Dopo i pareri controversi di Dear Esther e i più convinti giudizi su Amnesia: A machine for pigs il team di The Chinese Room ci riconsegna la sua ultima fatica su cui, a dirla tutta, si era anche creata una certa attesa. Pubblicato da Sony in esclusiva per PS4, Everybody’s Gone to the Rapture è un titolo strano, in realtà poco chiaro sin dal suo annuncio. Ci aspettavamo un’avventura investigativa, non necessariamente horror, ma comunque con un po’ di piglio e invece le nostre aspettative non solo sono state deluse, ma sono state completamente glissate dal risultato finale. Perché? Vediamo un po’ di scoprirlo insieme.

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Se avete giocato, o anche solo seguito, la vicenda mediatica di Dear Esther, allora ricorderete sicuramente dove si schierò gran parte della critica e dei giocatori. Dear Esther non era infatti un videogame vero e proprio, ma era piuttosto un’esperienza di narrativa digitale, invero anche un po’ fine a sé stessa. Ebbene Everybody’s Gone to the Rapture va a schierarsi esattamente in quella direzione, con un qualcosa che non si può definire “videogame” perché, di fatto, manca qualsiasi stratagemma ludico che non sia il mero movimento ed una risicatissima interazione ambientale. Si tratta ancora una volta di un’esperienza interattiva il cui fulcro è la narrazione; l’avvicendarsi di situazioni recitate da personaggi non giocanti di cui noi saremo i passivi spettatori. Lo scopo? Teoricamente quello di ripercorrere gli ultimi giorni di una rurale cittadina inglese. Una cittadina ora disabitata e praticamente congelatasi nel tempo, per la precisione alle 18:07 del 6 giugno 1984 ed in cui aleggia una strana luce sovrannaturale.

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Nei panni di un personaggio assolutamente anonimo, ci troveremo quindi a esplorare più o meno l’intera cittadina inglese dello Shropshire, divisa tra piccole zone abitate, edifici più o meno importanti (come la chiesa) e immense distese rurali, tra campi di grano, zone boschive e quant’altro serva a creare uno scenario bucolico realistico e credibile. A ben vedere, infatti, i punti di forza della produzione The Chine Room sono proprio l’ambientazione e, ovviamente, la narrazione. L’ambiente di gioco, per quanto spettralmente privo di vita umana, è infatti ottimamente ricreato e crea un alterco di interni ed esterni che, uniti ad una musica a dir poco magistrale, crea un connubio eccezionale. Le musiche, eseguite e cantate dalla filarmonica di Londra, sono evocative e incredibilmente calzanti, divise tra orchestre, fiati, voci bianche e canti gregoriani che calati sulla vicenda, e su certi scorci a dir poco tetri, creano un ambiente evocativo e accattivante, creando a volte delle situazioni di puro stupore uditivo. Purtroppo però il più dell’esperienza si ferma qui bruscamente poiché il resto dell’impianto “ludico” (virgolette più che doverose) non consiste in altro che nel mero spettacolo degli eventi. Avremo quindi sei personaggi, di cui potremo scoprire le vicende pre-apocalisse grazie ad una serie di flashback luminosi. Oltre a noi, infatti, nel paese è in realtà presente un’altra “figura”, un misterioso globo di luce che emette rumori simili ad eco distorti. Il globo, a metà tra segnale e guida, ci porterà ad esplorare il paese in cui numerose manifestazioni del passato che ci racconteranno come quei personaggi (nulla più che gli abitanti del paese più alcuni comprimari) abbiano vissuto il dramma della fine del mondo la cui origine, pare, sia l’osservatorio astrologico locale da cui poi il gioco comincia.
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Non assisteremo comunque alla visione di veri e propri spettri, ma piuttosto a dei ricordi impressi nel tempo, visibili ed udibili per mezzo di figure di luce che talvolta si “attiveranno” da sole al nostro passaggio, altre volte chiederanno di essere attivate per mezzo della giusta calibrazione del nostro Dualshock che, appositamente mosso sull’asse orizzontale ci aiuterà a sintonizzarci con la giusta frequenza del ricordo. Tali ricordi sono disseminati un po’ ovunque e, come detto, seguiranno sostanzialmente le vicende di sei protagonisti che, vivendo nella stessa piccola comunità, si troveranno ad essere continuamente intrecciati. Osservati tutti i ricordi principali (ossia quelli che vanno “calibrati” col Dualshock) la sezione del villaggio si chiude e si passa alla successiva, sino ad arrivare alla fine in cui, neanche troppo chiaramente, il mistero della scomparsa degli abitanti e della luce che gira per il villaggio si risolverà. E niente, è tutto qui. Non ci sono enigmi, non ci sono situazioni ludiche come fughe, combattimenti, interazioni dirette con altri personaggi. Non ci sono jumpscare, e tutta l’esperienza si dividerà tra coinvolgimento ambientale e acustico, talvolta riuscito, talvolta decisamente di meno.
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Il problema qui è che non c’è praticamente nulla da fare se non seguire la trama che, per quanto sia ben scritta ed eccellentemente doppiata anche in italiano, sarà spesso più concentrata nei rapporti tra gli abitanti che nel farci realmente capire cosa sia successo in città. Il punto è che non creandosi passione o empatia per per i personaggi, Everybody’s Gone to the Rapture finirà per procedere stanco già dopo la prima mezzora di gioco, facendo si che il giocatore arrivi al finale (se ci arriverà) più stanco che appassionato, e più annoiato che entusiasta. La scarsa interazione con il gioco che, come avrete capito, è estremamente risicata, non favorisce il coinvolgimento ed anzi non fa che aumentare il senso di tedio e disagio. C’è un comando per muoversi, uno per la telecamera, ed uno per interagire con le poche cose presenti in giro, c’è poi in realtà anche un comando opportunamente nascosto per la corsa (tenete premuto R2) che gli sviluppatori hanno furbescamente omesso di segnalarci e che non fa che aumentare l’idea di un brodo che è stato forzatamente allungato.

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Non dimentichiamo poi che, per quanto si possa cercare di correre, il nostro personaggio sarà lento oltremodo il che aumenterà non di poco il tedio del movimento in città. La mappa di gioco, veramente grande per un’esperienza simile, unita alla forzata lentezza del silenzioso protagonista, vi darà ulteriori noie costringendovi spesso a lunghi giri a vuoto in cui… non c’è fondamentalmente nulla da fare. Esistono in realtà alcune mappe statiche in giro per la città, ma non vi permetteranno mai di capire realmente dove siete e cosa fare. In un gameplay, poi, in cui il massimo della vita è aprire una porta di una casa spesso vuota, tale scelta è più frustrante che ammirevole. Sì, possiamo dire che in realtà in certe case, apparentemente vuote, si nascondono alcuni indizi su quello che è il fulcro della trama ma a quel punto sarete così annoiati dal peregrinare (la cui durata totale corrisponde a circa 5 ore) che vorrete solo glissare tutto e arrivare ai titoli di coda o, più realisticamente, spegnere la console e passare ad altro.