Nel profondo Dei Caraibi, l’Isola di Melee…

Inizia così una storia lunga decenni, fatta di aspiranti pirati, fantasmi e scimmie a tre teste. Una storia iniziata esattamente nel 1990, finita nel 2011, ma che continua tutt’oggi ad essere omaggiata con piccole citazioni da molti giochi attuali. Con la sua ironia, la sua demenzialità e le sue innovazioni, Monkey Island è il perfetto esempio di come un videogioco possa diventare non solo una pietra miliare amata da tutti, ma anche la rappresentazione di un’’avventura fatta di emozioni, viva e che trascenda il semplice “punta e clicca” fatto di pixel colorati. Monkey Island è prima di tutto una storia stupenda e poi un videogame.

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Per Monkey Island, quest’avventura inizia nel 1985 quando Ron Gilbert entra a far parte della sempre troppo compianta LucasArts. Programmatore pieno di idee, Gilbert mette a punto un nuovo linguaggio di scripting dall’acronimo SCUMM, Script Creation Utility for Maniac Mansion, linguaggio che ha poi influenzato tutti i classici giochi punta e clicca della LucasArts, rendendo le azioni da compiere in-game più immediate e soprattutto variegate anche e grazie ad una programmazione dell’inventario molto più semplice.
Perché vi parlo dello SCUMM, direte voi… beh, dovete sapere che, inizialmente fu creato per Maniac Mansion, appunto, è stato proprio Monkey Island che lo ha reso così conosciuto agli amanti delle avventure grafiche; ma ritorniamo per un attimo al nostro programmatore.
Qui alla LucasArts, Gilbert fa la conoscenza dei game designer Tim Shafer e Dave Grossman, ed è con il loro aiuto che si dedica alla creazione e allo sviluppo di Monkey Island. A fare da ispirazione al suo genio, nientepopodimeno che una delle attrazioni più famose di Disneyland, il percorso sui tronchi dei Pirati dei Caraibi (già, proprio quella che ha dato vita al tanto amato e sognato Jack Sparrow e alla sua saga!) e il bellissimo “Mari Stregati” (On StrangerTides”, del 1987) di Tom Powers. E non posso esimermi dal farvi notare come anche questo libro sia stato ispirazione per uno dei capitoli della saga dei Pirati dei Caraibi… sarà una semplici coincidenza? Io non credo, direbbe un famoso conduttore televisivo.

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La storia si può racchiudere come un triangolo amoroso tra il protagonista, un biondino di nome Guybrush, l’oggetto del suo amore e governatore dell’arcipelago caraibico nonché successiva signora Threepwood, Elaine Marley., ed il cattivone di turno, ectoplasmatico, crudele eterno bambinone (e presto capirete perché), il temibile pirata fantasma LeChuck. Che detto fra noi, ricorda molto un altro pirata ectoplasmatico televisivo…ma stiamo divagando.
Nonostante l’ambientazione sia ovviamente piratesca, gli scenari sono vari, e quasi sempre pieni di ironia e demenzialità. Si inizia dalla taverna piena di pirati, chiamata SCUMM bar non solo per il gioco di parole con scam, ma anche in onore, appunto, al linguaggio di scripting che lo stesso Gilbert aveva ideato anni prima. Troviamo poi un circo, dove il nostro eroe si cimenterà nel volo di Icaro, fino ad arrivare ad un negozio di navi usate, gestito da un epilettico, iperattivo, esaltato venditore di nome Stan. Addirittura, nel secondo capitolo di Monkey Island lo scenario sarà un Luna Park ideato dallo stesso LeChuck.
Ed è proprio la sua demenzialità, ad aver portato al successo Monkey Island. Ma badate bene, è una demenzialità ad alti livelli, fine e mai esagerata; personaggi che sono a conoscenza di trovarsi in un videogioco, duelli a suon di offese (chi non ricorda i classici “combatti come una mucca” o la sempreverde  “Guarda, dietro di te! Una scimmia a tre teste”), le tre prove per diventare un pirata e molto altro ancora sono solo alcuni esempi di come l’ironia sia un elemento cardine nell’intero parco narrativo della serie.
È un titolo questo, non solo demenziale, ma anche innovativo sotto un punto di vista tecnico. Tutte le avventure grafiche dell’epoca, come Maniac Mansion, appunto, o quelle targate Sierra On-line, erano davvero “hardcore”; bisognava salvare spesso, stare attenti alle azioni da fare o dove andare, pena la morte del protagonista o il ritrovarsi in un vicolo cieco. Questo, invece, è stato il primo gioco a non permettere né la morte del protagonista, né la possibilità di bloccarsi e il conseguente ritorno ad un salvataggio precedente. È stato un gioco pioneristico e che ha cambiato non solo il modo di vedere le avventure grafiche, ma anche il modo in cui approcciarsi ad esse, aprendo le porte alle migliaia di avventure successive, che lo hanno poi omaggiato in ogni modo (ma anche titoli più action come Unepic o Dungeons of Dredmor, non si sono esonerate dal farlo).

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Monkey Island, i suoi personaggi, e la sua demenziale ilarità rimarrà sempre nei cuori di noi giocatori nostalgici, e se siete tra quelli che hanno avuto la sfortuna di non conoscerlo, fortunatamente dal 2010 è presente in tutti i negozi la Special Edition dei primi due titoli (gli unici ideati da Ron Gilbert), quindi potrete gustarvelo sia con una nuova veste grafica, che il gioco originale, con tanto di commenti del team di sviluppatori e ovviamente dello stesso Ron Gilbert.
Piccola curiosità: Il nome del protagonista si deve, in parte, all’editor grafico usato da Steve Purcell per la realizzazione del gioco, il Deluxe Paint. Sostanzialmente, l’editor aggiungeva ai suoi file l’estensione .brush, ed essendo il nome del file “Guy” (ragazzo, in inglese) il file diventò, appunto, “Guy.brush”. Decisero di tenere il nome come simbolo dell’ironia che pervade il gioco. Addirittura, all’inizio del primo capitolo targato 1990, è possibile vedere il nostro eroe difendersi dalle offese verso il suo nome con un bellissimo: “Non è neanche un nome”. E’ divertente da notare anche come il suo cognome, Threepwood, sia stato scelto apposta per la sua difficoltà di pronuncia; non sarà raro, infatti, notare come molti personaggi sbaglieranno sempre a pronunciarlo due o tre volte di file, prima di ripeterlo correttamente. Mi sembra giusto e doveroso, infine, segnalarvi come il suo secondo nome, Ulysses, sia in realtà stato aggiunto nel quarto capitolo della saga uscito nel 2000, pubblicato sempre dalla LucasArts ma senza l’apporto di Ron Gilbert, il quale ha partecipato e ideato solo i primi due capitoli dell’intera saga.