Alla scoperta dell’alieno

L’alieno è sempre stato uno degli argomenti più interessanti, e più esplorati, della letteratura fantascientifica. L’uomo si è sempre sentito attratto dalle storie in cui il protagonista si affaccia all’ignoto, vuoi per un’innata sete di scoperta, o per un’altrettanta innata sete di rivalsa, che vedeva dato protagonista superare gli ostacoli dello spazio. È stato il caso dei racconti dei primi anni del Novecento. In questi l’alieno era ritratto, la maggior parte delle volte, come qualcosa di mostruoso e di conseguenza tale concetto si affiancava spesso, se non sovrapponendosi del tutto, all’immagine di un nemico, di qualcosa che comprende al suo interno tutto ciò che non è terrestre, e per questo ripugnante.

È il caso dei BEM, i Bug Eyed Monsters, ovvero i mostri dagli occhi d’insetto, molto diffusi nelle prime storie di fantascienza americana comparse sulle riviste pulp. Ovviamente non si tratta di una coincidenza: proprio perché l’alieno doveva essere rappresentato come nemico o ostacolo dell’uomo, le sue fattezze dovevano rifarsi a ciò che l’uomo trovava di più ripugnante, come insetti, molluschi e tante altre creature percepite come sgradevoli e disgustose.

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Col passare degli anni però l’idea dell’extraterrestre ha tempo di maturare, soprattutto durante il periodo della fantascienza sociologica, nata intorno agli anni Cinquanta e che segue quello della Golden Age (iniziato nel 1939), fino ad arrivare ai giorni nostri. L’alieno continua a rappresentare il diverso – se rappresentasse l’uguale non avrebbe senso chiamarlo alieno – ma inteso più sotto forma di qualcosa da scoprire, da decifrare, da comprendere. Diventa un enigma e molti racconti spostano l’attenzione dal terrestre all’extraterrestre, facendo ruotare le trame attorno il confronto tra ciò che umano e ciò che non lo è. Ultimamente è uscito per Codice Edizioni un libro dal titolo Come costruire un alieno: ipotesi di biologia extraterrestre, di Marco Ferrari. Si tratta perlopiù di un trattato di biologia (terrestre) in cui l’autore, ripercorrendo i passi evoluzionistici che hanno portato alle recenti forme di vita, cerca di trovare dei punti di contatto, dei caratteri universali, possibilmente applicabili nella formulazione ipotetica di una forma di vita aliena, il più scientificamente accurata possibile.

Ora, nulla è certo al cento per cento quando si parla di extraterrestri, visto che non ne abbiamo mai visto uno, e quindi siamo privi di metri di paragone per formulare qualcosa di preciso. Ma dato che viviamo tutti nello stesso Universo, e visto che molte leggi della scienza sono inoppugnabili, quello che Marco Ferrari riesce a fare è cercare di avvicinarsi alla verità, almeno quella che per noi potrebbe essere percepita come tale. All’interno del libro vengono fatti numerosi esempi, prendendo spesso in esame storie di fantascienza che hanno avuto il pregio di ipotizzare sotto alcuni punti di vista come potrebbe essere un organismo alieno più o meno realistico. Marco Ferrari fa un’analisi quasi esclusivamente biologica dell’alieno, ma in questo articolo ci soffermeremo anche su un aspetto meno fisiologico e più inerente la comunicazione. D’altro canto, sono convinto che anche la cosa visivamente più allucinante, se pensasse e parlasse come un umano, desterebbe scalpore solo per un breve periodo di tempo.

L’alieno: un enigma biologico

Partiamo con uno dei racconti dei primi anni della Golden Age: Il distruttore nero di Alfred Van Vogt, autore di punta del periodo e dotato di una creatività sconfinata. Una delle caratteristiche di Van Vogt è il fatto che ci fa spesso assumere il punto di vista del mostro, quasi sempre all’inizio della storia. All’inizio del racconto, l’autore descrive una scena in cui vediamo il nostro alieno alla disperata ricerca di cibo. Nel suo libro, Come costruire un alieno, Marco Ferrari si sofferma spesso su quale potrebbe essere una definizione universale di vita. Vita è ciò che combatte l’entropia e che si occupa di accumulare e usufruire di energia. Questo permette alla vita di andare avanti, di portare a compimento le proprie funzioni, qualsiasi esse siano. Partendo da ciò Ferrari prova a immaginare come potrebbe un alieno procurarsi tale energia, prendendo a esempio gli organismi presenti sulla Terra, e di quale tipo di energia si potrebbe trattare.

Nel racconto di Van Vogt il nostro alieno è alla ricerca di una sostanza denominata id, che si scopre più avanti essere il fosforo, ma c’è dell’altro. Van Vogt non solo si occupa di descrivere una scena di caccia, ma di descrivere il mondo e la storia che ruotano attorno all’alieno, alla sua specie. Questo ovviamente tramite una spedizione umana che scende sul pianeta per studiarne le caratteristiche. L’alieno ovviamente non è contento di ciò, vede gli umani come nemici e gran parte del racconto si concentra sulla lotta tra le due parti. Ma l’aspetto interessante risiede nel fatto che quello che sembrava una sorta di gattone alieno nero con i tentacoli e le antenne, il distruttore nero, è in realtà una specie senziente, un’altra forma di vita dotata di un’intelligenza simile o superiore a quella umana. O almeno lo era. Il pianeta su cui sono ambientate le vicende è ormai in rovina, la civiltà dei gattoni è decaduta e, come spiega uno degli studiosi nel racconto, quella che doveva essere stata una civiltà fiorente e avanzata è collassata gettando nel caos l’intera specie e facendola regredire ad uno stato selvaggio in cui a prevalere sono esclusivamente gli istinti più basilari. Racconto interessante, che apre la strada a molte riflessioni, ma l’alieno di Van Vogt non è proprio un enigma. Molte delle sue caratteristiche possono essere fatte risalire al nostro mondo, e non c’è realmente nulla di così alieno da poter mettere in discussione le nostre certezze. Si tratta comunque di una visione non scontata.

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Più alieno è sicuramente il grande oceano gelatinoso che copre l’intera superficie del pianeta Solaris. Nel libro dal nome omonimo, pubblicato la prima volta nel 1961 dall’autore polacco Stanislaw Lem, possiamo trovare una forma di vita veramente aliena. Per veramente aliena intendo una forma di vita completamente diversa da ciò cui siamo abituati. Parliamo infatti di un pianeta dominato da una sola specie, un enorme organismo che ne ricopre per intero la sua superficie, senziente ma incomprensibile.

Solaris viene citato proprio da Marco Ferrari, che ne parla usando la definizione di pianeta monospecifico, ovvero dominato da un’unica specie. In questo caso troviamo un organismo diverso, che possiamo definire alieno, ma questo non vuol dire che sia più realistico. Sempre per citare il libro di Ferrari, potrebbe non essere raro, nel caso ci sia veramente vita su un altro pianeta, trovare organismi simili alle nostre. D’altronde se degli schemi evolutivi hanno funzionato sul nostro pianeta perché non dovrebbero funzionare su un pianeta dalle condizioni simili? (Visto e considerato che le condizioni per ospitare la vita sono bene o male le stesse ovunque, almeno per quello che ne sappiamo).

Da questo punto di vista il racconto Nonno di James H. Schimtz rispecchia quest’ultima considerazione. Il protagonista è un ragazzo di quindici anni estremamente curioso che si trova, insieme ad altre persone, su un pianeta selvaggio da poco colonizzato. Su questo mondo le forme di vita sono estremamente bizzarre. Alcuni di quelli che noi definiremmo animali sono in realtà organismi sviluppatisi da vegetali, un’altra delle ipotesi portata avanti da Ferrari nel suo libro, ovvero quella di vegetali dalle caratteristiche animali.

È il caso del Nonno che dà il titolo al racconto. Viene descritto come un’enorme ninfea dalla lunga testa conica e che si nutre piazzando le sue radici nel sottofondo fangoso dei corsi d’acqua per ricavarne nutrimento. Tale animale – o vegetale che dir si voglia – viene utilizzato dai coloni come zattera per spostarsi lungo la baia in cui si sono stabiliti. Oltre al nonno, l’autore descrive un ecosistema coerente di questa Baia, delineando la fisionomia e le abitudini dei vari abitanti che la popolano, in cui il rapporto tra preda e predatore la fa da padrone. Il merito di James Schimtz è stato quello di descrivere forme di vita sotto alcuni punti di vista molto simili a quelle terrestri, ma allo stesso tempo creare qualcosa di diverso, non solo nelle forme, ma anche nelle abitudini di questi alieni, aprendo la strada a nuove ipotesi e possibilità.

L’alieno: un enigma comunicativo

Abbiamo visto fino adesso l’alieno nella sua forma più superficiale, ovvero il modo in cui si presenta visivamente, e delle forme bizzarre che la vita assume su diversi pianeti, a seconda delle condizioni con cui essa è costretta a fare i conti. Ma come pensa un alieno? E come comunica? Il modo di comunicare dell’uomo si basa principalmente sulla produzione di fonemi prodotti dal passaggio dell’aria tramite vari canali come faringe, lingua, palato molle, denti, etc… che producono suoni diversi. Da questi suoni, messi in uno specifico insieme, nasce la lingua parlata (per semplificare parecchio). Ma se gli alieni non avessero, come è molto probabile, una laringe, una lingua, un palato molle e via dicendo? Se non avessero le orecchie per ascoltare? Inoltre una lingua, o comunque un sistema comunicativo, si basa anche sul sostrato culturale di un popolo, bisogna quindi tenere in considerazione che costrutti linguistici per noi così comuni, come domande, esclamazioni, ma anche solo l’esprimere un’emozione tramite il tono della voce, potrebbero non essere presenti all’interno di una possibile società aliena.

Partiamo con il racconto Storia della tua vita di Ted Chiang, e che forse molti di voi conosceranno sotto forma di trasposizione cinematografica come Arrival, di Denis Villeneuve. Nel racconto la protagonista è una linguista che, in seguito all’arrivo di alcune navi aliene sulla Terra, viene incaricata dal Governo di decifrare la lingua degli ospiti, e possibilmente scoprire il motivo del loro arrivo. Si scopre ben presto che questi alieni, chiamati eptapodi per la loro forma a bottiglia sorretta da sette arti, come gli umani, presentano sia una lingua parlata che una scritta, e già questo potrebbe non essere un comune denominatore per le varie civiltà dell’Universo (se esistono).

C’è però un problema: se per noi umani la lingua scritta rispecchia in pieno la lingua parlata, per gli eptapodi la lingua scritta presenta regole completamente differenti dal parlato. Nel racconto la protagonista compara la scrittura degli eptapodi alle equazioni matematiche, o alle notazioni della musica e della danza. Questo perché la loro lingua scritta prevede l’uso di logogrammi che si intersecano tra di loro, e a seconda di come vengono uniti agli altri logogrammi creano frasi dal significato differente. Immaginate quindi di scrivere con le note musicali per comunicare qualcosa di specifico come “Ho mangiato una mela”.

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Il racconto si basa sulla teoria linguistica Sapir-Whorf, la cui attendibilità è stata però più volte messa in discussione. La teoria sostiene che la lingua madre di una persona determina il modo in cui pensa. Ciò si collega alla lingua degli eptapodi per quanto riguarda la loro visione del mondo. Si scopre nel racconto che questi hanno infatti sviluppato una coscienza di tipo simultaneo, ovvero percepiscono gli eventi tutti in una volta sola:

“Gli eptapodi non sono né liberi né schiavi, per come intendiamo noi questi concetti. Non agiscono secondo una propria volontà, e non sono neanche degli automi in balia degli eventi. A caratterizzare la loro consapevolezza non è solo il fatto che le loro azioni coincidono con gli eventi della storia, ma anche che le loro motivazioni corrispondono agli scopi della storia. Agiscono per creare il futuro, per mettere in scena una cronologia”

Potremmo semplificare dicendo che gli eptapodi vedono nel futuro, e che ciò si ripercuote quindi nel modo in cui parlano e scrivono. Soprattutto, sempre per la teoria Sapir-Whorf, questo si nota quando è la protagonista ad imparare la loro lingua, che le apre le porte per una visione del mondo totalmente diversa, quasi inconscia.

Il merito di Ted Chiang è stato quello di riuscire a creare un rapporto credibile tra due razze, quella umana e quella degli eptapodi, divisi da mentalità così diverse, eppure non per questo inconciliabili.
Ma se gli alieni non usassero la voce e le parole per comunicare?

Da questo punto di vista emblematico è il libro Il segreto degli Asadi di Michael Bishop. Gli Asadi sono alieni apparentemente privi di qualsivoglia socialità. Si riuniscono in quella che viene definita la Landa unicamente per mangiare e riprodursi, ma verso la fine del giorno si ritirano nuovamente nella giungla. Nonostante la loro antisocialità, gli Asadi presentano comunque un sistema comunicativo, un sistema non linguistico. Infatti, i loro occhi sono spesse lenti multicolori con cui creano sequenze caleidoscopiche usate per comunicare. Anche Marco Ferrari, negli ultimi capitoli del suo libro, teorizza diverse possibili forme di comunicazione degli alieni, tra queste anche una di tipo visivo. Nel libro di Bishop inoltre si presuppone che gli Asadi non abbiano solo una forma di lingua parlata – passatemi il termine – ma anche una forma scritta. In un vecchio tempio a forma di pagoda viene ritrovato quello che viene definito un libro visivo, un oggetto che simula gli schemi di colori usato dagli Asadi per comunicare.

Quello dell’alieno è un tema che serve a mettere in discussione ciò che conosciamo. Per creare civiltà realistiche, o che comunque risultino veramente aliene, bisogna per forza di cose andare oltre le nostre certezze e avventurarsi in terre ignote e inesplorate. È il motivo per cui è un tema così caro tanto agli autori di fantascienza come anche ai lettori. Fa quindi piacere vedere come la figura dell’alieno, con il tempo, è stata cominciata ad essere trattata con meno superficialità ed è esaltante sperare cosa ci possa ancora riservare il futuro riguardo le possibilità che tale argomento presenta.