Bushido e splatter: il ritorno di Blade of the Immortal

Il fatto che Amazon Prime, ad appena due anni dal live action di Netflix, abbia inserito nel suo catalogo una nuova versione di Blade of the Immortal, potrebbe essere motivo di una lunga disamina riguardante la guerra tra queste due compagnie di streaming.

Potrebbe. Non è questa la sede in cui analizzeremo questo aspetto.

Ciò che ci preme è raccontare il nuovo adattamento del manga di Hiroaki Samura. La domanda è se Amazon Prime abbia fatto ancora una volta centro. E la risposta potrebbe essere sì, stando almeno a quanto abbiamo visto in questi primi episodi.

Ma non è un sì aperto a tutti. Una grande discriminante, quando si ha a che fare con opere di questo tipo, è quella di cercare sempre il target adatto. Un modo come un altro per dire che, se siete deboli di stomaco, forse Blade of Immortal non fa per voi e dovrete trovare altro sul catalogo di Amazon Prime.

In caso contrario mettetevi comodi. Preparatevi a una completa immersione nel Giappone Feudale, condita da arti mozzati, cadaveri imbalsamati, linguaggio esplicito e molto altro. Sempre che siate disposti a demolire le vostre convinzioni sulla figura del samurai.

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Siamo nel pieno del Periodo Edo, quando facciamo la conoscenza di Rin Asano, una giovane donna sopravvissuta al massacro della sua famiglia, perpetrato dagli spadaccini del gruppo criminale Itto-Ryu. Davanti alla tomba paterna la ragazza giura vendetta, ma è condizionata dalle sue capacità combattive, ancora immature e ben distanti dal livello del genitore, rinomato per la sua tecnica con la spada. Proprio di fronte alla stele funebre incontra una vecchia che le consiglia di non proseguire con la sua vendetta. Al suo attuale livello verrebbe solo uccisa.

Rin tuttavia è risoluta. Il massacro avvenuto nel dojo della sua famiglia deve essere vendicato. Per questo motivo l’anziana le consiglia di contattare una guardia del corpo, la migliore sul mercato: l’Assassino dei Cento, ovvero Manji. L’uomo è un rōnin navigato, noto per la sua leggendaria abilità con la spada. Di fronte alle richieste di Rin inizialmente rifiuta, salvo poi accettare accorgendosi della somiglianza tra la giovane e la sua defunta sorella.

Manji ha alle spalle un passato più che turbolento. Si è infatti ribellato al suo signore, sterminando quasi tutti i samurai al suo servizio, motivo per cui lo shōgun ha posto una taglia sulla sua testa. L’aver ucciso cento uomini d’onore ha portato con sé anche altre conseguenze. Manji è stato infatti maledetto, venendo infettato dai vermi kessenchu, parassiti che rendono il suo corpo immortale e capaci di curare il suo decadimento fisico. Per poter porre fine a un’esistenza tormentata, che si può potenzialmente protrarre all’infinito, il rōnin dovrà uccidere cento uomini malvagi in sostituzione dei cento samurai che lui ha massacrato.

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Ecco quindi che le strade di Rin e Manji diventano una cosa sola. Per Rin incontrare Manji è un’occasione di vendetta. Per l’uomo, al contrario, diventa la sua ultima possibilità di redenzione. Uno strano gioco di specchi, dove un’anima pura sprofonda verso gli inferi e una dannata cerca di purificarsi.

L’anime, da quanto abbiamo potuto vedere, si mantiene fedele all’opera e allo spirito di quanto raccontato da Samura. Un racconto strano, dove premesse difficili da gestire si complicano ulteriormente se consideriamo che la divisione tra buoni e malvagi non è affatto netta come potremmo pensare.

L’Itto-Ryu è davvero il male? E Manji e Rin sono il bene? O forse è lo shogunato il vero nemico dell’intera vicenda? Una premessa che già l’opera di Samura lasciava molto all’interpretazione del lettore. L’idea che emerge sembra proprio essere quella di giocare con gli spettatori, fargli chiedere se il bianco e il nero siano davvero così separati. Se il mondo di Manji e Rin non sia piuttosto fatto di una vasta scala di grigi.

Sotto il velo del sangue

Come nel manga l’anime realizzato per Amazon Prime Video sembra capace di porre l’accento su questa particolare tematica, di sicuro una delle più affascinanti della storia. I temi di The Blade of the Immoral sono splendidamente trasposti nel disegno, capace di omaggiare nella maniera giusta lo stile di Samura, graffiante, sospeso tra la bellezza artistica del tratto e la crudeltà del soggetto.

Il modo in cui Amazon Prime sceglie di rappresentare la nuova trasposizione delle avventure di Manji è senza dubbio positivo. Anche se, pure qui, potremmo trovarci si fronte a qualche piccolo difetto dovuto a scelte artistiche.

Non sarà facile per molti riuscire ad andare oltre uno stile a cui corrisponde un metodo narrativo che, almeno inizialmente, può sembrare poco organico. Eppure finiti i primi episodi è difficile immaginare un metodo migliore per raccontare la storia di Manji.

In questo sembra supportata da scelte registiche azzeccate. In primo luogo le tonalità usate per narrare la storia non sono mai troppo saturate. Il Giappone di The Blade of The Immortal viene reso con dei colori poco accesi, capaci quasi di annullarsi in determinati casi come le scene di battaglia, dove vediamo passare in secondo piano tutti le tonalità, eccetto il rosso del sangue. Questo senza dubbio fa risaltare l’impatto visivo ed emotivo degli scontri, rendendoli un fendente che improvvisamente squarcia la tranquillità della narrazione e fa irrompere la violenza sullo schermo.

Questo forse può costituire una distrazione per alcuni lettori, interessati più all’impatto visivo delle scene che alle tematiche della storia. Ma è proprio a loro che raccomandiamo maggiormente The Blade of the Immortal: se saprete andare oltre la patina di sangue e “gore”, l’anime di Amazon Prime vi stupirà.

Lo fa con una narrazione che riesce a mantenere lo spirito dell’originale e con personaggi dotati di una psicologica curata e realistica. Già dalle prime battute possiamo comprendere come sotto la superficie di Rin e Manji si agiti un mondo brulicante di speranze, passioni e paure. Demoni di cui volti e parole costituiscono solo una minuscola parte del narrato. Insomma… splatter? Sì. Ma nel modo giusto.

Addio, addio, Bushido addio!

Storia particolare quella di Rin e Manji. Una storia cupa, violenta. A tratti (molto) splatter, al punto da far pensare che la violenza presente al suo interno sia fine a se stessa, ma che – a ben guardare – non è altro che una delle rappresentazioni più crudeli e realistiche dell’epoca d’oro dei samurai, epoca troppo spesso idealizzata e guardata con rimpianto.

In effetti la figura della casta guerriera del Giappone Feudale esce dall’opera di Samura fortemente ridimensionata. Anzi, con le ossa rotte e l’immagine compromessa. Siamo abituati a pensare ai samurai come una stirpe nobile, nel retaggio e nel comportamento. Il loro stile di vita ci appare per certi versi poetico, un punto d’incontro tra l’asceta e il guerriero, illuminato dai precetti del Bushido. In questo la rappresentazione che Blade of the Immortal sceglie di dare dei samurai diventa un terribile risveglio.

La mente va a un altro prodotto simile di cui avevamo parlato a suo tempo, Dororo. L’opera del maestro Osamu Tezuka trattava in fondo argomenti simili. I vagabondaggi di un rōnin diventavano il pretesto per poter parlare del vero Giappone Feudale, della crudeltà, dei privilegi, della violenza e della meschinità della casta dei samurai. Tuttavia Tezuka optava per un approccio più morbido alla tematica. La scelta di Samura è quella di sbattere in faccia la verità al lettore (e allo spettatore) insieme a ettolitri di sangue e una bella quantità di arti mozzati.

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Sotto accusa, da parte di Samura, sembra essere soprattutto uno dei concetti fondamentali di questa casta, quello di dovere. Nutriti da una buona serie di rappresentazioni occidentali spesso confondiamo questa idea con quella di onore. Eppure sembra proprio il senso del dovere uno dei precetti fondanti della civiltà del Sol Levante.

Ma cosa succede quando il concetto di dovere si scontra con quello, più intimo e personale, di giustizia? Nel caso di Manji forse si massacrano cento uomini. Nei panni di Rin si sceglie la protezione di un efferato assassino e criminale per compiere una vendetta personale. In entrambi i casi non guarderemo più con gli stessi occhi i componenti della casta dei samurai.

Un testo che può venirci in soccorso, quando parliamo di questo argomento, è l’opera di Louis Frédéric, La vita quotidiana in Giappone al tempo dei samurai (1185-1603). Proprio nella quotidianità vediamo come il concetto di onore sia legato a doppio filo a quello di dovere, diventando il primo un’estensione del secondo.

Manji, dopo aver reciso il vincolo che lo legava al proprio padrone, avrebbe il dovere di uccidersi tramite seppuku. Eppure sceglie di non farlo, di iniziare una vita da rōnin e poi una sorta di yōjinbō. E proprio questo gesto lo condannerà a un’immortalità atroce, destinata a perdurare fino a far diventare la vita grigia e squallida. Qualcosa che in effetti ci appare una metafora dell’esistenza stessa del rōnin, destinato a essere odiato e disprezzato da quelli che un tempo erano i suoi simili.

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Lo sguardo disincantato di Samura verso l’epopea dei samurai ci appare così distante da quello scelto da Akira Kurosawa, dettato da una vena malinconica macchiata forse da una tendenza nazionalista. Ed è agli antipodi rispetto a quello poetico di Edward Zwick nel film del 2003 “L’ultimo Samurai“.

Non deve sorprendere una simile distanza tra il percepito e il vissuto. In fondo noi occidentali conviviamo con termini come cavaliere, cavalleresco e cavalleria, nel tempo diventati un sinonimo di giustizia e bontà. Qualcosa di ben distante dalla realtà della guerra medievale, nascosta da una percezione del tutto erronea dovuta all’epica e alla letteratura.

Per il Giappone ha tuttavia giocato un ruolo fondamentale l’importanza mantenuta dai samurai nella società per così lungo tempo. Un’importanza che la loro abolizione al principio della restaurazione Meiji colpì duramente la popolazione, al punto di estendere i principi di quella casta, il Bushido, all’intera società del Sol Levante.

Insomma, si tratta di un modo come un altro di idealizzare il passato. Ma, in questo caso, l’idealizzazione sembra aver avuto abbastanza fortuna da uscire dai confini nazionali, al punto da imporsi non solo nella letteratura e nelle arti del paese d’origine, ma anche nell’immaginario collettivo occidentale. Un immaginario che opere come Blade of Immortal vanno a scalfire.

Federico Galdi
Genovese, classe 1988. Laureato in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie, Federico dedica la maggior parte del suo tempo a leggere cose che vanno dal fantastico estremo all'intellettuale frustrato. Autore di quattro romanzi scritti mentre cercava di diventare docente di storia, al momento è il primo nella lista di quelli da mettere al muro quando arriverà la rivoluzione letteraria e il fantasy verrà (giustamente) bandito.