fermano qui: uno dei tratti distintivi di JETT è infatti quello di proporre un’epopea intergalattica dove il nostro ruolo non è né quello di salvatori dell’intero cosmo (Mass Effect), né quello di conquistatori di spazi già abitati (Star Citizen) ma che, per il nostro antropocentrismo, sentiamo già nostri. Altro tratto distintivo di JETT: The Far Shore è la capacità di far coesistere mito e razionalità, religione e scienza come perni culturali di uno stesso Popolo. Il team che viene scelto per ricostruire l’umanità è infatti composto non solo di scienziate, ma anche di anacoreti, figure ascetiche più simili (nella finzione del racconto) a uno sciamano che non a un medico o altre figure “scientifiche”.

In JETT: The Far Shore è sempre presente un costante equilibrio tra la necessità di schematizzare, spiegare, categorizzare, analizzare, razionalizzare, e l’accettazione del dubbio, dello spirituale, del magico, del surreale, che non sfociano mai in un’emotività irrazionale né diventano mai un positivismo scientista, ma che restituiscono un’umanità caratterizzata sia dalla sua capacità analitica, sia dalla sua splendida componente spirituale. In questa cornice narrativa gli sviluppatori hanno deciso di affidarsi a un gameplay che cerchi di rispecchiare queste caratteristiche, questa cultura, questo popolo. Per esempio, hanno deciso di rendere il meno presente possibile la violenza nei confronti delle creature del nuovo pianeta, e d’altro canto hanno reso la curiosità scientifica (ma anche spirituale) il motore principale dell’esplorazione. Inoltre, per impedire una netta scissione tra l’esperienza di chi gioca e il teorico vissuto dell’avatar, hanno reso molto limitate le sessioni esplorative, concedendoci numerosi minuti di libertà o rigide sequenze lineari a seconda di quel che richiede il racconto, “obbligandoci dolcemente” a mantenere i ritmi della storia.

Tutto questo si traduce in due componenti principali: sessioni di esplorazione in visuale dall’alto a bordo di navicelle; sequenze esplorative e di dialogo in prima persona, che descrivono le relazioni con il resto dell’equipaggio una volta giunti all’interno delle varie stazioni. La fase esplorativa a bordo delle navicelle ricorda, anche se molto lontanamente, un gioco come Flower, dato che più che esplorazione in senso stretto vuole restituire una sensazione di “flow dettata dal seguire i percorsi di “energie” distribuite sulla mappa. Per poter sfruttare l’energia del nostro JETT dovremo infatti seguire dei percorsi indicati da una serie di risorse naturali, che si trovano un po’ ovunque sul nuovo pianeta. In tal senso, il gioco spesso sembrerà essere più un puzzle esplorativo, un platform atipico, che un vero e proprio gioco con delle mappe sandbox.

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Se il principio di design di giochi come Flower o Haven è però quello sottrattivo, ossia del semplificare, del rimuovere tutto il superfluo per far concentrare chi gioca su una singola o su poche sensazioni o emozioni, JETT: The Far Shore costruisce un’impalcatura non troppo complessa o eccessiva, che però non risulta abbastanza esile da giustificare alcune delle sue scelte. Sono infatti molti modi di interagire col gioco, come un radar, un sistema di recupero di oggetti e risorse, un struttura di potenziamento del motore, scudo con meccaniche di stordimento dei nemici, e molto altro. Per la quasi totalità di queste azioni si ha troppo spesso la sensazione di trovarsi di fronte a un livello con delle fasi squisitamente ludiche perché serviva che ci fossero, e non perché necessarie al racconto, come se fossero state fondamentali per poter inquadrare JETT come un “gioco vero”.

Al contrario, le fasi di dialogo con il resto dei membri della ciurma non seguono i paradigmi tipici degli scambi a risposte multiple della tradizione videoludica. Infatti queste sessioni servono quasi esclusivamente a scoprire la storia dei personaggi, i loro racconti, le loro opinioni, e le nostre scelte di dialogo sono lineari, dato che non impattano in alcun modo lo sviluppo del gioco e della sua storia. Con questo o con quell’altro membro possiamo discutere di come ci sentiamo o di cosa pensiamo del pianeta in cui siamo arrivati, ma Mei, la protagonista e il nostro avatar, non dirà mai nulla di complesso, e si limiterà ad ascoltare o a chiedere delle semplici domande (generalmente, massimo due). La scelta dietro questa caratteristica è la stessa di quella di tanti altri titoli con avatar silente: rendere il meno evidente possibile il carattere del personaggio per permetterci quindi di sentirci esattamente come lei, mero guscio contenente la nostra personalità. Coerentemente, sarà la prima persona la prospettiva con cui ci muoveremo, una volta che saremo fuori dalla navicella. Eppure, dato il contesto narrativo, sarà difficilissimo provare quello che sembra provare l’avatar nella prima parte di gioco, poiché avvengono una serie di eventi che, senza conoscere il mondo di gioco, non possono forse essere davvero compresi, almeno fino a una parte avanzata dell’esperienza.

Tenendo bene a mente quindi le caratteristiche narrative, ludiche e concettuali del gioco, ci si rende conto del perché non si possa che pensare allo spillover: l’umanità penetra infatti in un ecosistema che non aveva mai incontrato prima, e ha a che fare con batteri, virus e creature di un mondo che non ci appartiene e che, al contempo, non è abituato a noi. Per non anticipare troppo del racconto, sul tema dello spillover e di come si riproponga nel corso della storia devo fermarmi. Al contrario, sin dai primissimi minuti di gioco che appare evidente una sovrapposizione tra i temi climatici della nostra realtà e quelli del mondo di Mei, il tutto da una prospettiva decisamente originale rispetto alla tradizione videoludica scifi e spaziale. Infatti, più volte nel corso dell’esperienza affronteremo riflessioni della ciurma o addirittura eventi dal vivo che riguardano il rapporto dell’umanità con l’ambiente, con la Scienza, con lo sfruttamento della religione e del mito come strumenti per legittimare l’imperialismo. A rendere ancora più netta l’originalità dell’esperienza contribuisce una direzione artistica peculiare, che lavora coerentemente al racconto sul binario composto dalle parallele della Scienza e della Religione: Le astronavi ottimizzate scientificamente per il volo non rinunciano però ai dettagli che le connotano di un fare mistico, e la quotidianità di questi scienziati viene spesso descritta da momenti squisitamente spirituali.

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Purtroppo, come spesso accade, nel gameplay c’è però poco di scientifico o di mistico, e tutto ciò che faremo sarà sempre guidare una navicella nello spazio per scacciare via un nemico o raccogliere una risorsa. Non è facendo dire a un membro della ciurma “Scusateci, poveri animali!” che un gameplay diventa innovativo, rivoluzionario o anche solo distante dalla tradizione: per creare un videogioco coerente tematicamente bisogna ideare non solo una storia e delle meccaniche, ma un sistema che le renda integrate tra loro e significative. Sebbene dunque i temi trattati dal racconto riescano a essere non solo coerenti tra di loro, ma anche ben esposti, le sessioni più marcatamente ludiche mettono in scena un rapporto tra il giocatore e il mondo di gioco di padronanza e controllo.

Sia chiaro, ci sono numerosi tratti che depotenziano gli elementi tipici del videogioco di esplorazione (di solito, conquista) spaziale tradizionale: per esempio, come detto all’inizio non possiamo esplorare all’infinito, ma dobbiamo rispettare determinati cicli del pianeta; non annientiamo i nostri nemici, sostituendoci a loro, ma al massimo li stordiamo per un certo lasso di tempo. Eppure, mentre giocavo, la sensazione che ho provato è stata proprio questa: JETT: The Far Shore propone al massimo un’attenuazione della norma, e non tanto un tentativo di ribaltarla, come invece avviene appunto nelle sua parti più tradizionalmente narrative. Innovare però non è mica un obbligo, e ancor di più non è un imperativo riuscire a superare la norma e ideare nuovi linguaggi. Ecco perché JETT può comunque essere interpretato come il desiderio di immaginare nuovi modi di concepire le relazioni tra l’umanità e la natura, tra la scienza e la religione: ripensare l’animato, rianimare il pensiero. Sperando di riuscire in questa titanica impresa prima che il prossimo spillover ce ne tolga la possibilità.