Katamari Damacy REROLL su Game Pass è l’occasione giusta per tornare a parlare di consumismo ed ecologia

Lo scorso 5 agosto Katamari Damacy REROLL è stato aggiunto al Game Pass, il servizio in abbonamento di Microsoft disponibile su Windows 10, su console Xbox e sui dispositivi Android tramite xCloud. Un’occasione che ci permette di tornare a parlare di questa famosissima serie e del suo, folgorante, primo episodio. Pubblicato originariamente nel 2004 per Playstation 2, l’edizione REROLL (di fine 2018) sancisce l’arrivo per la prima volta in Europa, in un’edizione graficamente aggiornata, del capolavoro ideato da Keita Takahashi. Katamari Damacy è un titolo semplice e immediato, le cui meccaniche esprimono con chiarezza l’idea alla base del gameplay, quanto profondo e lucidissimo nel dispiegare (o raccogliere) temi sempre più attuali e urgenti, come il consumismo sfrenato, l’inquinamento, l’ecologia e la necessità di ridefinire il rapporto con gli oggetti che ci circondano. Senza dimenticare la possibile interpretazione anti-antropocentrica che mira a ridefinire i contorni di legittimità di uno spazio in cui l’uomo non è più un’entità privilegiata rispetto alle altre.
Ma procediamo con ordine.

Katamari Damacy REROLL: il videogame fra consumismo ed ecologia orizzontale: chi siamo e cosa dobbiamo fare?

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In Katamari Damacy vestiamo i panni del Principe del Cosmo. Nostro padre, il Re del Cosmo, ha incidentalmente distrutto tutte le stelle dell’universo e ci incarica di ricrearle. Una missione che possiamo svolgere grazie all’uso di un katamari, una sfera in grado di raccogliere in maniera incrementale tutti gli oggetti con cui viene a contatto. Grazie a questa palla magica appiccicosa dovremo, allora, raccogliere puntine da disegno, caramelle, cartelli stradali, barattoli, che accumulandosi la ingrandiranno permettendoci di assorbire oggetti man mano sempre più grandi. Raggiunta una dimensione data entro uno specifico lasso di tempo, ecco che il katamari si completa e può elevarsi in cielo per essere trasformato da nostro padre in un corpo celeste e ripristinare così, stage dopo stage, l’intero firmamento. Se il primo livello ci chiederà di arrivare in sei minuti a un katamari di 20 cm, nell’ultimo, la scala dimensionale sarà così grande da permetterci di inglobare case, strade, città, isole, vulcani e persino le nuvole.

Muovere il katamari in giro per i vari livelli è semplicissimo: un sistema di controllo minimale ci mette di fronte pochi input con i quali possiamo controllare il rotolamento della sfera nello spazio tridimensionale. Limitato nello spettro di azioni possibili, rimane invariato nell’arco dell’intero gioco e ciò garantisce una digestione completa dopo pochi minuti di masticazione, aumentando a dismisura quel senso di ipnotica onnipotenza e gratificazione che ci investe nell’operazione granulare di raccolta di oggetti su oggetti.

Come scrive Matteo Lupetti su Vice, «Katamari Damacy ha un aspetto gioioso e folle quanto la sua meccanica: la colonna sonora è composta da brani cantati e allegri, la grafica è semplice e colorata, gli ambienti pieni di oggetti, piante, persone e animali ricordano luoghi reali ma allo stesso tempo son colmi di situazioni sorprendenti. Alcuni oggetti che dovrebbero essere inanimati si muovono, come se ballassero e giocassero insieme. Un palazzo ruota allegramente su stesso. In spiaggia, un uomo bendato cerca di spaccare dei cocomeri giganteschi che ruotano intorno a lui mentre un altro cavalca un coccodrillo. Una classe fa lezione all’aperto, con tutti i banchi e la cattedra del professore, ma sulla cattedra si agita un pesce ancora vivo. Quattro musicisti suonano in groppa a un elefante che attraversa le vie della città. Una ragazza pascola una fila indiana di mucche camminando sui trampoli. Nella baia robot giganti combattono contro mostri marini».

Ed è proprio la commistione fra questa frenesia dell’automatismo (date le poche regole da seguire e un tasso di sfida quasi inesistente) e la componente audiovisiva, che trova compimento in un’immersione totale in cui il giocatore viene rapito e stordito in un ciclo ossessivo e alienante di rituali che si ripetono senza soluzione di continuità. In effetti, sia l’aspetto estetico, coloratissimo e bizzarro, familiare e nostalgico, che quello musicale, dolce, allegro e ritmato, traducono con esattezza digitale quel ribaltamento verticale fra una semplicità apparente e una complessità sostanziale, che nasconde più di quanto sembri all’interno di Katamari Damacy (come, appunto, tematiche quali il consumismo e l’ecologia). Il divertimento e la soddisfazione immediata che chiunque prova nel muovere il katamari nei vari livelli, immerso in quella calda e accogliente sospensione sinestetica, in effetti, non sono altro che del miele che riveste un’amara medicina.

Consumismo ed ecologia digitale: distruggere o costruire?

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È lo stesso Takahashi a legare la serie Katamari al consumo di massa. Esplicitando il collegamento in più di un’occasione, come durante l’inaugurazione della sua mostra d’arte su Never Ever Quest (“Katamari riguarda il consumo di massa”) o nel corso della GDC del 2009 (“Con Katamari Damacy volevo fare un commento ironico sulla società consumistica”). Aggiungendo, in merito all’umorismo e alle scelte formali con cui presenta i suoi titoli al pubblico, che “alcuni mi chiedono, perché i miei giochi hanno sempre umorismo? E ho pensato: ‘Oh, forse quello che volevo davvero dire è un qualcosa di più profondo ed estremo, quindi ho bisogno di un rivestimento di zucchero'”.

Siamo nel campo delle traslazioni semantiche, delle figurazioni metaforiche e allegoriche che utilizzano gli strumenti propri di un linguaggio artistico per contenere messaggi e significati sottesi. Per presentare, in maniera candida ma spietata, l’inganno ludico che ci permette, in totale spensieratezza e colmi di divertimento, di utilizzare una famelica sfera per scoprire che la Terra in cui viviamo è sommersa di oggetti che abbiamo prodotto, consumato e gettato senza curarci delle conseguenze di questa catena che si autoalimenta senza sosta. Che la febbre del consumismo regola le esistenze del vivere civile, della società in quanto tale e così definita, e danneggia l’ambiente naturale che ci ospita. Stiamo distruggendo la Terra e la natura ma uno spirito ecologista stenta a diventare la bussola critica con cui rivedere i nostri stili di vita e a costituirsi come specchio valoriale per assumerci le nostre responsabilità. Lo stesso katamari, in effetti, si mostra come lo strumento che Takahashi utilizza per rielaborare i concetti di progresso e di crescita economica che muovono le aspirazioni neo-capitaliste, arrivando alla creazione di una gigantesca palla di immondizia destinata a essere lanciata nello spazio e a divenire una stella. Ecco, le costellazioni come discariche infinite, rappresentano con esattezza l’assurdità con cui un ingenuo entusiasmo ci investe al completamento della nostra missione. Alzare lo sguardo per renderci conto che stiamo barattando la luce delle stelle con dei surrogati nati per assolverci dai nostri peccati.

Anche la violenza, apparentemente assente, risulta essere un eventuale elemento attraverso cui orientare alcuni dei significati delle nostre azioni: è innegabile, d’altronde, non rendersi conto che l’operazione con cui mondiamo il mondo dai suoi oggetti-rifiuti, vada, con il progredire del gioco, a investire gli elementi strutturali della realtà stessa: le nostre azioni si fanno distruttive e cancellano la materia nella sua interezza per rispondere al volere di una divinità ambigua e a tratti inquietante (che, ricordiamo, risponde a un errore originale). Annientare ogni cosa, attraverso l’atto della raccolta, col sorriso stampato in faccia ricrea un paradosso nel giocatore che si trova a compiere azioni tremende senza possibili alternative.

A meno di non voler intendere, come fa Stefano Calzati, che la parabola ecologista di Keita Takahashi si vuole opporre al consumismo mostrando la distruzione come primo esito parziale di un procedimento risolutivo e catartico, multisensoriale ed etico insieme: ovvero la trasformazione di quelle gigantesche palle di immondizia non in nubi tossiche (nuvole di smog per dirla con Calvino) come siamo abituati con i nostri inceneritori, ma in nobili gioielli che si prestano ad adornare l’universo e mostrano all’umanità un futuro post-umano privo di beni materiali e di avida accumulazione consumistica. Una prospettiva ottimista ed obliqua, che segue un piano inclinato su cui il katamari non può che rotolare in continuazione. Ma rotolare è vivere diversamente: «La bellezza di rotolare è la possibilità di osservare tutto da ogni prospettiva. Rotolare è metafora stessa della vita, soggetta a pendenze, ostacoli, inerzie e nel Katamari si può riconoscere tutto questo. Una palla che appiccica a sé durante il passaggio oggetti, persone, simboli, centro di gravità come lo è ogni essere umano».


Ontologia orientata agli oggetti e anti-antropocentrismo?

Un ulteriore strumento di riflessione per decifrare i sotto-significati presenti in Katamari Damacy, o per aggiungerne di nuovi e moltiplicare così i piani prospettici, oltre ai messaggi contro il consumismo di massa e quelli a favore di un’ecologia in grado di sensibilizzare sul destino del pianeta Terra, può essere rintracciato nella cosiddetta Ontologia Orientata agli Oggetti. Una prospettiva filosofica che mira a rivedere il nostro rapporto con gli oggetti, invitando a superare le istanze antropocentrica e all’elaborazione di una riflessione filosofica al di fuori dell’uomo.

Katamari Damacy, infatti, presenta il superamento dell’idea dicotomica, comune a molti videogiochi, che divide gli oggetti fra interattivi e non interattivi. Questa suddivisione crea una gerarchia qualitativa fra gli oggetti e fra noi e loro, giocatori ed esseri umani (seppur interpreti di un avatar). Ogni oggetto rientra, perciò, in una categoria distinta con un preciso scopo e utilizzo: di conseguenza, non tutti gli oggetti sono uguali e noi ci rivolgeremo a loro in maniera asimmetrica. In Katamari Damacy, invece, gli oggetti vengono democratizzati, vengono sostenuti da un’idea che realizza un’ontologia piatta in cui tutti gli elementi presenti su schermo hanno lo stesso ruolo e la stessa valenza. Non esistono sistemi o gruppi di insiemi privilegiati rispetto agli altri.

Anche la loro posizione o la loro grandezza, cessa di essere rilevante: un semaforo, un’ananas, il mantello stradale (che solitamente si attiene allo sfondo immutabile e non interagibile) o un vulcano, hanno tutti il medesimo uso finale e non presentano nessuna differenza ontologica o nella classe di utilizzo. Soprattutto, immersi in questa orizzontalità sterminata, anche noi come individui assumiamo un ruolo affine alle idee post-umaniste, che abbracciano un orizzonte anti-antropocentrico, anti-gerarchico e post-dualista. Insomma, dal momento in cui crollano quegli automatismi eterodiretti per cui le relazioni fra noi, gli oggetti che ci circondano e lo spazio che ci contiene influenzano i nostri rapporti e il modo con cui concepiamo ciò che ci circonda e noi stessi in funzione della loro presenza/grandezza/importanza che gli attribuiamo, ci consente di indietreggiare e osservare il mondo in modo nuovo e originale.

E, poiché “la Terra è piena di cose”, come dice il Re del Cosmo di Katamari Damacy, è bene iniziare a rivolgersi a quelle “cose” in modi nuovi, aprendosi all’ecologia e iniziare a riconsiderare gli effetti nocivi e deleteri di un consumismo accecato.

Andrea Bollini
Vivacchia fra i monti della Sibilla coltivando varie passioni, alcune poco importanti, altre per niente. Da anni collabora con diverse realtà (riviste, associazioni e collettivi) legate alla cultura e all'intrattenimento a 360 gradi. Ama l'arte del raccontare, meno Assassin's Creed.