Polemica intorno ad alcune dichiarazioni rilasciate da Naoki Yoshida durante un’intervista con IGN su Final Fantasy XVI

el corso dell’ultima decade il mondo videoludico si è fatto sempre più consapevole di una vecchia, banale verità. I videogiochi sono una cosa seria. Chi vuole conoscerli, criticarli, o anche solo apprezzarli con una certa consapevolezza, non può relegarli nella stanza dei giocattoli, né chiuderli fuori da essa. Accanto ai doppi salti, alle statistiche e ai punteggi, si profilano storie, rappresentazioni e concezioni del mondo. Il che implica anche riflessioni di natura politica.

A volte basta la mera menzione della parola “politica” perché si inizi a mettere mano agli scudi: bisogna tenerla lontana dai videogiochi. Sia che questo accada per desiderio di proteggere l’idiozia del consumo o per paura del conflitto, qui non mi interessa. Ciò che conta è che se accettiamo che i videogiochi possano muoverci con la grandezza delle loro storie, rapirci con mondi complessi, profondi ed interattivi, ci tocca anche accettare che veicolino idee, che si interfaccino con le nostre culture. È banale ed inevitabile che, se stiamo giocando come si deve, le idee del gioco siano quindi messe al vaglio delle nostre.

Non deve dunque sorprendere, né indignare, che nel corso di un’intervista di IGN agli sviluppatori di Final Fantasy XVI, tra una domanda sulle missioni secondarie e una sui chocobo, siano emerse anche tematiche come il trattamento dei personaggi femminili e l’assenza di personaggi di colore nei trailer mostrati finora. Di quest’ultimo tema si è occupato Naoki Yoshida, il produttore del videogioco, la cui risposta ha arruffato più di un piumaggio. La si può leggere per intero seguendo il collegamento soprastante. Qui ne traduco, con pochi ritocchi di forma, i punti salienti.

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La risposta di Yoshi-P e le obiezioni rivoltegli

Fin dai primissimi stadi dello sviluppo, la nostra idea progettuale ha sempre incluso in modo centrale l’Europa medioevale, incorporandone i modelli storici, culturali, politici ed antropologici che erano al tempo prevalenti. Nella scelta di un’ambientazione che fosse perfetta per la storia che volevamo raccontare, abbiamo creduto che fosse necessario limitarne la portata ad una singola terra, geograficamente e culturalmente isolata dal resto del mondo, in un’epoca senza aeroplani, televisori o telefoni.

A causa dei limiti geografici, tecnologici e geopolitici dell’ambientazione, non sarebbe stato realisticamente possibile che Valisthea fosse eterogenea come la Terra di oggigiorno, o anche come Final Fantasy XIV, che ha a propria disposizione un intero pianeta (e luna) di nazioni, razze e culture. La natura isolata di questo reame gioca un ruolo importante nella storia, ed è parte delle ragioni per cui il destino di Valisthea è legato al resto del mondo.

La serie di Final Fantasy ha sempre avuto a che fare con conflitti e lotte, specialmente tra coloro che detengono il potere e quanti sono invece usati o sfruttati da quei pochi privilegiati – una tendenza prominente nella storia umana. In un gioco che, per design, consente ai giocatori di vivere quel conflitto in prima persona, può essere difficile assegnare una distinta etnia ad antagonisti e protagonisti senza sollecitare preconcetti nel pubblico, invitare speculazioni improprie, e infine alimentare le fiamme della controversia.

Non ho ovviamente la pretesa di sintetizzare la totalità delle risposte a queste dichiarazioni, né mi piace l’idea di selezionare degli argomenti criticabili affinché il giudizio su di essi si estenda anche a quelli difendibili. Posso però scegliere quelli su cui credo di avere qualcosa da dire, promettendo di non covare fini ulteriori. Ho letto, su alcune riviste e sui profili Twitter di alcuni influenzatori che seguo, che secondo Yoshi-P le persone non bianche sarebbero controverse, che l’Europa medioevale sarebbe stata tutt’altro che omogenea sotto un profilo razziale, e che la scusa del realismo non reggerebbe, poiché stiamo parlando di un videogioco fantastico, pieno zeppo di invenzioni ben più stravaganti di una carnagione scura.

A dire la verità, credo sia del tutto normale che le dichiarazioni di Yoshi-P abbiano suscitato una misura di diffidenza. La cosiddetta diversità provoca sempre il fastidio degli intolleranti, e quello dell’autenticità storica è uno strumento retorico impugnato spesso proprio da costoro, nel tentativo di conferire legittimità a idee altrimenti difficili da approvare. Tuttavia, è mia opinione che, almeno in questo caso, la polemica si stia spendendo invano su un problema che non esiste, e che al contrario metta in evidenza fattori di preoccupazione non tanto nelle dichiarazioni degli sviluppatori, bensì nelle loro critiche, nonché nella stessa domanda posta.

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Il mito dell’Europa bianca

Uno dei problemi fondamentali della storiografia è la necessità di trattare argomenti trascorsi ormai da secoli o millenni, sulla base di categorie e idee tipiche del nostro presente, da cui non possiamo, nostro malgrado, prescindere. Sfortuna vuole che il nostro presente sia l’epoca del razzismo, e che sui fatti del passato si sia sedimentata una concezione romantica delle nazioni e delle razze, tale da viziare la nostra immaginazione del passato stesso.

Un esempio di questo fenomeno può trovarsi nell’ideologia pangermanica ottocentesca e del primo Novecento, tesa a dimostrare l’esistenza di una nazione tedesca anteriore tramite l’attribuzione ai cosiddetti germani di caratteri etnici unitari. Non aiuta la relativa carenza di fonti letterarie ed archeologiche, nonché la difficoltà della loro interpretazione. Non aiuta neanche il cinema occidentale, con le sue banalizzazioni propagandistiche, né il fatto che si insista a parlare di “Europa medioevale” come se questa fosse qualcosa di unitario e di sintetizzabile, anziché un millennio di storia che attraversa un intero continente.

L’idea di un’Europa bianca è dunque da criticare. Non solo perché la presenza di individui che qualcuno definirebbe “non bianchi” è testimoniata sia in letteratura che in archeologia, ma anche perché i concetti di nero e bianco sono radicati nella storia coloniale e inscindibili da essa. Va da sé che non possono descrivere un mondo anteriore al 1492. Per esempio, in antico irlandese una persona con la pelle scura si sarebbe detta gorm: blu.

Si può dire con una certa sicurezza che nel medioevo europeo non esistesse il razzismo così come lo intendiamo noi. I criteri di suddivisione dei popoli avevano una base etnica più che razziale: religione, lingua, cittadinanza erano tutti elementi molto più centrali rispetto ai tratti somatici, e anche quando questi erano rilevati, non se ne faceva l’uso che se ne fa oggi. Il che ci pone in difficoltà rispetto alle fonti letterarie: come trarne un’informazione che non sono interessate a dare, dipendente da una visione del mondo che i loro autori non possedevano?

Sembrerebbe dunque che quello di Yoshi-P sia stato un vero strafalcione. Se in Europa, durante tutto il medioevo, si potevano trovare persone non “bianche”, la sua scusa per escluderle da Final Fantasy XVI non sta in piedi. Senonché vedere nell’Europa medioevale, sulla scia della critica all’ideologia razziale, una sorta di crogiolo manhattaniano, in cui ogni borgo dovesse avere una sua percentuale di uomini dalla pelle scura, è a sua volta ridicolo. Non c’è ragione di convincersi che popoli viventi in determinate aree geografiche non possano condividere tratti somatici generalmente simili, nonostante alcune eccezioni minoritarie e l’assenza di cesure nette.

I limiti della fantasia

L’argomento per cui sarebbe assurdo parlare di autenticità storica in riferimento ad un videogioco fantastico, pur avendo senz’altro un buon effetto retorico, tradisce un’ingenuità. Qualunque fantasia prende le mosse dalla realtà, dal nostro mondo primario. Per quanto noi vogliamo immaginarci un portale dischiuso su mondi del tutto alieni, remoti, forse anche inconcepibili, nel varcarlo scopriremmo sempre che tutto quanto sta al di là di esso potremmo trovarlo, in qualche forma, anche al di qua.

Disponiamo certamente della facoltà di immaginare ciò che vogliamo, ma anche della facoltà di stabilire dei confini all’immaginabile, proprio per fare sì che il racconto mantenga la sua forma. Non è assurdo che qualcuno immagini un cielo solcato da draghi, sotto cui gli uomini di Valisthea rappresentano un’unità etnica dai tratti somatici ricorrenti. Similmente, non è assurdo che qualcuno immagini un mondo subacqueo popolato di sirene che muoiono pur sempre di vecchiaia.

Queste fantasie non sono selvagge cavalcate nelle brughiere dell’impossibile. Sono strumenti narrativi di cui ci serviamo per veicolare, tra un sospiro e l’altro, messaggi specifici. Il tema stesso esige delle restrizioni. Se voglio che la morte giochi un ruolo nel mio racconto, le mie creature mitiche dovranno pur morire. Se voglio raccontare una storia di isolamento politico e culturale, non è scandaloso, per quanto neanche strettamente necessario, immaginare una corrispondenza tra terra, nazione, etnia e tratti somatici.

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La diversità è controversa

Il passaggio più spinoso dell’intervista è forse quello finale della citazione ho riportata, l’idea che sia meglio non parlare di persone “non bianche” per evitare controversie. Mi sembra una solenne assurdità credere davvero che gli sviluppatori di Final Fantasy XVI abbiano deciso di non rappresentare particolari diversità somatiche per questo motivo. Non solo perché gli stessi sviluppatori non si sono fatti lo stesso problema nei loro altri lavori, non solo perché Final Fantasy ha avuto in passato personaggi di colore amatissimi e di grande rilievo, ma anche perché credo che Yoshi-P intendesse tutt’altro.

Negli ultimi anni abbiamo assistito al tentativo, più o meno scoperto, di normalizzare categorie minoritarie e marginalizzate includendole nella finzione senza connotazioni di subalternità. È una buona pratica. Detesterei vivere in un mondo in cui nei film quelli come me sono sempre discriminati. Detesterei anche vivere in un mondo in cui nei film quelli come me non lo sono mai, se la realtà che vivo mi racconta una storia più crudele.

Non amo molto l’idea che il racconto fantastico abbia una funzione fondamentalmente allegorica, ma di fatto, che ci piaccia o no, Valisthea non esiste: esiste solo il pianeta Terra. La diversità somatica, su questo nostro mondo coloniale, è un elemento di controversia, e non sarà un videogioco, o una decade di videogiochi, a potersela esigere altrimenti. Non si può scindere il tratto etnico o somatico dal significato che la diversità rappresenta culturalmente per noi. E se è legittimo cercare l’escapismo della normalizzazione, è legittimo anche notare che quella diversità apre un problema di razzismo, è legittimo non voler fingere che non lo faccia, ed è legittimo non voler complicare tematicamente la propria opera con elementi di tale delicatezza.

Quale diversità è più importante delle altre?

A prescindere dai deliri sulla “dittatura del politicamente corretto”, che qui non mi interessano, perché Final Fantasy XVI deve includere persone di colore? Voglio che sia chiaro, la cosiddetta inclusività è uno sforzo positivo, ed è bene desiderare un panorama di prodotti culturali in cui più persone possano vedersi rappresentate, in particolare quelle che appartengono a delle categorie discriminate. Questo però non significa che ogni singolo prodotto debba rappresentare una certa quota di “diversità”, pena la disapprovazione di chi se la auspica.

Della moltitudine di discriminazioni e violenze, di oppressi e di oppressori, quali devono essere rappresentate in Final Fantasy XVI? Tutte forse? Ed ognuna in quale misura? Non è possibile ragionare in questi termini. Quando si parla di “diversità” in questa accezione, normalmente ci si riferisce a questioni di razza, di genere, di accessibilità, di orientamento sessuale. Senonché non tutti i popoli, e neanche tutte le minoranze, avvertono con la stessa urgenza le stesse problematiche. Quali sono prioritarie? E per chi?

Gli USA e l’Europa hanno alle proprie spalle una storia ed un presente tali per cui il tema del razzismo, in particolare verso le persone di ascendenza africana, è sentito con una certa forza. Si può dire lo stesso del Giappone? La storia e la cultura giapponesi non determinano legittimamente un rapporto diverso, con determinate tematiche, rispetto al nostro? Se i personaggi di Final Fantasy XVI sono quasi tutti “bianchi”, gli sviluppatori si stanno volutamente escludendo dalla rappresentazione, in un prodotto indirizzato anche a mercati presso cui il razzismo verso i popoli asiatici è un fenomeno tangibile?

Le polemiche sarebbero più comprensibili se Yoshi-P avesse detto qualcosa di apertamente discriminatorio, ma a mio giudizio non l’ha fatto, e dubito fortemente che in Final Fantasy XVI, visti anche i precedenti, potremo riconoscere messaggi razzisti. Per dirlo schiettamente, un videogioco fantasy in cui quasi tutti hanno la pelle piuttosto chiara non nuoce alla causa antirazzista. Si potrebbe forse dire che neanche le giova, ma solo dopo essersi misurati con i contenuti del videogioco stesso, quando sarà uscito. La mera rappresentazione non è, per fortuna, l’unico modo di veicolare un messaggio antirazzista.

Intanto, nella fretta dell’indignazione, ho l’impressione che ai progressisti occidentali, così digiuni di materialismo e lotta di classe, e così impegnati a controllare la bianchezza dei personaggi di un videogioco sulla base di un linguaggio ineludibilmente razziale, sia ancora una volta sfuggita l’opportunità di nascondere il proprio privilegio più fondamentale. Ritengo che da un punto di vista politico, il passaggio più interessante dell’intera intervista sia il seguente: “La serie di Final Fantasy ha sempre avuto a che fare con conflitti e lotte, specialmente tra coloro che detengono il potere e quanti sono invece usati o sfruttati da quei pochi privilegiati – una tendenza prominente nella storia umana.

Oltre a tenerci a sottolineare che “benché non onnicomprensiva, c’è diversità a Valisthea”, Yoshi-P ha esplicitamente vincolato l’intera serie di Final Fantasy al tema della lotta di classe, che è a sua volta inscindibile da un discorso anticolonialista e antirazzista. Non è una sorpresa per chi conosce la serie, e tantomeno lo è per chi conosce Final Fantasy XIV in particolare, che proprio sotto la guida di Yoshi-P ha trattato di oppressi e oppressori in modo esteso, complesso, e molteplice. Non è neanche una sorpresa che agli occhi della sinistra occidentale, grassa delle proprie ipocrisie, incapace di riconoscere le diversità culturali che pure non cessa di esigere, passi inosservata una concezione marxista della storia e dell’essere umano.

Giuseppe Guerra
Sono nato nel 1991 ai margini della Foresta Umbra, e da allora ho passato gran parte della mia vita tra letteratura fantastica e giochi di ruolo. Una sorte benevola ha voluto che queste due passioni non facessero che dilatarsi, e mi ha condotto a Bologna, a studiare lettere classiche. Di giorno gioco a WoW e preparo sessioni di D&D, di notte sogno draghi e rivoluzioni. Mi piace scrivere, ascoltare power metal e pensare che i folletti spuntino fuori non appena volgiamo lo sguardo altrove.