Come mi è venuta l’idea

Credo che una delle domande più frequenti che un autore può sentirsi sottoporre, durante un’intervista, un incontro con i suoi lettori o una chiacchierata con un amico, sia: “Ma come ti è venuta l’idea di (nome della propria opera)?” Questa domanda denuncia in realtà un pregiudizio riguardo al processo creativo, e cioè che esso scaturisca da un qualche evento epico e interessantissimo da raccontare. Purtroppo (o per fortuna, secondo me), non è così.

C’è una scena in Ritorno al Futuro in cui Doc Brown racconta di come gli è venuta l’idea del “flusso canalizzatore”, ovvero il fantascientifico circuito tramite il quale è possibile viaggiare nel tempo. Nel film il dottore racconta che nel 1955 si trovava in bagno, è scivolato, ha battuto la testa e proprio in quel periodo di stordimento, dolore e confusione ha avuto l’idea alla base del congegno in questione. Quando Marty tornerà indietro nel tempo avrà modo di constatare di persona che è andata davvero così. Ma credetemi, non va mai così, nella vita reale. Ritorno al futuro è un capolavoro di film e quella scena è un capolavoro di ironia sul genio creativo, ma quello che succede nella banale realtà è assai meno interessante.

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Insomma se un autore dovesse procurarsi un trauma ogni volta che ha bisogno di un’idea, probabilmente in pochi arriverebbero alla terza età. E nemmeno c’è bisogno di mirabolanti viaggi ascetici alla ricerca di se stessi, o di colpi di fortuna improvvisi e inaspettati (gli stessi grazie ai quali Dr House capisce sempre che non è lupus). L’ispirazione è figlia per metà dell’esperienza personale, e per metà della curiosità per quello che non conosciamo. Nasce dal sapersi porre le domande, senza sapersi dare le risposte. È uno scavare in noi stessi, non un regalo da parte di qualche santo. O di qualche musa invisibile. Per quanto le muse invisibili esistano eh, ma esistono grazie alla nostra creatività, e non viceversa (ogni riferimento a fumetti da me scritti è puramente casuale).

Questo è il motivo per cui mento. Spudoratamente.

Ogni volta che mi fanno quella domanda, “come ti è venuta l’idea?”, invento una cosa nuova. A volte racconto di visioni divine che squarciano il buio attorno a me durante una notte tempestosa, suggerendomi il da farsi in maniera quasi biblica; altre volte parafraso spezzoni di film, fumetti o romanzi famosi in cui i protagonisti (proprio come il Doc Brown sopra citato) vengono illuminati in maniera inverosimile e parodistica; altre volte ancora invento. In quest’ultimo caso, il cerchio si chiude: sul momento arriva l’idea per un nuovo modo di descrivere come mi è venuta l’idea.

Anche perché poi, diciamocelo, non gliene frega proprio niente a nessuno di sapere come davvero ti è venuta l’idea per un’opera. All’inizio mi ricordo che raccontavo spesso la verità: alla domanda “come ti è venuta l’idea per Drizzit?” rispondevo: mi annoiavo. Se volevo essere prolisso scendevo in dettagli: mi annoiavo e per caso comprai una tavoletta grafica e mi dissi che in fondo anche io avrei potuto scrivere una striscia a fumetti, quindi buttai giù le prime strisce, un po’ per gioco, un po’ per dimostrare qualcosa non so bene a chi. Ma a questo punto l’occhio dell’intervistatore di solito diventa vitreo, su quello del lettore cala la palpebra, chi sta seguendo l’intervista inizia a giocare a Candy Crish Saga col cellulare, e tu capisci che la vera genesi del tuo fumetto è interessante quanto elencare la lista della tua ultima spesa alla Coop.

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Mi sono quindi preparato in anticipo le tre cose che racconterò le prossime tre volte che mi chiederanno “come ti è venuta l’idea di Drizzit?” o di “The Author” o di qualsiasi altra mia opera:

1) Dopo una sfida all’ultimo nigiri in un all-you-can-eat cino-giapponese di infima qualità (sfida che ho puntualmente perso) ho trascorso un’intera giornata in bagno e tra uno spasmo e l’altro ho appuntato le idee per le prime strisce di Drizzit sulla carta igienica, vergandole con un tagliaunghie e del bagnoschiuma verde al pino silvestre.

2) Dopo anni che non andavo, ho deciso finalmente di fare il bagno al lago, laddove delle alghe mi hanno avvinghiato le caviglie e trascinato negli abissi, fino ad una lavatrice abbandonata sul fondale nella quale viveva un pesce-gatto di nome Enrico, che mi ha insegnato tutto quel che so sul fumetto.

3) Una volta per far colpo su una ragazza ho detto che ero un fumettista, solo che poi gliel’ho dovuto dimostrare, quindi ho chiamato Will Watterson al telefono (mi è costata un colpo, quella telefonata) e lui è stato così gentile da tenermi alla cornetta per cinque ore, durante le quali io ho sentito solo un brusio indistinto e degli ululati di coyote. Ma da quell’esperienza ho imparato molto, e da quando ho attaccato il telefono, sapevo già che sarei divenuto un grande autore.

Luigi Bigio Cecchi