Festa del Bon: programmi per Ferragosto?

Ferragosto è ormai alle porte ma, se avete la fortuna di trovarvi in Giappone, invece della solita grigliata vi conviene tirar fuori lo yukata buono e partecipare alla celebrazione dell’obon, la festività più importante dell’Arcipelago seconda solo al Capodanno (shōgatsu). A una prima occhiata uno dei tanti matsuri (feste popolari) che scandiscono il passare delle stagioni, il bon – per comodità omettiamo la o– onorifica – è in realtà una ricorrenza ben più istituzionalizzata di quanto sembri, ancor oggi spiritualmente molto sentita. Vediamo perché.

Le origini del bon

Nonostante le contaminazioni con la tradizione autoctona, già Yanagita Kunio (1875-1962), padre dell’antropologia giapponese, aveva riconosciuto l’indelebile impronta buddista del bon. Primo studioso a rivalutare la religione popolare che tanto imbarazzo destava nell’intellighenzia Meiji, proiettata verso i valori del bunmei kaika – corrente di pensiero che predicando «civiltà e progresso» condannava come primitive simili manifestazioni culturali –, Yanagita cercò di fare ordine nel sincretismo caratterizzante la spiritualità locale, riconducendo i culti alla loro radice shintoista, piuttosto che taoista, animista e così via.

Nel nostro caso, il bon è una tradizione importata dalla Cina assieme al canone buddista, nel quale si racconta del discepolo Mokuren: volendo assicurare alla madre appena defunta la liberazione dal ciclo delle rinascite (saṃsāra), fu consigliato dall’Illuminato di porgere offerte ai monaci a metà del settimo mese – ecco perché in origine, e ancor oggi in alcune aree, il bon si celebrava il 15 Luglio. Come premio per la sua devozione, Mokuren ottenne quanto desiderato e iniziò a ballare – da qui i bon odori, le danze attorno ai falò a ritmo di tamburi – per accompagnare l’ascesa dello spirito materno.

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Da religione aristocratica e criptica al momento della sua introduzione (VI sec. ca.), il buddismo riuscì, attraverso un lungo processo di popolarizzazione, a rispondere alle esigenze più semplici e immediate degli abitanti delle campagne, conquistandosi una propria nicchia – quella del culto dei morti – accanto allo shintoismo – cui invece sono deputati matrimoni e riti di fertilità.

Il rito

Nonostante il bon vero e proprio si protragga soltanto per tre giorni – dal 13 al 16 Agosto –, prima dell’arrivo degli antenati si deve provvedere ai riti di purificazione delle tombe – primo giorno del mese – e delle abitazioni – settimo giorno –, avendo cura di rimuovere qualsiasi ostacolo (erbacce, pietre, alberi caduti) sulla via che conduce dal cimitero al centro abitato.

In casa si allestisce un altarino dedicato (bondana), sul quale si pongono offerte quali cibo, fiori e, a partire dal giorno 13, cetrioli e melanzane intagliati: i primi con sembianze di cavallo, per far giungere a destinazione le anime più velocemente, le seconde a forma di bue, per un ritorno tranquillo alla fine delle celebrazioni.

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Seguendo i mukaebi, i “fuochi che indicano la via” nella specie di piccoli falò o lanterne, la notte del 13 gli spiriti si accomodano in casa, ed è buona prassi che durante il pasto con amici e parenti – vestiti in abiti tradizionali adatti alla calura estiva – si parli di loro rievocando i bei tempi, concludendo la serata con preghiere o partecipando alle danze collettive.

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Dal giorno successivo si entra nel vivo dei festeggiamenti, con fuochi d’artificio (hanabi), spettacoli teatrali e banchetti, che variano da regione a regione nelle proprie caratteristiche – soprattutto per quanto concerne le varietà di sake e dolci.

Giunto infine il giorno di separarsi, le offerte e le lanterne votive di carta vengono affidate alla corrente del più vicino corso d’acqua, in attesa della prossima riunione di famiglia – l’arrivo del Nuovo Anno in Gennaio.

Il significato religioso del bon

I folcloristi concordano nel riconoscere nella venerazione degli antenati (chinkon) il nucleo originario del credo indigeno, il che spiegherebbe la rapida assimilazione del rito del bon. Lo spirito di un antenato che sia stato propriamente onorato per 33 anni si trasforma in una divinità benefica, che garantisce protezione ai discendenti e al raccolto, ma non tutti gli estinti possono fare affidamento su una famiglia che li aiuti a liberarsi da questa vita.

Ad accomunare le varie figure spettrali della cultura popolare giapponese è infatti un conto in sospeso, frutto di un’azione dal karma negativo alla quale i viventi non hanno voluto o saputo porre rimedio.

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Le più ricorrenti sono gli onryō, spiriti vendicativi morti accidentalmente o violentemente, come madre e figlio nel cult Juon (2000) di Shimizu Takashi; gli yūrei, i più vicini ai “fantasmi” della tradizione europea ovvero gli spiriti non venerati, protagonisti del classico Tōkaidō Yotsuya Kwaidan (1959) di Nakagawa Nobuo; i bambini abortiti (mizuko) o morti prematuramente, che spesso tormentano i propri coetanei, come in Dark Water (2002) di Nakata Hideo – più noto in Occidente il remake americano con Jennifer Connelly; le divinità minori di templi caduti in disgrazia (jashin), dotati di poteri illusori e di metamorfosi – in quest’ultimo caso sono detti obake – con cui ingannano i viandanti, come nel corto d’animazione Tsukumo di Morita Shōhei, all’interno del progetto collettivo Short Peace (2013).

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Se il fantasma riesce a consumare la propria vendetta o in alternativa viene placato con un esorcismo, esso può fare ritorno al luogo deputato al suo riposo che, come avevamo accennato parlando dei luoghi spirituali del Giappone, nella visione del buddismo esoterico corrisponde alla montagna.

Una prima sistemazione degli spazi sacri la offre già il Kojiki (710), la teogonia del pantheon shintoista in cui la creazione dell’Arcipelago è attribuita alle divinità primigenie Izanagi e Izanami.

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Fratello e sorella nonché sposi – un dilemma morale riattualizzato da Imamura Shōhei ne Il profondo desiderio degli dèi (1968), ricco di riferimenti al mito –, procrearono fino a che Izanami non morì di parto dando alla luce il dio del fuoco, venendo trascinata nello Yomi, l’Oltretomba.

Desiderando riaverla con sé, Izanagi discese agli inferi ma durante la risalita commise l’errore di guardare l’amata in volto, venendo sconvolto dalla putrefazione delle sue carni. Izanagi riuscì a fuggire e a sigillare l’entrata del mondo sotterraneo con un macigno, ma Izanami aveva ormai pronunciato la sua maledizione contro il genere umano, che da allora avrebbe conosciuto la mortalità.

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Con i suoi recessi, la montagna non è quindi solo simbolo ma anche luogo dell’aldilà, e scoraggia in partenza ogni tentativo di colonizzazione o sfruttamento.

Sebbene i suoi studi si concentrassero sulle civiltà precolombiane, anche l’antropologo americano Robert Redfield (1897-1958) riconobbe la sostanziale visione ecocentrica della religiosità giapponese, caratterizzata da una concezione di natura che, come dimostra l’esempio della montagna, è ben diversa da quella occidentale e mediorientale.

Nelle lingue europee, «natura» indica sia gli elementi e fenomeni che avvengono attorno a noi, sia i princìpi che ne guidano lo sviluppo: tuttavia, la parola che in giapponese è stata scelta per convenzione come traduzione di tale termine presenta un’altra connotazione.

Shizen (dal cinese antico zi ran, “forma originale di tutte le cose”) indica uno stato autosufficiente in cui le azioni non dipendono da forze esterne ma procedono dall’interno, e significa propriamente “ciò che accade da sé” o “che è così come appare”.

Come sviluppo successivo, shizen ha assunto anche la connotazione di “vivere in volontario accordo” col ritmo dell’universo, diventando così il fulcro della morale giapponese: nelle parole di Miyake Hitoshi, mente e corpo dell’uomo costituiscono una sorta di “natura interna” (uchinaru shizen), accomunata a quella esterna da uno spirito vitale (seirei) che con la morte non svanisce ma cambia in parte sostanza, e di conseguenza habitat – dal villaggio al monte.

Ma in virtù di questa comune origine, vivi e morti avranno sempre un’occasione per rincontrarsi.

La funzione sociale

Ogni rito presuppone un motif che ne guidi il sistema di senso e coordini tra loro le azioni rituali degli esecutori: nel caso del bon esso è il ritrovo, con i propri cari che non ci sono più e con quelli ancora in vita.

In una società come quella giapponese dove il dekasegi (lavorare lontano da casa) è la norma, durante l’anno genitori e figli tirano la cinghia in modo da potersi permettere le esorbitanti tariffe del periodo estivo e prendere il treno o l’aereo diretti al paese d’origine.

Tuttavia, per effetto dell’inurbamento e del calo demografico, al di fuori delle aree rurali l’obon ha perso gran parte del suo significato originario, trasformandosi in un festival più colorato e fastoso a uso e consumo dei turisti e degli inquilini delle periferie delle grandi città.

Una lettura interessante di questo fenomeno la offre Il paese dei suicidi (2012) di Yū Miri, autrice zainichi (giapponese di origine coreana) che nelle sue opere denuncia il problema del bullismo, della perdita dell’identità e della dissoluzione della famiglia, spesso attingendo al proprio vissuto.

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Benché il riferimento non sia esplicito, l’intero romanzo è costruito come un rovesciamento del bon: la liceale Mone, intrappolata in una situazione familiare caratterizzata da indifferenza e infedeltà coniugale, crea un thread online per togliersi la vita in compagnia di perfetti estranei.

Il desiderio di riunirsi all’adorata nonna paterna, scomparsa anni addietro, la porta in un’afosa notte di Giugno a tentare il suicidio per asfissia con il suo “jisatsu sākuru”: alle offerte di frutta e fiori si sostituiscono i suoi ciondoli di Hello Kitty e gadget kawaii, dati alle fiamme in un simbolico mukarebi a se stessa, prima di sedersi sui sedili posteriori dell’auto sigillata.

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Nell’estate tokyota dipinta da Yū, gli elementi naturali sono eclissati da un marasma di prodotti di consumo, gli sconosciuti si sostituiscono ai familiari, i vivi invidiano i morti e tentano di raggiungerli, consumando un “banchetto” di sonniferi davanti a un braciere che, bruciando sostanze tossiche, li porterà a battere sul tempo i propri antenati.

Più di una commemorazione

Anche da questo breve approfondimento, si può capire come la tradizione del bon presenti non poche contraddizioni al suo interno: nonostante la matrice buddista, in cui la morte conduce alla reincarnazione o, nel caso di sufficienti meriti accumulati, al Vuoto, presuppone l’esistenza di un luogo fisico quale dimora dei defunti e soddisfa il desiderio – sotto certi aspetti macabro – di un incontro periodico con essi.

Eppure questo paradosso percorre tutta la religiosità giapponese: nonostante le aspre dispute tra maestri e santuari, se si esclude il miope tentativo del governo imperiale di separare e gerarchizzare i culti con l’editto Shinbutsu Hanzen (1868), buddismo e shintoismo hanno sempre riconosciuto la reciproca interdipendenza – nonché dipendenza, nel caso di scuole di pensiero anteriori – nel nome di un comune fine teleologico: l’identificazione dell’uomo con il fondamento della realtà, nella consapevolezza che non esiste un’unica via per conseguirla.

Non disdegnando una visione funzionalistica della religione, questi culti sono riusciti a conquistarsi un posto nel cuore dei giapponesi (e non solo), offrendo sollievo spirituale e risposte alle domande più scomode dell’esistenza.