Il cyberpunk è stato uno dei movimenti letterari più influenti della fine del XX secolo, ma che eredità ci ha lasciato dopo quarant’anni?

Tutti amiamo il cyberpunk: adoriamo quelle atmosfere postindustriali, le megalopoli cosmopolite e nebbiose, gli innesti neurali e i tuffi nella Rete, gli hacker eroi in fuga dalla yakuza che smanettano linee di codice e annunciano decisi “sono dentro!” quando hanno crackato i sistemi del governo. Il cyberpunk è un posto dove ci piove dentro, letteralmente, perché ti immagini una storia cyberpunk col sole che splende?

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Eppure, proprio questa nostra fascinazione per i temi e le suggestioni del cyberpunk dovrebbe portarci a riflettere: com’è possibile che le opere prodotte da un movimento d’avanguardia il cui obiettivo era rompere con il passato, suscitare angoscia, straniamento e in casi estremi anche scandalo, oggi ci appaia confortevole e appagante? Qualcosa è andato storto, nei quarant’anni trascorsi dalla sua nascita: ma il problema è il cyberpunk o siamo noi?

C’era una volta il cyberpunk…

Potrà sembrare superfluo, ma prendiamoci prima qualche minuto per ricordare di che cosa stiamo parlando. Il cyberpunk nasce come movimento letterario alle metà degli anni 80, e convenzionalmente si fa coincidere la sua origine con la pubblicazione di Neuromante, romanzo di William Gibson che ancora oggi mantiene il suo ruolo di cult. Si può affermare che certi temi e obiettivi del cyberpunk iniziassero a trovarsi anche nella New Wave fantascientifica tra gli anni 60 e 70, ma in quegli anni mancava ancora la componente hardware necessaria per poter costruire l’immaginario del cyberpunk: la diffusione dei computer, il seme di quella che sarebbe diventata la Rete, la globalizzazione sempre più rapida.

Il cyberpunk emerge quindi dalla fusione tra le velleità letterarie della nuova generazione di scrittori, ansiosi di mostrare la loro estraneità ai circoli culturali in voga, con le prospettive di speculazione fornite da questi sviluppi tecnologici e sociali. Semplificando per beneficio di chiarezza, si può dire che se la fantascienza Golden Age si focalizzava sugli aspetti tecnici della scienza e la New Wave esplorava l’inner space degli individui e della società, il cyberpunk è arrivato a sparigliare le carte e prendere a schiaffi il mazziere.

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I nuovi scrittori, che in molti casi erano anche tecnici che lavoravano in prima persona con la nuova tecnologia informatica, volevano dimostrare come il passaggio all’Era dell’Informazione sarebbe stato tutt’altro che utopico. Come tutti i movimenti d’avanguardia, l’obiettivo era spesso quello di sconvolgere e dichiarare in modo violento la morte dei vecchi sistemi, giacché in fondo erano pur sempre dei punk. Tra gli esponenti principali del movimento oltre a William Gibson possiamo citare Bruce Sterling, Rudy Rucker, John Shirley, Pat Cadigan. Uno dei testi fondamentali del genere è indubbiamente l’antologia Mirrorshades curata da Sterling e uscita nel 1986. Neuromante, Mirrorshades e altri due testi fondamentali del cyberpunk difficili da recuperare (La Matrice spezzata e Snow Crash) sono stati riuniti nel volume Cyberpunk – Antologia Assoluta da poco pubblicato da Oscar Vault.

Eppure bisogna notare come il genere non ebbe mai una sua definizione formale. Non esiste un manifesto del cyberpunk, e seppure molti autori si conoscessero personalmente non ci fu mai un club dei cyberpunkers dedito a promuovere le iniziative e la controcultura cyber. Secondo voci autorevoli come lo stesso Gibson, il “movimento” fu codificato a posteriori, quando il cyberpunk era già abbastanza riconoscibile da diventare un trend a cui altri autori desideravano aderire.

… e c’è ancora oggi il cyberpunk

Una certa percezione superficiale e nazionalpopolare della fantascienza ritiene che il compito di questo genere sia di “predire il futuro”. Senza dilungarsi sul perché questa sia un’idea sbagliata, rimarremo sorpresi nel constatare come buona parte dei topoi del cyberpunk si siano effettivamente affermati nell’arco di pochi decenni.

Si parte naturalmente dalla diffusione capillare della tecnologia e in particolare dei computer casalinghi. Dall’idea iniziale che nel mondo esistesse mercato per 4-5 computer, questo strumento è diventato la pietra angolare di un’intera epoca. Ma il computer da solo non basta se manca la Rete: forse nessuno l’aveva chiamato Internet, ma tra Cyberspazio, Matrice o Multiverso non c’è molta differenza. Anche l’idea che la vita “virtuale” potesse assumere una dimensione predominante sulla vita “reale” era già ben cementata nelle prime opere cyberpunk. Ci mancano forse gli innesti cibernetici, ma Neuralink non è poi così lontano.

Accanto a questa dimensione tecnologica troviamo anche quella sociale. Le storie cyberpunk sono di solito ambientate nelle megalopoli che contrappongono il centro città di grattacieli occupati dagli uffici delle corporazioni e superattici dei magnati, allo sprawl, i quartieri periferici in cui si rifugia la popolazione di medio-basso ceto. L’accesso ai servizi e la distribuzione della ricchezza sono fortemente squilibrati, il divario sociale è sempre più ampio. Le culture diverse si mescolano ma spesso questo processo non porta a melting pot pacifici, ma a piccole comunità ghettizzate e in conflitto tra loro.

mirrorshades

Dal punto di vista politico, la perdita di potere delle istituzioni a favore delle megacorporazioni è inarrestabile. Le aziende private manovrano Stati e organismi sovranazionali, perseguendo i propri obiettivi di profitto in modo esplicito, sicure della propria impunità. In particolare le corporazioni della comunicazione hanno praticamente carta bianca, poiché detengono il potere di intervenire sulla diffusione delle informazioni, base dell’azione politica. La burocrazia non riesce a stare dietro ai progressi repentini di queste realtà, e così è impossibile imbrigliare il potere di queste entità con la legge.

Suona familiare tutto questo? Aspettate, c’è dell’altro: perfino gli stereotipi sui diversi schieramenti si sono rivelati corretti! I russi sono quelli che infiltrano le spie nelle altre nazioni per manovrarle dall’interno e compiono omicidi politici. L’estremo oriente, tra Cina, India e Giappone, è il leader tecnologico grazie alla produzione costante delle sue zaibatsu e i suoi apparecchi inondano tutto il mondo. Gli USA funzionano su un sistema di darwinismo sociale ultracapitalista grazie al quale solo i megaricchi possono accedere ai vertici del potere. L’Europa è stanca e lenta, un territorio di conquista culturale e tecnologica per gli altri blocchi. Tutto questo il cyberpunk lo diceva quarant’anni fa, e se ci guardiamo intorno possiamo accorgerci che è andata proprio così. Scrutando il cielo sopra il porto, i cyberpunkers ci avevano davvero visto il futuro.

Il continuum di Gibson

Ci si potrebbe chiedere allora, visto che il cyberpunk è stato così efficace nell’anticipare le tendenze che si sarebbero manifestate di lì a pochi anni, che valore abbia quel non-movimento visto con il senno di poi. Che cosa ci è rimasto del cyberpunk dopo quarant’anni? Dopo Neuromante, dopo Blade Runner e Johnny Mnemonic, dopo il Cuore Esploso e Ghost in the Shell, Matrix e Cyberpunk 2077?

Il cyberpunk ha subito la stessa sorte che tocca a molti movimenti underground: è diventato mainstream. Parallelamente allo sdoganamento della cultura geek/nerd, che ha sfilato la tecnologia informatica agli smanettoni, anche il cyberpunk è stato gradualmente assorbito dal pubblico generalista. Questo di per sé non dovrebbe essere un male, perché se le tematiche che un genere propone arrivano a molte più persone, allora si avrà una sua maggiore diffusione: obiettivo raggiunto!

Ma il cyberpunk era un movimento di rottura. Come il Futurismo o la Scapigliatura, i suoi autori non volevano arrivare a tutti. Lo dimostrano lo stile ermetico, gli artifici come la scrittura per sottrazione e la meticolosa destrutturazione dei modelli narrativi. L’obiettivo non è mai stato quello di portare le moltitudini a leggere di Mozart con gli occhiali a specchio, ma di scuotere l’establishment culturale per sbattergli in faccia la realtà del mondo al di fuori delle belle storie edificanti sul progresso della specie.

Il problema, come avviene sempre nei casi in cui una cultura di nicchia diventa di massa, è che il livello più profondo si perde nella traduzione, e quello che rimane è soltanto la superficie. Quando oggi parliamo di cyberpunk, a cosa pensiamo? A una collezione di immagini e impressioni, come dicevamo all’inizio: le megalopoli piovose, gli hacker nel cyberspazio, gli occhi bionici. Un’estetica post-capitalista iper-digitale pan-culturale: ma appunto, si tratta di semplice estetica. Un effetto cosmetico, che abbellisce il prodotto ma non mantiene il collegamento con quel desiderio di rottura che ha originato il cyberpunk, anzi fa l’esatto opposto perché eccita il nostro senso di nostalgia.

Non è un caso che il volto di Keanu Reeves sia associato a tanti prodotti iconici del cyberpunk, già menzionati poco fa. Il pubblico è arrivato ad associare i suoi tratti a quell’estetica, come associava Clint Eastwood all’estetica western. Un tempo, bastava aggiungere la locuzione “nello spazio” per trasformare una semplice storia in una storia di fantascienza; oggi basta aggiungere il prefiso “cyber-” per trasformare qualunque cosa in cyberpunk. E poco importa se non sappiamo nemmeno di preciso che cosa significhi “cibernetico”. Viviamo nel continuum di Gibson, quella versione della realtà che ha adottato i canoni descritti da un autore del passato, ma che non ne ha assimilato i principi.

Punks not dead

Quindi abbiamo scherzato? Dovremmo archiviare il cyberpunk perché non siamo stati capaci di comprenderne il significato? Dimenticare Invernomuto e Hiro Protagonist, come lacrime nella pioggia? Molti autori storici del cyberpunk in effetti hanno abbandonato il genere, basta andare a vedere cosa hanno pubblicato Gibson e Sterling negli ultimi trent’anni. Sempre William Gibson ha anche affermato più volte che il cyberpunk era già morto pochi anni dopo la sua presunta nascita. Se mai davvero è nato, o si è trattata solo di una forzatura a posteriori.

Ma la rimozione non è mai l’approccio migliore per affrontare un trauma, è sempre più produttivo accettare un’amara verità che crogiolarsi in una bugia confortante. La verità scomoda con cui dovremmo scendere a patti è che il cyberpunk è esistito in un determinato momento storico, ha ricoperto un ruolo e forse riempito un vuoto che i modelli culturali precedenti non erano ancora pronti ad affrontare; ma quel momento storico è superato e di quel ruolo non c’è più bisogno. Il cyberpunk ha detto quello che doveva dire quando ce n’era bisogno e poi se n’è andato. Adesso possiamo lasciarlo riposare in pace.

Questo non significa che non si possa recuperare Aidoru e leggere con piacere queste storie di ragazze collegate che oggi appaiono retrofuturistiche. Ma proprio come l’obsolescenza programmata in tutti i dispositivi di cui ci circondiamo, anche quelle storie potevano assolvere il loro compito solo per un periodo limitato. La nostra operazione di recupero quindi va fatta con criterio, collocando l’opera nel giusto contesto e interpretandola in funzione di questo.

Si può anche dire che i temi del cyberpunk continuino a essere attuali, e si possono trovare diverse opere che portano avanti il discorso iniziato da quegli autori negli anni 80, da Mr Robot ai libri di Cory Doctorow. Ma il mondo è cambiato da allora, quindi per parlare di quelle stesse cose il linguaggio e gli schemi devono essere riadattati alla contemporaneità, perché l’essenza del cyberpunk non era nella palette dei colori da usare. Non sarà indossare un paio di occhialoni VR a renderci cyberpunkers, se poi li usiamo per guardare Friends in 8D.

I punk non sono morti, hanno solo cambiato look. Non li troverete cercando giacche di pelle fluorescenti e occhiali a specchio, quelli sono solo solo poser. Quelli passeranno di moda, mentre i veri punk non muoiono mai.

Andrea Viscusi
Nato sotto le esalazioni della nube di Chernobyl, laureato in statistica, consumatore di fantascienza e musica elettronica, autore sci-fi/weird/slipstream. Ha pubblicato una sessantina di racconti, tre raccolte personali, due romanzi e un libro illustrato sui mammiferi preistorici. Editor e writing coach, sul canale youtube STORY DOCTOR analizza la struttura narrativa dei film. Scrive sul blog UNKNOWN TO MILLIONS dal 2010 e ha fondato la rivista di speculative fiction SPECULARIA. Si definisce il maggior fan italiano di Futurama e nessuno l'ha mai smentito.