The Last Worker è un racconto che non sembra saper bene cosa vuole raccontare, e che lascia spiazzati per la sua incertezza

Prima di raccontarvi del design e del racconto di The Last Worker, devo fare una premessa: se non avete un VR, non giocate. È un prodotto palesemente pensato per quella periferica, e la mia esperienza con mouse e tastiera è stata davvero pessima, sotto moltissimi punti di vista: i controlli, i comandi, l’esplorazione e la difficoltà generale del gioco vengono fortemente influenzati da questa scelta di design, e non credo che questo risultato sia solo il prodotto della mia incapacità di GamerTM. A meno che non stiate febbrilmente attendendo il gioco per chissà quale motivo, lasciate stare, anche perché The Last Worker non vale la candela: vi spiego perché.

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Ovviamente l’unica sequenza che mi ha fatto provare qualcosa è stata quella del macello.

The Last Worker inizia il suo rapporto comunicativo col sottoscritto con un piccolo file “per la stampa”, dove mi vengono spiegate a grandi linee le intenzioni del racconto e le basi del suo sviluppo. Nel testo leggo che The Last Worker mi chiede di scegliere tra “capitalismo e attivismo”: in questa dicotomia emerge un’ideologia individualista che all’inizio sembra permeare il racconto, e che effettivamente, alla fine del gioco, si dimostrerà coerente con questa premessa. Se contrastato da “l’attivismo”, il capitalismo sembra dunque non un sistema economico, culturale e sociale, ma il risultato della “non attività” dei membri che compongono la società. Il punto non pare essere quindi rivoluzionare il sistema, ma l’etica del singolo. Ci tornerò più avanti.

La parte iniziale di The Last Worker esprime sin dall’inizio una filosofia di design che a mio parere ha fatto il suo tempo: l’interazione intrattiene, mentre il testo (perdonate l’erronea e brutale scissione delle due parti, ma è per farmi capire) “fa riflettere”. Infatti, all’inizio mi trovo in un breve loop ludico dove piazziamo scatole e cartoni nei giusti “tubi” aziendali (uno per inviare il prodotto, l’altro per riciclarlo), e nel mentre la narrativa ambientale e quella esplicita iniziano a costruire le basi del racconto: ci fa sentire il cattivissimo Jeff Bezos di turno che ci costringe a lavorare; ci narra dei robot che hanno rubato il lavoro alla povera gente; crede di mostrarci l’inesauribile conflitto tra natura e cultura; vorrebbe raccontarci l’apatia del magazziniere, oramai alienato dal lavoro e dalla vita.

Perché? Perché?

Mentre quel che il gioco “dice” è dunque tragico e, per quanto banale, connesso alle realtà materiali del lavoro, ciò con cui il gioco ci fa “interagire” è “divertente”: non si avverte in alcun modo l’edulcorato e appagante stress di Wilmot’s Warehouse, né il crudo e alienante vissuto di Everyday the Same Dream. Al contrario, in The Last Worker si spara, si risolvono puzzle, enigmi, si fa stealth… ci sono anche delle inspiegabili (se non in virtù della necessità di giustificare la natura “videoludica” del prodotto) sessioni dove telecomandiamo un missile lanciato in modalità “à la Morte Nera”. Ma persino queste sessioni vengono “videoludicamente” spezzettate, divise in tranche intervallate da altrettante sequenze di stealth, because videogames.

Il gioco si trascina per circa 5-6 ore in un trionfo di stereotipi e banalità distopiche (riuscirà mai il videogioco medio/alto budget ad affrontare un tema sociale senza doverlo metaforizzare?), con un gameplay a tratti leggermente più in linea con i temi trattati, ma generalmente più intenzionato a far sbloccare sessioni che a dire qualcosa di connesso con quel file testuale di cui vi ho parlato prima.

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A rendere il tutto quasi parodistico ci pensano poi i vari finali (uno “vero”, tre “possibili”), che finisce persino per umanizzare il cattivo rispetto alla Resistenza, un movimento politico che incontriamo nel corso della storia e che nel tempo ci chiede di scegliere da che parte stiamo. La gestione dei finali rende quello a favore della Resistenza il più crudo, cattivo e negativo per il protagonista, che al contrario vede nella scelta “carrieristica” un esito deludente ma non mortale, e che in quella “familiare” trova invece il “good ending”. Insomma: va bene lottare per il giusto, però con pacatezza, ordine, buon senso. Tanto, possiamo aspettare, no?

In breve, The Last Worker impiega tra le 5 e le 6 ore per dire “estremismo male, egoismo bene”, condendo il tutto con una paura aprioristica della tecnologia, sessioni ludiche francamente inspiegabili e un racconto che per assurdo finisce per dire quel che la colonna sonora del gioco critica agli altri discorsi contro il potere: “I was gonna fight fascism, but I just didn’t wanna be rude“.