L’orrore soprannaturale nel videogioco

Scrivo in uno stato di tensione insostenibile. Continuo, incessante, risuona nelle mie orecchie un cupo battito, un raspare d’ali d’incubo, un sommesso latrare lontano, come di un cane gigantesco che ulula nella notte. Non è un sogno, e non è neppure — temo — follia: troppe cose sono ormai accadute perché io possa rifugiarmi in simili illusioni pietose.

In un giorno di Agosto mi recai a Colonia in cerca di leggende, e ritornai da lì con una paura che mi resterà per tutta la vita. Riconosco che è sciocco, dal momento che esistono spiegazioni logiche per tutto quello che ho visto e sentito, ma le cose stanno ugualmente così. Se quel che ho visto fosse stato tutto lì, non sarei rimasto così scosso. Ho piena coscienza del fatto che il mio stato attuale susciterà dubbi più che naturali sulla veridicità della mia narrazione, ma vi pregherei di leggere senza pregiudizio alcuno e di prendere per vero ciò che vi dirò.

Ebbi l’occasione di posare lo sguardo su di una rievocazione fatta di immagini in movimento. Non propriamente frutto di immagini che si muovono al kinetoscopio, come quel tale Edison aveva creato, ma invero una sorta di racconto interattivo, il cui protagonista, Edward Pierce, ero e non ero io. Fu come vivere una sorta di sogno, in cui io avevo il controllo per mezzo di uno strano aggeggio, una sorta di macchina futuristica, che composta di leve e bottoni mi permise di controllare i passi dell’uomo, un detective – qualcuno mi disse – approdato per sua sfortuna sulle coste di Darkwater Island.
Tenete ben presente che alla fine non ebbi una vera e propria visione di un qualche orrore. Dire che la causa delle mie deduzioni fu uno sconvolgimento psichico, significava ignorare i semplici fatti della mia esperienza finale.

Su quell’isola, vi dicevo, fatti strani e misteriosi si andavano consumando. Dissi tra me e me che tutto doveva essere frutto di un qualche tipo di malia. “Per forza” mi convinsi, magari invaghitomi com’ero dei racconti di quel tale, Lovecraft, di cui avevo letto diversi romanzi, spinto dalla naturale curiosità dell’uomo per il soprannaturale e dal modo in cui i suoi mostri e i suoi miti mi erano rimasti impressi nella mente. Ma si sa: “la più antica e potente emozione umana è la paura”, e la paura più antica e potente è la paura dell’ignoto.

Di questo principio si abbevera forse la gente che, sparuta, abita l’isola di Darkwater che dell’ignoto è fulcro, e che del tormento della sua gente si nutre. Gli abitanti, per come ho visto attraverso gli occhi di Mr. Pierce, che ivi era giunto per investigare su certi fatti, vivono immersi tra le nebbie che si sollevano dal mare. Ignorando, forse volutamente, i terrori che riemergono dal folklore locale. Tutto ciò, a ben pensarci, rispecchia pienamente l’opera del tale Lovecraft, e lo percepii chiaramente non solo per i richiami a quella creatura, Cthulhu, che si affacciarono nel mio “sogno”, ma perché fu lo stesso detective a percepirlo per me, quando si avvicinò alla Città senza Nome, capendo, io e lui, che essa era maledetta.

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Ad ogni modo nel suo peregrinare, quell’uomo era giunto sulle coste assoldato per un caso di sparizione: Pierce, un uomo tutto d’un pezzo che in passato, pare, aveva servito l’esercito, non sembrava ancora particolarmente sconvolto; va a capire come può cambiare la guerra, la psiche di un uomo. Un uomo differente da me, e meno impressionabile. Stomaco forte, budella incontorcibili, investigava sulla misteriosa dipartita di Sarah Hawkings, artista di Boston, nessuno sa perché trasferitasi sull’isola, tra le mure lerce di un antico maniero. Scesi che fummo dalla nave lo vedemmo, il maniero, svettante orgoglioso sul crinale roccioso a sovrastare la baia, occasionalmente illuminato in lontananza dalla luce del faro che fendeva l’oscurità come una lama brillante, riflessa nell’acqua che più che buia sembrava pece.

Il mistero chiama il mistero. L’isola è abitata da poca gente. Scesi al porto, alcuni si attorniano ad un’orca, chissà come spiaggiatasi e dilaniata. Non squali, l’acqua è come morta. Gli stessi pescatori vivono di stenti perché da tempo immemore quel mare non dà più cibo, non ha più pesci. Eppure l’orca dilaniata, come squartata da una bestia di immane dimensione se ne sta lì a marcire in spiaggia. Per i passanti è curiosità, solo un brivido in più nelle notti fredde di Darkwater, tra una bevuta alla taverna ed una bestemmia. Quando mai poi esistesse un Dio da bestemmiare, per i poveri sventurati che abitavano lì.

Pierce, e io con lui, ci dirigiamo in taverna. L’oste, tipo scorbutico, non dà credito ad uno straniero. Una donna sinuosa e affascinante fuma in un angolo buio, tre ubriachi al tavolo cantano canzoni sui tempi in cui la pesca era florida. Sono misti a leggenda, Pierce li interroga, io con lui. Davanti a me una sorta di selettore, e posso porre loro, per bocca del detective, le domande che voglio. Talune preclusemi, altre no. Questo sistema di dialogo mi offre scelte multiple, e con esse mi informo e scopro dettagli del luogo, del suo folclore, della sua storia.

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Sento il piacere dell’investigazione corroborarmi la mente. Si incede lenti, ma perché ovunque Pierce guardi mi sembra si annidi un segreto, una nota, qualcosa che non è immediatamente visibile all’occhio. Mi sale una sensazione di familiarità mista a meraviglia, come più che insieme a Pierce io sono protagonista di una delle avventure immaginate da Mr. Conan Doyle per il suo Sherlock Holmes. Pierce è sagace allo stesso modo. Come l’investigatore sa il fatto suo, e più utilizza le sue abilità e più queste si fanno efficaci. Fondamentale per un investigatore direi, specie vista la lacunosità degli indizi che rinveniamo. Il caso, del resto, pare appena aperto.

Torniamo dal capitano, James Fitzroy. Il vecchio è un lupo di mare, che ha acqua salata al posto del sangue. Mantiene in ordine le carte del porto, del resto pare sia l’unico con il fegato di navigare ancora. Come sopravvivano tutti, a questo punto, non mi è concesso sapere. Ci offre il suo aiuto per mezzo di alcune carte, vecchie bolle di accompagnamento, che portano l’attenzione mia e del detective verso un magazzino lì vicino.

“Sai a chi appartiene?”, ancora una volta posso scegliere il da farsi. Cosa dire, cosa no, se mostrarmi gentile o magari minaccioso. “Lo so bene, è degli Hawking”. Il capitano annuisce e mi lascia, il suo aiuto – volendo – è ancora a disposizione ma ciò che in realtà mi occorre è un modo per entrare nel magazzino, lugubre al punto che la gente lo evita. Palese ad entrambi. Diverse sono le strade che potrei percorrere, cercare di entrare dal sottosuolo bagnandomi in un canale lì nascosto, e che con la coda dell’occhio avevo intravisto, o tentare di convincere i contrabbandieri lì di punta a farmi entrare, magari grazie alle informazioni che da loro ho carpito, origliandoli di nascosto dai rottami lì vicino. Le informazioni, del resto, sono la moneta del mondo del domani. Più si conosce degli altri, più è facile comprare i loro consensi. Degli uomini però non mi fido, e optiamo per il canale. Nell’acqua di scolo lercia del marciume, nel tanto stantio e rarefatto di aria viziata, veniamo improvvisamente aggrediti da una creatura. Tentacoli, come da un racconto di Verne, ci tirano in basso, nell’acqua buia. La follia, il panico, la paura.

Niente era reale. Forse le sensazioni del luogo, forse la paura, magari turbato che era, il detective è stato vittima di una spaventosa allucinazione. Una voce nella testa mi dice di badare a questo fatto, di stare attento, perché quando guardi l’orrore, esso ti guarda a sua volta e magari, con il tempo si potrebbe perdere gradualmente ogni sanità mentale. Entrati che fummo nel magazzino, che pareva dovesse essere disabitato, rinvenimmo i segni di un vivere quotidiano, fatto di scarabocchi e lerciume che il misterioso inquilino si era lasciato dietro. Il luogo era funereo, capeggiato da una tela orrenda e terribile, raffigurante un uomo dalle fattezze mostruose, ritratto come un santo o un salvatore. Pareva che dietro ogni oggetto di quella stanza fosse acquattato un orrore velenoso, e che chi abitasse quella stanza ammuffita e sacrilega vi scrivesse e studiasse accanitamente figure e formule dimenandosi su di un misero letto di ferro. Percepii distintamente il soprannaturale e con Pierce, decidemmo di uscire in preda ad una certa angoscia. Ma lì il sogno finì, fu uno schermo nero. Fu come risvegliarsi bruscamente da un sogno terribile, che ti lascia disperatamente angosciato e capii che quella sorta di futuristico kinetoscopio aveva smesso di funzionare. Coloro che mi avevano invitato a condividere quell’orrore mi ringraziarono, domandandomi se essa mi sembrava avvincente, e sì lo era. Ma allo stesso modo spaventosa e terribile.
Dissi che sarei stato curioso di vederne la fine, di superare il timore dell’incognito e di scoprire le sorti di Pierce, ed essi mi risposero che mancava poco, poco davvero, e che entro la fine dell’anno avrei potuto scoprire le sorti dell’isola di Darkwater e della sua sfortunata prole.

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Andai via. Un dubbio, a posteriori, mi rimane: se quel mostro fosse stato vero, se quei tentacoli ci avessero avvinto, sarebbe stato in grado Pierce, semmai esista davvero, a portare a termine la sua investigazione senza colpo ferire?
Durante il mio peregrinare con lui mai e poi mai ha estratto la pistola. Invero dubito ne avesse alcuna. L’uomo fa affidamento solo sulle sue conoscenze, sulla sua oratoria, sulla sua abilità di scassinare serrature. Ma semmai una bestia lo avesse aggredito, e me con lui, chi mai ci avrebbe difeso? Non so dirvelo. Come non so dirvi il perché quel mio sogno, per quanto avvolgente, non sembrasse poi così definito. Avevo la percezione che nei movimenti del mio avatar qualcosa mancasse, ed anche i volti di chi mi stava accanto, come il capitano o le altre sfortunate genti, fossero più simili a pupazzi che a uomini.
E se lo fossero stati? Se lo erano? Se non avessi visto altro che la rappresentazione della storia di un altro mondo? So che voi, signori, non mi crederete. Ma non ho nascosto né alterato nulla e, se c’è qualcosa di poco chiaro, è solo a causa della nube oscura che mi ottenebra la mente… Quella nube e la natura nebulosa degli orrori che l’hanno attirata su di me. Possano gli dèi misericordiosi, se esistono davvero, proteggerci in quelle ore in cui vengono meno sia la forza di volontà, sia le droghe inventate dagli uomini per salvarci dall’abisso del sonno. La morte è pietosa, perché da essa non c’è ritorno, mentre per colui che è uscito dalle più profonde camere della notte, consapevole e stravolto, non c’è più pace.