In occasione del Closed Network Test appena conclusosi, abbiamo provato per voi Code Vein

Il mondo dei videogiochi, come un po’ tutti gli ambiti della cultura pop, vive di mode e tendenze, inaugurate da titoli particolarmente coraggiosi e fortunati. Uno di questi è Demon’s Souls di FromSoftware, uscito ormai da dieci anni, il quale ha originato una serie (proseguita con il nome di Dark Souls, ma credo lo sappiate davvero tutti, NdR) e financo un (sotto-)genere a sé, quello dei soulslike: si tratta perlopiù di Action RPG in terza persona caratterizzati da un elevato livello di difficoltà e dalla meccanica “bloodstain”, che impone al giocatore, in caso di morte, di tornare al luogo del decesso per raccogliere le anime (o qualsiasi altra “valuta”, a seconda dei giochi) droppate. Diversamente rispetto al genere roguelike, che conosce da tempo un proprio canone, la categoria dei soulslike attualmente non è rigorosa, potendo annoverare (almeno per certi aspetti) giochi come Hollow Knight e Salt and Sanctuary, che hanno declinato queste caratteristiche di base nelle due dimensioni.

Code Vein, invece, sembra molto meno proclive all’originalità, presentandosi quasi come una versione anime di Dark Souls; o, almeno, ciò è quanto è emerso dalla nostra prova su PlayStation 4 nel periodo di Closed Network Test, che si è svolto dal 31 maggio alla mattina di oggi.

Bando alle ciance! Come si gioca?

Ora che mi sono messo l’animo in pace urlando ai quattro venti che Code Vein è un soulslike, posso rivolgermi a tutti coloro i quali non abbiano idea di cosa sia Dark Souls e raccontare di quanto ho provato con mano, corrispondente circa alla prima ora o poco più di quello che sarà il gioco completo.

Dopo la fase di creazione del personaggio tramite un editor sufficientemente ricco da non destare particolari lamentele, il giocatore deve affrontare un rapido tutorial, in cui Cruz, un esperimento fallito in seno al Q.U.E.E.N. Project, spiega i comandi di base e il sistema di classi. Dopo la confusione iniziale causata dall’utilizzo del linguaggio specifico del gioco, le cose risulteranno chiare e semplici: il nostro (o la nostra) Revenant ha un blood code particolare, che le consente di modificarlo in ogni momento; in altre parole, in ogni  momento tramite la pressione del tasto Start (ops…, Options si chiama adesso, NdR) è possibile aprire il menu e cambiare classe, con un’ovvia ricaduta su parametri, armi equipaggiabili e abilità. Queste ultime sono chiamate Gift, concetto che corrisponde perfettamente a quello di skill: si dividono in attive e passive, vengono apprese tramite punti esperienza (che qui si chiamano “haze”) e, se attive, possono essere assegnate a un tasto (che poi dovrà essere premuto assieme a R2) per l’esecuzione, che consuma “ichor” (MP), mentre quelle passive hanno quattro slot dedicati. Una volta dominati, i Gift possono essere equipaggiati anche se in quel momento non si ha in uso il corrispondente blood code.

Code Vein

Ciò detto, è già tempo di assistere a qualche misteriosa (almeno per il momento) cutscene, che rivela alcune delle peculiarità del nostro amnesico protagonista e che ci fornisce il pretesto per gettarci a capofitto nell’esplorazione del primo semplice dungeon di Code Vein.

Gli estimatori della serie di FromSoftware si sentiranno subito a casa grazie al ritmo di gioco, alla mappatura dei tasti e ai principali meccanismi del gameplay. Il giocatore ha a disposizione l’attacco leggero e quello pesante (che è pure caricabile), il drain (per assorbire ichor), la parata, la parry, il dodge roll e chiaramente i summenzionati Gift. Il ritmo è scandito dalla barra della stamina.

La grande differenza è data dalla presenza di un alleato (che comunque richiama un po’ le Summon di Dark Souls…), che può essere un NPC controllato dal computer oppure un altro giocatore online. Durante la nostra prova non si sono palesate opzioni per dare indicazioni o per impostare il comportamento dell’alleato, che invero si rivela piuttosto efficiente… pure troppo! Sono entrato nel dungeon con un alleato computerizzato, che ha polverizzato ogni cosa si muovesse fino al suo “infortunio”, occorso peraltro durante una cutscene e non per merito dei nemici. Nei pochi minuti successivi mi sono reso conto del fatto che da solo non ero in grado di combinare nulla, ma fortunatamente mi sono imbattuto in un altro alleato (che poi si scopre essere un personaggio importante), se possibile ancora più forte del precedente; la prima volta che ho affrontato il boss mi sono limitato a correre su e giù per l’arena per non farmi colpire e l’alleato ha fatto tutto il resto. Eh già…

Code Vein

Anche al netto di queste osservazioni, probabilmente il tasso di difficoltà è decisamente meno elevato rispetto a quello di un Souls a caso, anche se ovviamente non posso garantire per il prosieguo del gioco: fatto sta che quando ho provato Bloodborne, in un’ora non sono giunto al primo checkpoint, mentre in Code Vein nello stesso tempo mi sono ritrovato davanti al boss finale del dungeon, che ho sconfitto nel modo inglorioso di cui sopra. E no, ciò non si spiega con l’incremento delle mie capacità nel corso degli anni: semplicemente, a un certo punto mi sono reso conto che era facilissimo backstabbare la maggior parte degli avversari, quantomeno quelli comuni di dimensioni umane.

Quindi?

Lungi da me bollare immantinente Code Vein, che ho appena assaggiato: troppo presto per valutare moltissimi aspetti che fanno la differenza sul lungo termine, che è anche il termine più importante in questo genere. D’altro canto, non c’è nulla che di per sé non funzioni proprio, e la trama e il design potrebbero rivelarsi affascinanti, almeno per una certa fetta di utenza, contenta di cimentarsi in una variazione su tema del genere soulslike all’insegna dell’estetica anime. Nei panni di character designer troviamo Kurumi Kobayashi, già apprezzata nella serie God Eater di Shift, che sta partecipando anche allo sviluppo di Code Vein.

Sicuramente, non ne sono rimasto colpito in modo particolare, trovandolo piuttosto derivativo, quasi una versione light di Dark Souls.

Giovanni Ormesi
Scrivo di videogiochi (più o meno bene) dal 2008, dopo una decina abbondante di anni passati fra le pagine delle bellissime riviste cartacee, che purtroppo si sono perse con il tempo e con il progresso. Oltre ai videogame, sono anche un buon lettore, specialmente – per quanto attiene all'ambito nerd – di Dylan Dog. Nel bene e nel male.