Quanto si vuole ancora abusare dello strumento remake? Ci sono casi in cui si può evitare? 

l 28 marzo 2022 agli Academy Awards ha trionfato, ottenendo il premio come Migliore Film, CODA – I segni del cuore, pellicola di Sian Heder. È la storia di un’adolescente che scopre di avere una grande capacità nel canto ma che appartiene a una famiglia di sordomuti, di cui lei è l‘unica udente. La vera particolarità è che gli attori che interpretano sua madre, suo padre – Troy Kotsur, che ha vinto anche l’Oscar come Migliore Attore Non Protagonista – e suo fratello sono davvero sordomuti, e ciò lo rende ancora più autentico.
Molto toccante e introspettivo, CODA è in realtà il remake di una produzione francese altrettanto bella e anche abbastanza recente, ossia La famiglia Bélier di Éric Lartigau, disponibile su Prime Video

La domanda potrebbe sorgere spontanea: c’era davvero bisogno di fare un remake? Perché non ideare direttamente un’altra storia, magari sulla stessa tematica, provando a dire qualcosa in più? Alla fine, nonostante alcune sottili differenze tra i due film, la trama è esattamente la stessa. Quello di Heder si potrebbe definire come tipico americano, con la protagonista Ruby (Emilia Jones) che subisce addirittura bullismo durante i suoi anni scolastici perché figlia di sordi, con un professore di musica a dir poco macchiettistico dall’accento spagnoleggiante che fa scoprire a Ruby di avere un talento così particolare da delinearla quasi come una supereroina. 

La famiglia Beliér, al contrario, non insiste tanto sulla condizione di quasi emarginata della protagonista Paula (Louane Emera) quanto sullo scoprirsi in panni completamente diversi da quelli abituali. La sua famiglia, oltre ad essere sordomuta, è proprio stravagante, e lei la adora. Perciò quando viene messa davanti alla scelta se andarsene o no va in crisi, e il dialogo con i genitori diventa, per forza di cose, molto complesso.

La famiglia Beliér è una commedia, in tutto e per tutto, e per quanto, in realtà, abbia alcuni risvolti molto avvilenti – come il momento in cui la madre confessa a Paula di aver pianto quando ha scoperto che lei era in grado di sentire – sa ritirare su il morale con i classici della musica francese e una narrazione molto leggera. 

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CODA e Beliér

In entrambi i casi la vicenda non si ferma al semplice fatto che la protagonista voglia inseguire il suo sogno. Si tratta, più largamente, di una storia di integrazione, di comprensione ma anche compassione, e di amore verso la propria famiglia.
Se si facesse la follia di vedere La famiglia Beliér e CODA uno dopo l’altro, si avrebbe l’impressione di vedere lo stesso film per due volte di fila. Alcune scene sono proprio identiche, a tratti anche le battute, e anche se alcune situazioni hanno minime variazioni – per esempio, in CODA il momento in cui viene raccontata la nascita della ragazza avviene in un momento di conciliazione tra lei e la madre – si potrebbe trovare noioso il remake. Perché, a parte l’ambientazione, CODA non aggiunge nulla di più al primo film. O, almeno, ci prova. Ma non basta.

Tutto ciò solo per dire che, probabilmente, no, non serviva un remake. Forse perché sono troppo vicine le date di uscita dei due film, dato che La famiglia Beliér è del 2014. O forse perché La famiglia Beliér aveva già detto tutto, e CODA ha aggiunto troppo poco. Si può anche avere la presunzione di dire che CODA non meritava nemmeno l’Oscar come Miglior Film, per quanto sia un’opera di livello. Ma questo è un altro discorso.

Ovviamente lo sguardo diverso dei due registi è evidente. La luce di Lartigau contro il blu plumbeo di Heder, la videocamera meno invasiva nel primo caso mentre nel secondo va a indagare in profondità le sensazioni dei protagonisti. Heder ha lavorato da autrice, Lartigau più da commediografo. E, con tutti i suoi riconoscimenti, sicuramente CODA merita di essere visto, ma soprattutto da chi non ha mai visto La famiglia Beliér. Forse, però, vedendo il primo uscito in ordine cronologico lo preferirà al secondo.

Lunga vita ai remake

Nella storia del cinema i remake sono sempre esistiti, a volte purtroppo, ma spesso per fortuna. Gli esempi sono innumerevoli. Si può partire dalle produzioni asiatiche sconosciute in Occidente che sono state rese famose grazie a loro rifacimenti, arrivando fino a film di una certa epoca che vengono rielaborati e ambientati in tempi più recenti. Di questi ultimi un episodio particolarissimo è quello di A Star Is Born di Bradley Cooper, il quale vanta numerosi meriti, tra cui quello di averci deliziato con una colonna sonora stupenda, e che fa parte di una sorta di “gruppo” di remake, tutti attinti da A che prezzo, Hollywood? di George Cukor.

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C’è poi Scarface di Brian de Palma, regista conosciuto per le sue rielaborazioni dei Grandi del cinema, che, rispetto all’originale di Howard Hawks, cambia gli affari criminali del protagonista rendendolo da gangster attivo durante il proibizionismo a narcotrafficante negli anni Ottanta. Oppure il pessimo tentativo di Spike Lee nel rifare quel capolavoro che è Oldboy di Park Chan-wook – e lì davvero non c’era bisogno di remake. O, ancora, agli Oscar di quest’anno ha partecipato anche West Side Story di Steven Spielberg, ricevendo ottimi riconoscimenti da tutti, anch’esso riprodotto da un film di Robert Wise a sua volta preso da un musical. Insomma, si possono trovare remake di ogni tipo, e i due schieramenti sono o uguale all’originale o film con qualcosa in più. 

Ovviamente se si fa riferimento a un film di un certo periodo storico e se ne crea un altro ambientandolo in epoca completamente diversa dovrebbe essere più facile creare un’opera particolare. È evidente che quando si cerca di attenersi troppo all’originale la critica sta dietro l’angolo. Perché diventa quasi inutile replicare completamente un film, a meno che il primo tentativo non sia fallimentare. Si rischiano talmente tanti confronti da non avere i giusti riconoscimenti. Come successe a Luca Guadagnino, che ha creato un nuovo Suspiria del maestro Dario Argento che di nuovo, alla fine, ha ben poco. 

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Quando è troppo…

I remake non sono da disprezzare, che sia chiaro. Quando si aggiunge qualcosa in più all’originale è sempre meglio. Non perché debba per forza esserci differenza tra uno e l’altro film, ma perché, altrimenti, diventa solo un esercizio di stile che, per chi non è davvero appassionato e preparato, non viene apprezzato né tantomeno giustificato. A parte con CODA, a quanto pare.

I remake citati non sono abbastanza per definire quanto potenziale possa avere questo tipo di riscrittura, che, come già detto, spesso riscrittura non è. C’è la possibilità che possa diventare un’esperienza visiva piacevole e che arricchisce lo spettatore, come, ad esempio, in The Departed di Martin Scorsese. Bisogna saper solo cogliere la situazione giusta, e approfittarne. Si può vincere addirittura l’Oscar.

Sara Claro
Sono romana “de Roma”, nata nel 1995. Dopo un (noioso) percorso scientifico al liceo, mi sono laureata in Letteratura Musica e Spettacolo alla Sapienza. Amo il cinema e amo scrivere: due attività che, messe insieme, possono dare tanti frutti.