Il nuovo gioco di Greg Lobanov e Finji – Chicory – è un’avventura alla scoperta delle sfumature di colore che compongono le nostre identità e dell’oblio oscuro delle indulgenze autoinflitte

Identità. È forse il tema che più in assoluto viene affrontato, svolto, discusso, dibattuto e battuto nella società in cui viviamo. È un discorso complesso, in cui possono coesistere opinioni variegate (alcune vendute come tali, altre basate su un processo più scientifico e altre ancora atte a banalizzare e ridurre il resto dei pensieri in un calderone unico) e che hanno bisogno di un certo e adeguato spazio per essere condivise all’esterno evitando ambiguità e interpretazioni incomplete. Sentirsi e riconoscere le altre persone intorno a etichette (implicando che servano), generi e pronomi sembra dunque essere il principale terreno di scontro e lotta dei nostri tempi. Un ambito che è stato trattato nei modi e nei toni più disparati – dall’aspro conflitto fino al più indiretto discorso metaforico – e che anche nel videogioco ha avuto i suoi spazi. Ultimo, ma non per importanza, è Chicory; oggetto di questo articolo. Un titolo che sceglie un percorso figurativo e indiretto per trattare il tema delle identità, ma che non per questo manca di efficacia o di precise intenzioni politiche.

Disponibile per i sistemi Playstation e su Steam, Chicory è un gioco d’avventura dei più classici. Libertà d’esplorazione, backtracking e visuale bidimensionale dall’alto connotano il titolo in modo immediato facendo capire in modo molto semplice le ispirazioni (su tutti, ovviamente, i titoli 2D della serie The Legend Of Zelda). A differenziare moltissimo il gioco di Lobanov, però, è la scelta – che in un certo senso possiamo quasi definire una dichiarazione d’intenti – di rendere tutte le interazioni che chi gioca ha con il mondo che la o lo circonda basate sulla pittura, sul dipingere e sul colore che si inserisce in modo non distruttivo e non violento in quel che tocca. Le pennellate servono ad animare, prima che a dare a chi gioca la possibilità di superare un determinato rompicapo, a donare a ogni elemento quell’identità che ha perso.

Interagire, quindi, non è soltanto un valore che serve per completare una richiesta e progredire ma ha anche un significato narrativo estremamente preciso e che soltanto con la metafora del ridonare colore alle cose e agli animali antropomorfi che abitano le culinarie ambientazioni del gioco avrebbe potuto funzionare. La trama alla base di Chicory riguarda un mondo in cui esiste un pennello magico in grado di permettere a chi lo brandisce di riempire di colori, trame, sfumature e personalità qualunque cosa sfiorino le sue setole. La persona (o meglio, l’animale) che per ultima ha avuto questo compito è quella che dà il nome al gioco (chiamata Cicoria nell’adattamento italiano, ma ci arriveremo), che in modo totalmente inaspettato ha deciso di cedere il suo posto lasciando in dote il pennello al personaggio che dovremo interpretare (personalizzabile in tutto e per tutto: dai vestiti, al nome, passando per i pronomi con cui vuole farsi chiamare dagli altri personaggi).

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Quello che sembra inizialmente un compito semplice, riportare il colore perduto a Pranzetto, Cenona e gli altri villaggi e luoghi che compongono il gioco, piano piano rivela che dentro di sé nasconde un preciso contenuto morale, comunicato in modo metaforico e allegorico. Chicory diventa quindi una discesa nella mente di Cicoria, del suo essere troppo indulgente verso se stessa e il suo ruolo. Un processo di comprensione e conoscenza di sé e di quel che ci circonda, di esplorazione di baratri che ci auto-creiamo e infliggiamo credendo di non avere il nostro posto nel mondo perché non apparteniamo a cose che già esistono. Un percorso attraverso ciò che significa identificare e identificarsi, avere un proprio modo di esprimersi e farsi riconoscere. Recuperarsi dall’autodistruzione può essere un compito duro, che prima di tutto deve partire dalla persona. Liberarsi dalle convenzioni e dalle costrizioni per recuperare la propria identità diventa, dunque, la via d’uscita.

Un tema, questo, che si inserisce in modo abbastanza coerente nel percorso lavorativo di tutte le persone coinvolte nel processo: dallo stesso Lobanov (il cui precedente Wandersong comunicava l’amore in modo apparentemente frivolo ma in realtà piuttosto adatto al contemporaneo), passando per tutte le collaboratrici e i collaboratori di Finji (che hanno lavorato a Night In The Woods, forse uno dei videogiochi più impattanti per quanto riguarda il trattamento dello spleen) e terminando con le musiche di Lena Raine (compositrice anche di Celeste, che della depressione ne racconta in modo profondo e quasi inedito).

Il lavoro compiuto da queste persone attraversa vari contesti della psiche umana e ne esplora i temi con un tatto e una profondità a tratti decisamente disarmanti. Non c’è mai colpevolezza o vergogna nel parlare di disturbi, di incapacità di inserirsi e trovare la propria dimensione: anzi tutto quanto è affrontato con le giuste dose di consapevolezza, accettazione e umanità. Nulla viene inteso per dare la sensazione di demonizzare gli aspetti della vita di qualcuno, tutto viene servito per dare invece la prospettiva e la giusta spinta verso non un cambiamento ma una presa di coscienza di sé. Ogni persona è fatta per stare in una casella propria e unica, e se la merita a prescindere.

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Per concludere: Chicory è un gioco che fa dell’identità e del percorso di rivendicazione della stessa una bandiera. Personalità e unicità vengono comunicate attraverso ogni aspetto del titolo, non lasciando nulla al caso e anzi mantenendo sempre molto alta l’asticella della peculiarità. Ogni dettaglio, dal modo in cui i personaggi appaiono alla pagina dei requisiti di Steam, è posizionato in modo tale da rientrare in un disegno armonico e definitissimo. In questo senso va fatto un plauso al gruppo di traduttrici e traduttori che si sono occupate e occupati dell’adattamento italiano. Il lavoro svolto è egregio nel rendere comprensibili le sfumature di senso originarie, adattandole con modi e usi dialettali o gergali della nostra lingua. Una traduzione radicale, schierata e desiderosa di identità come lo è il gioco in sé; che arriva alla scelta di utilizzare la schwa per indicare il pronome neutro. Un pacchetto che, nel suo complesso, rivela un lavoro collettivo con un obiettivo comune e preciso: raggiunto in modo decisamente completo.

Luca Parri
Nato a Torino, nel 1991, Luca studia scienze della comunicazione come conseguenza della sua ossessione nei confronti delle possibilità che offrono i mezzi di comunicazione e ha lavorato come grafico e consulente marketing (lavoro che ha fatto crescere esponenzialmente la sua ossessivo-compulsività per le cose simmetriche e precise). Lo studio gli ha permesso di concretizzare la sua passione per i differenti linguaggi dei media, sperimentando con mano l'analisi linguistica e semiotica; il lavoro gli ha dato la possibilità di provare a inserire la teoria nel pratico. Studio e lavoro, insieme, lo hanno portato a scrivere di, tra gli altri argomenti, grafica pubblicitaria, marketing, comunicazione e comunicazione visiva collegata al videogioco.