Stay Nerd ha avuto il piacere e l’onore di intervistare Paul Di Filippo, grandissimo ed eclettico scrittore di fantascienza statunitense e critico di letteratura per moltissime riviste di settore, nonché primo autore ad aver usato il termine “steampunk” nel titolo di una propria opera. Proprio in questi giorni Paul è infatti ospite della SteamCon, convention internazionale dello Steampunk che si svolge a Pisa, con un racconto inedito. Scopriamo insieme com’è andata la nostra chiacchierata, nel resoconto dell’intervista!

Ciao Paul, innanzitutto grazie mille di quest’intervista da parte di tutta Stay Nerd.

Grazie a voi, sono onorato di quest’occasione. Potere ai lettori, geek e nerd di ogni sorta!

Sei uno scrittore professionista da ormai oltre due decadi e la tua produzione è enorme, ma come ricordi i tuoi esordi?

Non faccio fatica a ricordare il dolore associate alla scrittura della mia prima storia. Avevo scritto molte colonne umoristiche per fanzine, ma mai cose di narrativa. È stato come una seduta dal dentista, trovare le parole e mettere in ordine la trama. Il risultato era di 4000 parole, e ovviamente non è mai stato pubblicato. Così come I successive cinquanta o più! Ma dopo aver perseverato un anno, avevo consapevolezza di ciò che stavo facendo, e dero migliorato al punto di iniziare a raccontare buone storie e venderle.

Hai esplorato sia il cyberpunk che lo steampunk, usando personaggi storici come protagonisti. In questo senso quanto è importante per te la veridicità scientifica e storica? Preferisci un approccio aderente alla realtà o semplicemente segui l’istinto? E se sì, a che prezzo?

Mi sforzo di essere preciso, storicamente e scientificamente, dal momento che ho scoperto che: 1) la realtà è un inventore migliore e più divertente e più intelligente di me; 2) sapere che certe persone o eventi sono accaduti veramente aggiunge una sorta di brivido estetico alle mie invenzioni. Le due cose, immaginazione e realtà, sono sinergiche. Ma d’altra parte, cambierei storia e scienza se questo aiutasse il racconto. Per esempio, mi ricordo che ho usato il fisico William Crookes nella mia storia Victoria, anche se la sua vera età non coincideva con la versione che ho usato di lui. Ma era un personaggio troppo convincente per rinunciarci.

Oltre all’attività di scrittore, sei un intelligente e preparato critico letterario, con pubblicazioni regolari su pezzi da novanta come Asimov’s Science Fiction o The New York Review of Science Fiction. Quanto influisce la tua preparazione da scrittore nel recensire romanzi e racconti? E soprattutto quanto l’attività di recensore influisce su quella di scrittore? Insomma, ti ritrovi a fare le recensioni dei tuoi stessi libri, mentre li scrivi?

Questa è un’ottima domanda. La fune nel vuoto su cui si cammina, tra la critica e la creazione di narrativa è un percorso che, personalmente, apprezzo molto. Ma mi rendo conto che ad altri scrittori non interessa la critica, e pochi tra i critici provano a fare anche gli scrittori! Ma quando riesci a mischiare le due professioni, poi senti che lo scrittore di narrativa diventa più simpatetico agli obiettivi degli autori che critichi, e più saggio nella creazione di romanzo, conosci i trucchi del mestiere, così come le sfide e le difficoltà, gli obiettivi. E poi il critico che è in te ti permette di analizzare il tuo stesso libro durante il processo di stesura. È una situazione di reciproco guadagno!

Sempre riguardo la tua attività di lettore, hai un autore storico che ti ha letteralmente cambiato la vita di scrittore? Quali sono i tuoi personali mostri sacri?

Da teenager divoravo tutta la letteratura fantastica che potevo, e avevo diversi autori preferiti, dai quali ho imparato tantissimo e che ho avuto davvero piacere di scoprire. Tutti i grandi nomi, ovviamente: Bradbury, Heinlein, Asimov, Clarke, Herbert. Ma anche altre figure “cult”: Silverberg, Simak, Aldiss, Moorcock, Farmer, Brunner, Dick, Ballard. Al college, mi innamorai del lavoro di Thomas Pynchon, e tendo a inserirlo al top della lista. Il mio romanzo Ciphers è un omaggio per lui.

In epoca passata, e ci riferiamo a quando noi ancora non eravamo nati, gli autori nascevano e si facevano conoscere attraverso le riviste di settore, cosa che purtroppo si sta perdendo. Ora quali sono i canali migliori per scovare nuovi talenti? E se dovessi dare un consiglio a chi vuole intraprendere la carriera di scrittore cosa gli diresti?

Sì, l’editoria stampata sta scomparendo, un peccato. Oggigiorno, come puoi vedere dai vari premi e dalle stesse nominations, le riviste online attirano gran parte dell’attenzione e dell’hype. Quindi piazzare la tua storia su una delle migliori riviste online è essenziale. Poi c’è la strada dell’auto-produzione, con esempi di bestseller come Wool e The Martian. È una scommessa in quel caso, però. Penso che il mio consiglio oggi sarebbe lo stesso che avrei dato cinquant’anni fa, consiglio che ho appreso da Bradbury nel suo saggio Lo Zen e L’Arte di Scrivere. Prima viene la storia, senza intento di vendere. Perfeziona le tue abilità narrative, e solo allora pensa al mercato!

Il mondo dell’editoria è sempre in evoluzione e tu lo vivi sia come scrittore che come fruitore. Secondo te, quanto stanno influendo le nuove tecnologie (ebook in primis) sulla proposta editoriale? Sei dell’idea che il self-publishing offerto dai colossi come Amazon stia danneggiando l’editoria tradizionale?

Gli e-book hanno avuto di certo un effetto tremendo sia sull’editoria che sul consumo di libri. Quando sono arrivati, ero scettico. Niente poteva rimpiazzare un libro fisico nel mio cuore e tra le mie mani! Ma dopo tutti questi anni, sono diventato più accomodante. Ho un Kindle e ho apprezzato una decina di e-book, letti con esso. Ma i libri fisici rimangono I miei preferiti. Sono contento che il mio lavoro sia disponibile anche in digitale. Ma la recente discesa di vendite degli e-book sembrano indicare un certo livello di non soddisfazione, intrinseco alla loro natura. Sospetto che tra cinquant’anni staremo ancora leggendo libri cartacei in abbondanza!

Hai progetti per il futuro che vorresti rivelarci, magari in anteprima, così facciamo il botto tra tutti i tuoi fan? 

Ti ringrazio per questa domanda! Ho completato un romanzo crime, The Big Get-Even, che sarà pubblicato a Gennaio del 2018. E proprio adesso sto scrivendo una breve storia intitolata Aeota, che è ispirata in parte a Philip K. Dick, in parte a Thomas Pynchon e in parte a David Lynch!

Nel tuo curriculum vanti un sacco di collaborazioni illustri tra cui anche quella con un nostro connazionale Claudio Chillemi. Come si sviluppano queste forme di collaborazione? Come si crea quell’alchimia tale per scrivere una storia a quattro mani?

Credo che la prima volta che ho collaborato fu circa trent’anni fa, con Rudy Rucker. E quest’anno abbiamo appena pubblicato la nostra più recente storia scritta insieme, un “sequel” di Alle Montagne della Follia di H.P. Lovecraft. Perciò è un po’ che lo faccio. La fantascienza ha una lunga tradizione di scrittori che collaborano, guarda per esempio la raccorda di Ellison, Partners in Wonder, di cui sono orgoglioso di fare parte. C’è sempre del compromesso, ma è ricompensato con la sensazione di stare scoprendo cose nuove dentro di te, che non avresti altrimenti potuto scoprire. Immagino che ci siano persone che non si troverebbero bene a collaborare con me ma, quando trovi una mente affine, si scrive insieme scorrevolmente, come fosse acqua. E, ovviamente, ci pensa internet a facilitare il compito!

Di tutti i personaggi che hai creato (o che si sono affacciati sul tuo schermo del computer per farsi raccontare) qual è quello a cui sei più affezionato e perché?

La figura dello scrittore nella mio romanzo breve Un anno nella città lineare, Diego Patchen, porta le mie iniziali al contrario, P.D., e lui è il mio più intimo e affezionato avatar, visto che condivide molte delle mie frustrazioni o risultati di carriera. Ma anche il giovane ragazzo in The Mill ha molto in comune con me.

Esiste una componente autobiografica nei tuoi scritti, magari ben travestita dalla mole di invenzioni con cui riempi le tue storie? O preferisci lasciare la tua esperienza personale e i tuoi ricordi lontano dalla carta stampata?

Preferisco non essere troppo autobiografico e inventare persone e posti e eventi. Ma come dicevo prima, uso anche pezzi della mia stessa vita. Qualche volta sono particolari minori. Ad esempio, un amico mi ha detto: “Mia sorella non può girare a sinistra nel traffico, perché ha paura di scontrarsi con machine in arrivo!”, e io ho donato questa caratteristica a un personaggio del mio romanzo Joe’s Liver. Va così, come una gazza ladra, si rubano piccole cose brillanti dalle vite altrui!

Con la Trilogia Steampunk sei stato il primo autore a usare questo termine nel titolo di un’opera: senti di aver definito i canoni di un genere che affonda le radici nei romanzi di Jules Verne, ma che è sempre sfuggito a una semplice etichettatura, o la denominazione steampunk per una trilogia molto varia per temi e approccio è stata usata per un altro motivo?

Ero assolutamente consapevole della nascita formale di questo sottogenere, e ho provato in quelle tre novelle a mettere in pratica alcuni dei risultati che penso si possano raggiungere attraverso di esso, in opposizione a tutto ciò che si può ottenere con gli altri generi di fantascienza. Non volevo precludere altri approcci, ma solo delineare le mie preferenze, come visto in altri miei lavori steampunk, più tardi. Oggi, il genere è molto più ampio e vario di quanto potessi mai prevedere, e sono felice di aver avuto un piccolo ruolo nel disporne le fondamenta.

Tu sei nato a Providence come un altro grande scrittore, Lovecraft. Questa “vicinanza” ha in qualche modo influenzato la tua carriera?

Assolutamente! Quando cammini sulle stesse strade di un predecessore tanto Famoso, non puoi che assorbirne la medesima essenza. Lui è sempre un fantasma benevolo che fluttua sulla mia spalla, mentre scrivo. Anche se forse mi avrebbe considerate un immigrate Italo-americano di troppo!