Gestire una setta non è un compito facile: Cult of the Lamb è qui a dimostrarlo

cult lamb

el boschetto della fantasia di Cult of the Lamb c’è un fottio di animaletti un po’ matti inventati da Massive Monster, che vivono in armonia sotto la guida di un agnello carino e coccoloso. C’è chi raccoglie la legna e chi invece spacca le pietre, chi prega davanti ad un idolo e chi si preoccupa di gestire la fattoria comune. Tutto molto bello, per quanto capiti spesso che non tutti escano sempre dalla chiesa al centro del villaggio (ma si può posizionare dove si vuole, in realtà) e che ogni tanto gli occhi dell’agnello sembrano nascondere qualcosa di oscuro.

Cult of the Lamb inizia il suo viaggio ribaltando il luogo comune dell’agnello come emblema per eccellenza del sacrificio, trasformandolo in un carnefice al servizio di un dio oscuro, intrappolato nelle fenditure astrali in cerca di una nuova libertà. Libertà raggiungibile sconfiggendo altri dei appartenenti al Vecchio Credo, che sembrano aver avuto validissime motivazioni per imprigionare il loro collega, tuttavia non è il caso di perdersi in questioni di lana caprina bensì di avere fede cieca in Colui che Attende (o The One Who Waits nella lingua d’Albione e del gioco) e nelle nostre abilità di combattimento e di gestione dei fedeli.

Esattamente come luce e oscurità, Cult of the Lamb l’esperienza di gioco è suddivisa in due fasi ben distinte: da una parte abbiamo un roguelike piuttosto classico, con stanze e mostri generati proceduralmente, dall’altra un gestionale in forma ridotta nel quale dovremo tenere in piedi il nostro culto personale. Mi sbrigo a fugare ogni dubbio: la formula studiata da Massive Monster funziona in modo brillante, mostrando una grande cura in diversi aspetti che rendono il gameplay frenetico in modi inaspettati, soprattutto quando entra in gioco la complementarità del tutto. Avanzare nei dungeon permette di avanzare anche nella trama principale, tuttavia sarà impossibile proseguire in modo adeguato senza curarsi dei nostri seguaci. Questi ultimi sono infatti l’unica risorsa per poter aprire nuove strade percorribili, tra cui quella del potenziamento individuale, ma hanno anche esigenze e bisogni fisiologici che non possono essere ignorati più del dovuto. Non si parla solo di necessità come fame o urgenze corporali, ma anche di epidemie e persino la possibilità di essere considerato un falso profeta dai nostri adepti.

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La cosa divertente è che non si può nemmeno parlare di sacrifici umani: i nostri fedeli sono tutti animali…

Una volta compresi questi dettagli di Cult of the Lamb, ho imparato a giostrarmi e ad amare non poco la fase gestionale, che comprende la creazione di letti per far dormire tutti e anche l’onere di cucinare manicaretti capaci di tenere a bada la fame (anche se sono previste ricette con carne di seguace ed escrementi). Una strategia molto valida soprattutto quando si decide di affrontare delle lunghe crociate, così vengono chiamate le nostre disavventure in combattimento randomico. Questo è invece il frangente che spicca di meno, probabilmente per una rifinitura non proprio eccelsa nonostante il buon lavoro svolto anche per creare un’IA di buon livello, particolarmente punitiva alle alte difficoltà e da non sottovalutare nelle minori. A ciò va aggiunto un level design infido ma intrigante, che permette ad alcuni mostri di nascondersi in modo più o meno involontario, rendendo però i combattimenti ancor più pericolosi di quanto non siano normalmente. Resta il fatto che trovare il giusto equilibrio tra le parti sia pressoché d’obbligo, anche a fronte di un calo vertiginoso della complessità generale causato da momenti in cui si è nettamente superiori in termini di abilità in confronto ai nostri nemici.

Man mano che il nostro culto cresce, infatti, ci sarà la possibilità di mettere le mani su armi sempre più letali, sia in termini di danno che in poteri come rigenerazione, veleno e persino spiriti maligni che attaccheranno i nostri nemici. D’altronde ce lo siamo meritato gestendo una comunità di cultisti devoti, affrontando un RNG che all’inizio si è rivelato parecchio avaro di risorse. Inoltre, devo ammettere di aver avuto a che fare con numerosi crash ed eventi inspiegabili non imputabili a divinità che ostacolavano il mio percorso, che mi hanno costretto ad altrettanti fastidiosi riavvii. Un problema che ho riscontrato su Xbox Series X ma che sembra essere comune a tutte le versioni del gioco, in particolare su Nintendo Switch.
È altrettanto vero che ci sono vari modi di raggiungere il potere: un po’ come diceva Mario Brega, ‘sta mano può esse fero e può esse piuma. E mi sono anche stupito personalmente a considerare gesti orribili pur di mettere le mani su quella forza extra che mi avrebbe permesso di dominare il nemico, a compiere sacrifici inenarrabili nei confronti di poveri adepti pieni di amore cieco nei miei confronti.

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Liberare un vecchio dio incatenato in un abisso eterno. Cosa potrebbe andare storto?

In sostanza Cult of the Lamb è l’ennesima produzione azzeccata di Devolver Digital: un titolo indipendente (fino a un certo punto) che ha saputo miscelare con maestranza due generi che già sanno andare d’accordo (e qualche esempio l’ho fatto anche nel mio listone di qualche tempo fa), tirando fuori un’esperienza semplice ma godibile, peraltro pubblicata in un periodo perfetto considerando la penuria di uscite ad agosto e settembre. Forse la finestra ideale per giochi che meritano un certo tipo di visibilità senza dover compiere troppi sacrifici, letteralmente.

Francesco Paternesi
Pur essendo del 1988, Francesco non ha ricordi della sua vita prima del ’94, anno in cui gli regalarono un NES: da quel giorno i videogiochi sono stati quasi la sua linfa vitale e, crescendo con loro, li vede come il fratello maggiore che non ha mai avuto. Quando non gioca suona il basso elettrico oppure sbraita nel traffico di Roma. Occasionalmente svolge anche quello che le persone a lui non affini chiamano “un lavoro vero”.