Giorgio, innanzitutto ti ringrazio per avermi concesso il tuo tempo, e ti rinnovo i complimenti per il lavoro svolto.

Io ti ringrazio per la tua disponibilità.

La mia prima curiosità, che in genere ho sempre con gli artisti che riescono ad espandere il proprio lavoro facendosi notare anche all’estero è: tu che hai lavorato tantissimo qui in Italia sempre con grande successo…

Grazie questo lo dici tu eh, va bene comunque (ride)…

…Beh, direi di si! Hai lavorato anche in America per parecchie cose, tra cui Batman, e la domanda più banale che mi viene da farti è quindi: quali differenze hai riscontrato tra i due mondi, quello americano e quello italiano del fumetto.

Allora, prima di Batman io avevo già fatto altre cose, questo lo dico perché ci sono anche delle differenze nelle differenze. Io ho iniziato con una rivista che si chiama Heavy Metal, una rivista tra l’altro anche abbastanza famosa, poi sono tornato in Italia, settore umoristico ecc.. La differenza principale l’ho trovata nei tempi di lavoro, nel senso che lì, in America, devi fare anche 22 tavole al mese, con ritmi molto veloci, e badano molto alla freschezza; è una mia opinione personale, perché io non sono un disegnatore americano, ho fatto veramente pochissime cose, una serie di Batman, due di G.I. Joe, e qualche altro lavoro. Per quanto riguarda la mia esperienza comunque sono la velocità e l’entusiasmo, quasi eccessivo a volte, che comunque ti aiuta e ti carica. Queste sono le cose più importanti. Mentre in Italia hai un ritmo più calmo, puoi sempre avere tempo per rivedere le cose prima di consegnare tutto l’album, lo riguardi ancora e lo ritocchi fino all’ultima settimana, prima di consegnare e andare in stampa.

Questo non vuol dire che deve essere un lavoro superficiale, assolutamente no: però badano più all’impatto grafico, all’immagine, ad un certo tipo di dinamismo, di taglio più accattivante, di una libertà più personale, una gabbia più libera. Io in quel periodo dovevo scegliere tra Batman e Dylan, e ho scelto Dylan perché lo trovato più vicino alle mie corde. Questo per dire che si la gabbia è libera, ma anche la gabbia italiana è bellissima e interessante come ingombri e come spazi.

A te piace molto la tavola ben inquadrata giusto?

Sì, sì, la vedo più pulita, più curata, invece di un terzo, due terzi, la vignetta piccola e media, preferisco quadrato e quadrato, doppia e doppia. Poi il dinamismo lo metti dentro, dopo, perché se è vero che il quadrato non aiuta riesci comunque a rimanere interessante, a giocare con quella forma, invece di fare una striscia o altro…

Secondo te e la tua esperienza, il fumetto italiano ha qualcosa da insegnare, come metodo di lavoro, a quello americano, e viceversa?

Ti rispondo io come ti risponderebbe chiunque altro: ci sono tantissimi disegnatori americani che guardano disegnatori italiani ed europei e viceversa, così come tantissimi disegnatori lavorano in America. C’è certamente una commistione, il fumetto americano non è più solo quello dei super eroi, c’è il poliziesco, il noir, anche lì c’è la gabbia rigida, c’è più nero, non una linea chiara, non c’è per forza certo tipo di tratteggio. Anche lì ormai, come anche in Italia, molti progetti nuovi non hanno non hanno più una gabbia rigida, quella bonelliana per intenderci, ma hanno le strisce e gabbie più irregolari. L’importante è comunicare il meglio che ognuno ha con l’altro.

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A proposito di comunicazione, tu fai parte di uno studio di disegnatori. Una formula sempre più utilizzata tra gli artisti di settore.

Skeleton Monster, e non so se è una cosa buona o cattiva, ha fatto il contrario rispetto a molti altri studi. Molti disegnatori che iniziano si mettono insieme per essere più forti ed avere una voce più forte, noi abbiamo iniziato da soli e poi ci siamo messi insieme per fare qualcos’altro, quindi la differenza è che noi non abbiamo iniziato il nostro percorso professionale insieme, ma ci siamo scelti e ritrovati dopo, perché lo statuto della nostra associazione prevede di fare fumetto dove non c’è fumetto, quindi portare il fumetto nelle convention di qualsiasi altra cosa, portarlo nel cinema, a teatro, nelle feste in discoteca, nei meeting, dove il fumetto non è soltanto il fumetto, nella forma di pagine, vignette e baloon, ma il disegno e la comunicazione fatta tra immagine e testo.

Quindi, noi siamo partiti con Stefano Simeone, Antonio Fuso, Werther Dell’Edera, Daniele “Gud” Bonuomo, Emilio Lecce, siamo partiti noi sei e da quest’anno si sono aggiunti Lorenzo Magalotti e Fabrizio de Tommaso.

Ci sono solo vantaggi nel lavorare in gruppo?

Solo vantaggi. Io lavoro in gruppo perché prima eravamo con il Michael Kane Studio, con Gabriele Dell’Otto, praticamente ho lavorato sempre a casa, non volevo andare mai via da casa, e non sarei mai andato in uno studio. Ora, dopo aver lavorato in studio, non tornerei mai a casa a lavorare. Scegli il tuo gruppo, e poi impari più facilmente. Se c’è qualcosa che non sai fare, o che vedi in un modo, hai subito un confronto perché ci sarà certamente qualcuno che la penserà diversamente.  Quindi sei più libero di scegliere e hai un’arma in più, non sei solo con te stesso e hai un continuo confronto, e questo aiuta e basta, al di là del “non so fare questa posizione, aiutami, come la vedresti per renderla più dinamica e reale”. Noi passiamo per le scrivanie e ci aiutiamo, io copio uno per quella posa anatomica, un altro copia me per un palazzo, c’è una commistione. E io sto imparando tantissimo, perché poi sono tutti bravissimi.

Invece nelle vesti dell’insegnante come ti stai trovando?

Bene, ma è cambiato tanto: io nel 2002 ero piccolo, avevo 24 anni e insegnavo ai miei coetanei, quindi bisognava mettersi tanto in discussione, anche se questo bisogna farlo sempre. Ora sono un po’ più vecchio ed è un po’ più facile. È bello perché è come in studio, un tempo non andavo in studio e andavo a scuola, quindi li c’era un confronto, perché non c’è miglior modo di imparare che farlo nell’insegnare qualcosa, perché devi ri-studiare a tua volta l’argomento, quindi lo rivaluti, lo provi, ci ragioni, c’è un rimando, seppur più debole rispetto a quello che ti da un professionista, ma comunque c’è un punto di vista differente, quindi c’è uno scambio che a volte si ripete e a volte ti sorprende.

Hai un tuo mantra, una regola d’oro che cerchi di impartire ai tuoi allievi?

Ce ne sono tantissime [di regole], e innanzitutto è una questione di carattere e personalità. Un mantra per riuscire? Non c’è un mantra, io credo che per difetti e caratteristiche personali non bisogna soltanto saper disegnare bene ed essere accattivanti, perché non siamo disegnatori ma fumettisti, quindi bisogna disegnare sì bene, ma anche saper raccontare. Avere una sintesi più veloce, meno accattivante ma con un segno che dia più emotività. Non è solo una questione di essere fumettisti o disegnatori, ma anche il rispettare le consegne, essere veloci, sapere scadenzare il lavoro, essere puntuali e propositivi. Non si tratta di essere grandi artisti e fumettisti, ma dei gran professionisti, hai un lavoro, essere capaci di dire sì o no, e se sì essere capaci di farlo al meglio delle tue capacità. Non esiste la tavola o il lavoro perfetto, o non esiste mentre lo fai, lo giudicheranno gli altri se sarà, ma esiste il lavoro consegnato in tempo al meglio delle proprie capacità.

Tu sei un artista molto eclettico, hai lavorato a molte cose piuttosto diverse tra loro. C’è una testata, un fumetto già esistente, a cui non hai lavorato ma con cui ti piacerebbe tantissimo collaborare?

Sono molto fortunato perché io ero un lettore di Dylan Dog e lo disegno, e quindi sono già molto contento. Tanto che quando si è trattato di decidere se continuare a fare Batman, o fare altre testate, o scegliere di fare Dylan Dog, e per me erano dei personaggi molto importanti, io non mi sentivo all’altezza, dovevo studiare tanto e non potevo farli entrambi, quindi in quel momento dovevo scegliere, e ho scelto quello che amavo fare. Come con Monster Allergy: quando uscì io ne ero un lettore, e quindi sarebbe stato bellissimo disegnarlo. Se devo proprio scegliere, forse mi piacerebbe fare un Tex, anche per provare, o anche Spider Man. Io ho fatto delle prove di Spider Man ma non hanno mai convinto. Però in realtà sono molto contento di quello che faccio, e quello che sto facendo adesso è molto faticoso. Perché c’è modo e modo di farlo. Con Dylan stesso sto sperimentando, sto cambiando, sto cercando un modo più personale per raccontare, per trovare un mio posto, e già questo è molto impegnativo e mi piace tantissimo.

Sei sempre stato appassionato di Dylan Dog, ma che mi dici dell’evoluzione del personaggio degli ultimi tempi, ci lavori ancora volentieri?

Io ho iniziato prima del nuovo corso con Gualdoni che si è speso tanto per me, gli piaceva quello che facevo. Però per disegnare con Bonelli dovevo lavorare in un certo modo. Roberto [Recchioni] invece mi ha proposto di fare qualcosa di più personale, cioè di tornare indietro e di essere più rilassato a fare qualcosa di più mio, e quindi è uscita fuori un’altro tipo di linea, che mi sta incuriosendo, adesso sto facendo un percorso per arrivare a un punto, che non so quale sia, però so che c’è.

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Io penso che Lo chiamavano Jeeg Robot sia un bellissimo film, che però funziona anche come personaggio dei fumetti. Pensi che avrebbero potuto concepire una cosa a lungo termine, a livello fumettistico?

Io penso che avrebbero potuto, che potrebbero anche farlo, come potrebbero continuare con i film. In questo caso specifico che il progetto era studiato, una strategia di marketing divertente e curiosa per pubblicizzare, far vivere, rivivere, il film, e che a mio parere ha funzionato, perché tutti quelli che ho incontrato si aspettavano una serie, una continuity, un proseguo addirittura mensile.

Tu lo hai abbastanza reinventato con il tuo stile grafico, gli hai quasi donato una verve inedita. Per questo ho pensato che potesse essere un personaggio serializzabile.

Questo mi fa molto piacere, perché il fumetto è stato bello farlo, il film mi è piaciuto molto, e devo dire che è tutto molto riuscito, dal film alla comunicazione pubblicitaria, social, è riuscito tutto e non per ultimo il fumetto. Sarebbe bello, ma non dipende da me. Di cose nuove in cantiere ce ne sono tante, la stessa Bonelli tira fuori un sacco di cose, Star Comics, Bao, c’è molto fermento, e se non sarà Jeeg Robot sarà altro.

Un tuo progetto grosso in cantiere?

Andare al mare (ride). Da un po’ di tempo, a me piace molto viaggiare, ho un progetto personale che porto avanti in modo diverso, collaboro con l’Agenzia di Viaggi [una rivista], dove faccio reportage di viaggio a fumetti, e questo mi piacerebbe farlo meglio, con più tempo ed in un certo modo, cosa che sto cercando di fare ma non è facile. L’unico che si è cimentato in questo ultimamente è ZeroCalcare, o al massimo altri artisti stranieri, ed è un progetto che io avevo pensato di fare con Croce Rossa, perché sono un volontario: poi purtroppo i tempi, il budget, non aiutavano, non lo rendevano fattibilissimo, quindi ho ripiegato per una serie di straordinarie coincidenze nel farlo con questa rivista, ma è tutta un’altra cosa. Resta divertente ed interessante, ed è un modo nuovo, per raccontare e vivere un viaggio, anche se in modo breve. Questo è un grande sogno su cui sto lavorando.