Una questione di empatia

Spesso una delle cose più difficili per lo spettatore di una serie animata è la necessità di entrare in empatia con un personaggio che non sia in carne e ossa. Non avere di fronte un (bravo) attore in carne e ossa, capace con la sua mimica facciale e la sua gestualità a trasmettere sullo schermo le emozioni scritte sul copione, può essere un limite capace di precludere il godimento di uno spettacolo. Un limite che, per nostra fortuna, arrivati alla quinta stagione di BoJack Horseman ( date un’occhiata al nostro recente speciale sulla serieancora non si è presentato. Il perché di questa alchimia che si è venuta a creare tra noi spettatori e il cavallo un tempo protagonista di Horsin’ Around è molto semplice: noi siamo Bojack. O, almeno, lui è una consistente parte della nostra personalità. Il perché? Lo diremo presto.

Per ora non perdiamo tempo e diciamolo subito: l’ultima stagione di Bojack Horseman è promossa a pieni voti. Raphael Bob-Waksberg è riuscito anche questa a volta a mantenere ad alti livelli la sua opera. A distanza di cinque anni potrebbe essere difficile credere che sia ancora possibile godersi uno show con protagonista un cavallo antropomorfo, cinico e ubriacone, capace però di mostrare in maniera cruda la spirale autodistruttiva del suo protagonista. Un protagonista che non è in grado di uscire da uno stallo che sembra portarlo lentamente verso il fondo. Forse neppure così lentamente.

Quando torniamo nel folle mondo di Hollywood ritroviamo Bojack alle prese con uno dei suoi tanti tentativi di rigare dritto. È protagonista della web serie “Philbert”, dove interpreta un ambiguo poliziotto dal passato torbido, un personaggio che sembra scritto apposta per lui. Lo show sembra destinato a sicuro successo e l’alchimia che si è  venuta a creare sul set e fuori con la coprotagonista Gina di sicuro sembra essere un incentivo per migliorare la propria vita.

Eppure le cose non sono per niente facili: a produrre la serie troviamo la storica manager dell’equino, Princess Caroline, che nel frattempo sta cercando di adottare un bambino. A sceneggiare il poliziesco c’è lo strano Flip McVicker, sceneggiatore alle prime armi ammantato da un’aura di genialità non del tutto meritata, che non sembra avere le idee completamente chiare per quel che riguarda gli eventi dello show, cosa che Bojack non manca mai di fargli notare, insieme a tutti quei contenuti che lui ritiene scontati e fuorvianti.

E dire che ci sarebbe molto da apprendere da questa esperienza. Per Horseman basterebbe fermarsi un momento, aprire gli occhi sul presente piuttosto che guardare a un futuro che non riesce a mettere a fuoco o a concentrarsi su un passato che per lui è impossibile lasciarsi alle spalle.

Ed è qui che scatta, ancora una volta, la scintilla con questo show. Quello che non si può non amare in questa nuova stagione di Bojack è proprio il modo sfacciato con cui pone i suoi protagonisti di fronte ai loro errori. Sembra quasi che l’universo narrativo indichi ai personaggi i loro problemi, segnalandoli in ogni maniera possibile. E il fatto che loro non riescano a comprendere li lascia sospesi nel loro inferno quotidiano, rendendo impossibile progredire e migliorarsi.

Emblematico, da questo punto di vista, quanto detto da Bojack sul proprio personaggio nella serie che sta realizzando «Non voglio essere lui!», dimostrandosi incapace di vedere quanto Philbert gli sia stato cucito addosso, quando ogni cosa nel solitario detective alcolizzato, dalla casa all’incapacità di fare i conti con il proprio passato, sia una parte consistente della sua personalità, trasposta per una web serie.

E lo spettatore può riderne, ma è qui che entra in gioco la grande forza di Bojack Horseman, quell’empatia di cui abbiamo parlato poco fa. Lo show di Netflix ha il pregio di essere una serie  capace di parlare al proprio pubblico, scavando con facilità negli elementi della vita quotidiana per mostrarne un quadro realistico. Perché il fatto che Bojack detesti così tanto se stesso non è altro che una rappresentazione delle tante, troppe persone che odiano se stesse a questo mondo, eppure sono incapaci di rendersi conto di questo paradosso, rimanendo bloccate nell’inferno della loro quotidianità.

Bojack, come molti di noi, non è in grado di cogliere le occasioni di maturazione che la vita ci sta offrendo. Resta cristallizzato in una persona che non vorrebbe essere, finendo per ritrovarsi in mano meno di quanto non avesse all’inizio. Lo spettatore osserva e si immedesima, apprezza e ride di Bojack quasi fosse una gesto autoironico, una catarsi per poter assolvere se stesso da tutti i suoi peccati e i suoi mali. Il tutto senza mai smettere di fare il tifo per il protagonista, sempre nella speranza, destinata a non arrivare mai, di vedere finalmente Bojack uscire dalla sua spirale, di vederlo pulito, sobrio e felice. O forse è l’esatto contrario, ama questo cavallo strafatto e alla deriva perché in fondo se può permettersi lui certe debolezze…

Insomma, Bojack Horseman ci comprende e ci perdona. E noi, alla fine di ogni stagione, comprendiamo e perdoniamo lui. Perché gli spettatori, esattamente come Bojack, si sentono le prime vittime di se stessi. Ma è giusto tutto questo? La domanda non è banale e lo show sembra tentate di dare una risposta che potrebbe non essere molto popolare.

E a svolgere il ruolo dell’impopolare grillo parlante c’è ancora una volta Diane Nguyen. La scrittrice, nonostante la crisi che l’ha scossa nel profondo, nonostante la fine del suo matrimonio e il tentativo di trovare la propria identità, resta forse l’unico essere umano razionale presente nello show. Quella che dice agli spettatori che forse non devono per forza di cose identificarsi in Bojack. Che basta davvero poco per far finire quel circolo vizioso. Se non vuoi essere Philbert… basta smettere di comportarsi come lui.

In un mondo fatto sempre di più di eclatanti scandali e sentenze di massa, l’impopolare affermazione che non è il singolo da condannare, ma quel meccanismo che l’ha creato, spetta proprio a Diane, un segnale e un grido disperato di poter tornare individui in un momento in cui tutti preferiscono essere massa. Noi non siamo le sole vittime di noi stessi: ci sono anche coloro con cui ci relazioniamo che possono soffrire. E qualcuno, come Princess Carolyn, sembra uscire da questo schema. Altri, come Todd e Mr. Peanutbutter, restano tristemente fedeli a loro stessi e al modo di fare.

Il lato personale e intimo all’interno di Bojack Horseman è ancora una volta il punto di forza di questo show, capace sia di strappare delle sincere risate che di portare lo spettatore a commuoversi e a riflettere di fronte al mondo di cui facciamo parte. Perché ancora una volta lo show dedicato al cavallo protagonista di Horsin’ Around riesce a diventare un ritratto perfetto della contemporaneità. Non solo dell’essere umano del 2018, ma anche di quelle che sono i suoi prodotti, le sue ossessioni e le sue opere. Insomma, dell’intera società.

Impossibile non cogliere e non apprezzare all’interno della serie i diversi riferimenti al movimento #MeToo che ha segnato Hollywood in questo ultimo anno, trasposti con un’ironia pungente ed efficace, capace di mettere in risalto anche quanto di sbagliato possa nascere in un’iniziativa che ha alla base dei solidi ideali. Ecco allora vedere un Bojack diventare improvvisamente un simbolo femminista, semplicemente per aver detto, in un mondo di dichiarazioni roboanti e non sempre dotate di significato, poche semplici parole di buon senso, pronunciate con un lieve imbarazzo all’interno di una trasmissione televisiva.

Ovviamente i riferimenti agli scandali che hanno coinvolto Hollywood non si fermano qui, ma vanno a prendere corpo anche nelle vite di altri protagonisti della vicenda. Da Diane, in crisi per la fine del suo rapporto con Mr. Peanutbutter e sempre più disillusa nei confronti di Bojack mentre si va avanti con la serie, a Todd, coinvolto in sviluppo di cui  preferiamo non anticiparvi nulla, ma che diventa lo specchio perfetto dell’assurdità e della follia dei tempi in cui viviamo.

Dal punto di vista dei contenuti Bojack non smette di essere una garanzia. La stessa cosa può dirsi tranquillamente anche dal punto di vista dell’esposizione, altro cavallo di battaglia di questo show. Su tutti sono da segnalare gli episodi 6 e 11. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a due episodi introspettivi in cui Bojack viene messo a nudo, segnato nel suo rapporto conflittuale con la famiglia e con un presente confuso e da cui è sempre più distaccato. Eppure, il modo di trattare un argomento già affrontato varie volte nella serie, è completamente diverso rispetto al metodo che era stato scelto nei precedenti episodi della serie. Il taglio scelto riesce da un lato ad accendere l’interesse dello spettatore verso concetti già noti, a dare loro il giusto risalto e far capire come indulgere troppo nel passato, vederlo come una scusa per non vivere il presente e non proiettarsi verso il futuro, è un modo di tornare in quella spirale che sembrava essere scomparsa.

Verdetto

Ancora una volta, sia dal punto di vista dei contenuti che da quello della loro esposizione, BoJack Horseman riesce a superare se stesso e a proporci un prodotto fresco e innovativo. Dopo la presa di coscienza arriva il momento di fare i conti con i proprio passato e cercare di non cadere ancora una volta nei vecchi schemi. Perché l’autodistruzione, quella vecchia compagna che ci porta dolcemente verso il baratro, è sempre lì ad attenderci. In questo la quinta stagione dello show di Raphael Bob-Waksberg si dimostra capace di portare sullo schermo in maniera perfetta un concetto spesso sottovalutato, quella spirale in cui tutti prima o poi sprofondiamo e da cui è bene tirarsi fuori.

 

Se amate BoJack Horseman…

Non dovete perdervi l’artbook dedicato al vostro equino preferito, pubblicato da Edizioni BD, “BoJack Horseman – Tutto quello che avreste sempre voluto sapere” opera di Chris Mc Donnell e con la prefazione della fumettista Lisa Hanawalt.

Federico Galdi
Genovese, classe 1988. Laureato in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie, Federico dedica la maggior parte del suo tempo a leggere cose che vanno dal fantastico estremo all'intellettuale frustrato. Autore di quattro romanzi scritti mentre cercava di diventare docente di storia, al momento è il primo nella lista di quelli da mettere al muro quando arriverà la rivoluzione letteraria e il fantasy verrà (giustamente) bandito.