L’ultima, maestosa opera di Beyoncé è una grande celebrazione della cultura africana, che non lascia però privi di scetticismi.

Partiamo dal presupposto che Black is King sia bellissimo, come qualsiasi cosa faccia Beyoncé. Il visual album della cantante è un frenetico viaggio visivo nelle più disparate influenze africane con l’obiettivo di celebrarne la cultura e di farne un po’ di sano “black pride”. Lo fa sulle note di The Gift, l’ultimo disco della cantante e colonna sonora del remake de Il Re Leone, uscito al cinema la scorsa estate.

Ancor prima di essere pubblicato, Black is King ha ricevuto numerose critiche da parte della comunità afroamericana per quello che sembrava essere un’ennesima ostentazione materialista della cultura di riferimento, piuttosto che un ritratto sui valori della stessa. E in parte, avevano ragione. È bene tener presente che stiamo pur sempre parlando di un’operazione commerciale, messa in atto da quella che forse è la più grande popstar del nostro tempo. Parlare di Beyoncé non significa solo chiamare in causa una persona, ma anche un brand, in questo caso in collaborazione con quella che è la più grande industria d’intrattenimento del mondo, la Disney.
Black is King è un’esclusiva Disney Plus, e questo la dice già molto sul target di riferimento dell’opera. Forse il più grosso fraintendimento deriva quindi dalle intenzioni di Beyoncé, ma chi è un minimo a conoscenza della sua carriera, conoscerà anche la lotta femminista e antirazzista che è sempre stata costante nei contenuti di Queen Bey.

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L’identità di Black is King nella carriera di Beyoncé

Ad esempio, Black is King non si distacca troppo da Homecoming, film di Beyoncé in cui la performer ripercorreva l’esibizione e il dietro le quinte del suo concerto di Coachella 2018. Anche in quel caso si trattava di un’opera celebrativa della creatività nera di ballerini, musicisti e coreografi, esattamente come Black is King fa con le proprie figure lavorative. Sicuramente una celebrazione di cui si sente sempre di più il bisogno, visti i tempi recenti e la non cessante apartheid produttiva presente a Hollywood.
Su quest’ultimo tema, la Disney è purtroppo soggetta ad adagiarsi su una lunga lista di ipocrisie culturali, di cui si è macchiata nel corso del tempo, anche recente. Forse non è questo il luogo per elencare queste criticità, ma lo faremo lo stesso.

Partiamo da Il re leone stesso, film di animazione premio Oscar del 1994. Nonostante sia ambientato in Africa, non ha alcun riferimento alla sua cultura (a parte Hakuna Matata) e i soli membri del cast di colore sono gli interpreti di Mufasa, Rafiki e delle iene, mentre per il resto della crew si parla di persone bianche. Il remake dell’anno scorso cerca di “rimediare” in parte, poggiando su un cast che promuove molto di più la diversità, con Beyoncé e Donald Glover nei ruoli dei protagonisti. Ma la pellicola è lo stesso nuovamente diretta da un uomo bianco, come lo sono tantissimi altri film Disney ambientati in culture africane o orientali. Tra questi Aladdin (sia l’originale che il remake), Pocahontas, Koda fratello orso, Mulan o Moana. Inoltre nel corso del tempo, nulla è cambiato tra le figure lavorative ai vertici dell’azienda, come sempre gestita da (vecchi) uomini bianchi.

Queste critiche, che possono sembrare pretestuose, ritornano alla mente grazie alla recente riflessione dell’attore Anthony Mackie sul razzismo all’interno dei Marvel Studios. Più nello specifico la star che interpreta Falcon parla di come la stragrande maggioranza dei film dello studio siano composti da cast e crew bianchi, mentre alle persone nere vengono lasciati film “specifici” come Black Panther o Nelle pieghe nel tempo. Nonostante quella di Mackie sia un’affermazione discutibile, è sicuramente basata su una realtà agli occhi di tutti.

Quello che succede a Hollywood ormai da tempo è un’apartheid produttiva determinata dal tipo di contenuti delle varie pellicole. Parafrasando, se un film è per neri allora avrà un cast di colore, altrimenti no. Soprattutto, le produzioni di grande successo che nascono da questo pensiero (che non si ferma solo all’industria cinematografica) mostrano la cultura africana nelle forme e nei modi che lo sguardo bianco si aspetta. Ovviamente questa non è la regola nell’industria, ma è sicuramente un sistema diffuso.

E a questo recente fenomeno, la storica Jade Bentil affibbia il nome di “wakandification”, ovvero l’utilizzo dell’immaginario universalmente identificato come appartenente all’Africa all’interno della rappresentazione mediatica. Dall’uso quindi di stereotipi legati alla cultura a topoi narrativi come la tradizione monarchica o il legame con la natura.

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Black is King e lo sguardo bianco di Beyoncé

E Black is King ha portato in auge una grossa discussione su quest’argomento. Quello che nelle intenzioni nasce come celebrazione, nel film di Beyoncé si trasforma in una discussione sociale di più ampia portata. La critica all’opera nasce infatti dal distaccamento della cantante a quella che è la realtà della propria comunità afroamericana, che negli ultimi mesi si è anche vista nel mezzo di una radicale rivoluzione sociale. Dall’alto del suo potere e della sua ostentazione monetaria, Beyoncé appare come una dea, e come tale lontana dal regno di noi comuni mortali. Sotto questa prospettiva, Black is King si trasforma in un intrattenimento borghese, e quindi soprattutto bianco. L’opera è infatti più ricollegabile a un film di Paolo Sorrentino, piuttosto che a uno di Spike Lee. E questo “white gaze” (ovvero sguardo bianco) è forse il fardello più conflittuale all’interno della classe ricca afroamericana, dove spesso ci si sente in colpa per non fare abbastanza per la propria comunità (su questo argomento, la serie Netflix #blackAF offre degli ottimi spunti a riguardo).

Per “sguardo bianco” s’intende il modo, spesso e soprattutto indiretto, con in quale l’uomo bianco guarda a persone di altre culture, aspettandosi certi comportamenti e caratteristiche sociali e comportandosi di conseguenza. Questo fenomeno è fortemente presente negli Stati Uniti, a causa delle lunghe storie di lotte razziali che si sono sviluppate nel corso dei secoli.

Ad ogni modo, Il concetto di white gaze ha origini più lontane. In Pelle nera, maschere bianche lo scrittore e antropologo Frantz Fanon si pone la domanda sul perché l’uomo nero dell’epoca della decolonizzazione si sentisse in obbligo di parlare un francese fluente quando si rivolgeva ai bianchi. La risposta deriva dal bisogno di provare a tutti i costi allo sguardo bianco l’esistenza di una civilizzazione nera. Questa attitudine si è evoluta nel corso del tempo fino ai giorni nostri, in grado di influenzare direttamente o meno soprattutto la società americana, dove la tensione razziale è tra le più forti del mondo.

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Tornando al discorso iniziale quindi, le intenzioni di Beyoncé possono esser state fraintese sì, ma è forse anche responsabilità della cantante più famosa al mondo considerare gli effetti delle intenzioni involontarie che operazioni del genere possono suscitare. Quando si sceglie un titolo così impegnativo, da distribuire all’interno di una piattaforma streaming dalla potenza comunicativa così forte, è forse bene indagare più a fondo le relazioni che la propria opera può avere con la realtà circostante.

Detto tutto questo, Black is King rimane però stupefacente. Sia per le coreografie, la fotografia, la regia e la musica di questo enorme collettivo artistico di colore. E in un mondo ideale, che non conosca il razzismo o che non abbia mai vissuto la piaga del colonialismo, potremmo goderci il lavoro di Beyoncé senza pensare a tutte le complicazioni che ne derivano. Purtroppo, però, non viviamo in quel mondo.