Dentro il periodo storico di Ghost of Tsushima: resistere alla storia

Tra le cose che hanno incuriosito i giocatori all’annuncio di Ghost of Tsushima a colpire maggiormente è forse stato il periodo storico di ambientazione. Certo, siamo abituati a vedere il Giappone Feudale in ambito videoludico. Lo abbiamo visto con Nioh e Sekiro, solo per citare alcune delle produzioni più recenti.

Ciò a cui forse non siamo abituati è vedere un contesto storico così preciso e così poco utilizzato. Se pensiamo al Giappone Feudale la maggior parte delle produzioni ci conduce a cavallo tra i Secoli XVI e XVII. Il videogioco di Sucker Punch invece esplora un momento storico poco sfruttato, quello delle invasioni mongole che, per un momento, fecero tremare il Giappone e lo misero di fronte a una delle più grandi potenze dell’oriente medievale, il Catai di Kublai Khan.

Ma cosa portò a questo scenario in quel periodo storico, lo stesso che affronta Jin all’interno di Ghost of Tsushima? E come si concluse questa invasione? Come riuscì il Giappone, paese piccolo e isolato, a resistere all’urto di uno dei più grandi eserciti della storia?

Proviamo a ripercorrere questo momento storico e a capire cosa portò al disastro uno dei più grandi imperi nella storia dell’umanità. Una premessa. Parte delle informazioni di questo articolo derivano, con le dovute modifiche, dai testi Storia del Giappone di Kenneth G. Henshall e da Storia della Cina di Mario Sabattini e Paolo Santangelo.

Minamoto no Yoritomo affronta un nemico sul suo cavallo

Il Giappone all’inizio del Secolo XIII: la nascita dello shōgunato

L’ultimo scorcio del Secolo XII vide affermarsi in Giappone la figura di Minamoto no Yoritomo, probabilmente il primo condottiero giapponese a fregiarsi del titolo di Shōgun così come lo intende oggi il sentimento comune. Emerso vincitore dalle lotte durante la Guerra Genpei con l’aiuto del clan Hōjō, era riuscito a ottenere un potere senza pari, superiore nei fatti anche a quello dell’imperatore Go-Toba. Un prestigio che mantenne fino alla sua morte, avvenuta nel 1199, a causa di una sospetta caduta da cavallo.

Dopo un fallito tentativo di Go-Toba di riprendere il potere, gli imperatori persero definitivamente il proprio prestigio. Il governo che si venne a creare, con sede a Kamakura nella regione di Kanto, fu a tutti gli effetti basato sul potere militare e il prestigio dello shogun. Siamo di fronte alla nascita del bakufu, lo shogunato, un potere che verrà mantenuto, salvo rare occasioni, fino alla restaurazione Meiji.

Tuttavia la morte di Yoritomo aveva aperto un altro conflitto dinastico. I due figli dello shōgun ereditarono la carica, ma nessuno dei due appariva capace di gestire la complessa tela di intrighi che era divenuto il governo shogunale. Fu così che emerse la figura della madre, Hōjō Masako, la “Monaca Shōgun” che tramò nell’ombra per garantire la continuità del potere della propria famiglia.

Si venne quindi a stabilire l’egemonia degli Hōjō, attraverso la carica del reggente shōgunale. Una situazione che non sopì le tensioni del paese, che rimase per decenni sconvolto dalla messa in discussione del potere degli Hōjō e dei Minamoto. Una serie di guerre intestine che solo un conflitto con una potenza straniera poteva placare.

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Ritratto di Kublai Khan

Il potere della Cina: l’Impero di Kublai Khan

Alla sua morte Gengis Khan consegnò ai propri eredi un impero sterminato, comprendente una grande fetta dell’Asia e parte dell’Europa. Gli eredi, pur mantenendo formalmente l’unità di questo regno sterminato, lo divisero in quattro parti.

Tra questi c’era anche il Gran Khanato, comprendente la capitala Karakorum e la Cina, ultima grande conquista del regno. Al suo comando, a partire dal 1260, troviamo una figura destinata a diventare leggendaria nella letteratura occidentale, Kublai Khan, il mitico imperatore del Catai raccontato ne Il Milione di Marco Polo.

Kublai è passato alla storia come un politico estremamente capace, in grado di fare fronte a diverse crisi della propria nazione e con una mentalità attuale in fatto di economia e grandi opere. Ma fu anche un mecenate, favorendo le arti e dimostrando una forte apertura mentale verso le religioni (eccezione fatta per il taoismo, verso il quale sembrava provare una certa antipatia personale).

Ma Kublai era pur sempre un Khan dei mongoli. Si era fatto strada nella propria dinastia sottomettendo suo fratello Arig Bek, rinchiudendolo nel carcere dove morì due anni più tardi. Un guerriero, che doveva mostrarsi abile principalmente come capo militare. Kubliai cedette alle pressioni dei suoi consiglieri, i quali gli proposero un’impresa ardita: l’invasione del Giappone.

Preparare il campo

Prima di preparare l’invasione Kublai tentò una sorta di mediazione. Già nel 1266, quando non era ancor formalmente imperatore della Cina, il Gran Khan inviò un messo in Giappone, chiedendo al “sovrano” di sottomettersi. In realtà, come detto, a detenere il potere nel Cipango era lo shikken, l’attendente dello shogun, carica retta da Hōjō Tokimune. Inutile dire che la sottomissione non venne presa in considerazione e fu respinta, ancora una volta, nel 1268. Ancora fino al 1272 si succedettero tentativi di ambasciata presso la corte giapponese ma, nonostante le discussioni interne al consiglio dello shogun, la resa non venne mai presa in considerazione.

Nel frattempo Kublai si era nominato ufficialmente Imperatore della Cina (1271), fondando la dinastia Yuan. Con il potere del Catai e della penisola coreana poteva quindi disporre di un esercito immenso, che avrebbe potuto avere ragione di quei caparbi giapponesi. Le fonti, purtroppo, non risultano molto affidabili per quanto riguarda le dimensioni dei rispettivi eserciti. Entrambe le fazioni finirono per esagerare con i numeri, per ovvi motivi propagandistici.

I mongoli, per giustificare la sconfitta subita, sostennero che ci fossero oltre 100.000 difensori a sbarrare loro il passo. Allo stesso tempo, nel tentativo di esaltare la propria vittoria, i giapponesi sostennero che il rapporto tra i propri soldati e quello degli invasori fosse di 1 a 10. Numeri per niente credibili. Gli studi più attendibili parlano di 40.00 difensori giapponesi contro un esercito invasore di 30.000 uomini (numeri tuttavia considerevoli per l’epoca).

Il piano di Kublai Khan era semplice: far salpare la flotta dalla Corea e utilizzare una piccola isola nello stretto come base per le operazioni future. L’isola di Tsushima.

La Battaglia della Baia di Hakata
La Battaglia della Baia di Hakata

La tempesta che non ti aspetti

Il 4 Novembre 1274 gli eserciti mongoli e coreani sbarcarono sull’isola di Tsushima. Il governatore del luogo, Sō Sukekuni, tentò una disperata difesa della spiaggia con un reparto di cavalleria composto da un’ottantina di membri, ma fu sconfitto senza appello. Per i nove giorni successivi l’esercito invasore mise Tsushima a ferro e fuoco, trovando scarsa resistenza nella popolazione, prima di ripartire verso l’isola di Iki. Proprio questo periodo storico è quello che vedremo in Ghost of Tsushima, le ceneri che i conquistatori si lasciano alle spalle.

Anche qui ci fu un tentativo di resistenza da parte del governatore del luogo, Taira Kageetaka, che tuttavia riuscì a impegnare solo per un giorno in più la soverchiante potenza dell’esercito mongolo. Il secondo giorno, dopo il fallimento di una sortita per spezzare l’assedio del proprio castello, Kageetaka si diede la morte tramite seppuku.

La flotta d’invasione ripartì quindi alla volta dell’isola di Kyushu, riuscendo a conquistare una testa di ponte nella Baia di Hakata, vicino alla città di Fukuoka. La strada sembrava ormai spianata per la conquista dell’isola, ma l’esercito mongolo commise un grossolano errore tattico. Di fronte alla ritirata dei difensori non avanzò, anzi. Arretrò, tornando alle navi, dove l’esercito decise di attendere l’alba. Un’alba che un uomo su tre di quella flotta non vide mai. Nella notte si scatenò infatti un violento tifone che distrusse parte delle navi. L’esercito, ridotto di un terzo, fu costretto a tornare in Corea a leccarsi le ferite.

La fallita invasione aveva tuttavia segnato profondamente il popolo giapponese. Era chiara l’inferiorità numerica, tattica e militare nei confronti dei mongoli. Gli anni seguenti videro quindi intensificarsi gli sforzi degli abitanti del Sol Levante per riuscire a migliorare il proprio esercito. Furono costruite mura e fortezze costiere, compreso un alto muro di oltre due metri sulla baia di Hakata.

Nel frattempo Kublai riuscì a pacificare il Catai, riportando una vittoria sulla dinastia Sung. Ma, in quegli stessi anni, non aveva certo accantonato l’idea di invadere il Cipango. Nel 1275 e nel 1279 inviò due gruppi ambasciatori in Giappone per chiederne la sottomissione, ma entrambe le volte tornarono solo le teste dei suoi diplomatici. Furioso, il Gran Khan mise in moto per la nuova invasione dell’arcipelago una macchina bellica formidabile, di oltre 140.000 uomini, a cui si contrapponeva un esercito giapponese aumentato a 40.000 unità. Tutto era pronto per una nuova guerra.

Il muro difensivo nella Baia di Hakata

Ancora la tempesta

Questa volta l’esercito mongolo si divise in due unità. Una parte (la flotta orientale) salpò per prima, con lo scopo di prendere il controllo della provincia di Nagato e attraccare nella Baia di Hakata. Per farlo ancora una volta la base delle operazioni sarebbero state le isole di Tsushima e Iki, con le due flotte che si sarebbero dovute unire per sferrare un massiccio attacco contro Hakata e Fukuoka.

La conquista delle isole si dimostrò un successo al pari della precedente. I comandati giapponesi Shoni Suketoki e Ryuzoji Suetoki offrirono una fiera resistenza all’invasione mongola, che però poté contare anche se una valida innovazione bellica, le armi da fuoco. I difensori furono sconfitti e l’esercito giapponese messo in rotta. Anche in questo caso ci furono massacri tra i civili, con oltre trecento morti, tra cui dei bambini.

Nel frattempo la seconda parte della flotta (quella meridionale) non era ancora salpata: problemi di approvvigionamento la costrinsero a rimandare la partenza, cosa che spinse i comandanti dell’esercito orientale ad attaccare senza aspettare i rinforzi. Si divisero così in due parti, con  il tentativo di prendere il controllo di Nagato e di Fukuoka, ma la prima parte fu pesantemente sconfitta e costretta a ritirarsi. Non andò meglio alla seconda metà della flotta. Come accennato la Baia di Hakata era stata pesantemente fortificata, cosa che portò a una sanguinosa battaglia. I giapponesi furono in grado di resistere a lungo, al punto da incendiare anche alcune navi della flotta.

Incapaci di mantenere una posizione sicura i mongoli si ritirarono. Nel frattempo i rinforzi dalla Corea si unirono al gruppo degli attaccanti. La fortuna sembrava arridere alla flotta mongola, ma come spesso accade la storia ha uno strano senso dell’umorismo: ancora una volta le navi di Kublai Khan vennero spazzate via da una tempesta, venendo dimezzate.

Un simile evento ovviamente fece pensare ai giapponesi di avere dalla propria parte gli déi. Fu allora che venne coniata l’espressione “vento divino” successivamente divenuta famosa nella Seconda Guerra Mondiale: kamikaze.

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La tempesta distrugge la flotta cinese

La fine dei giochi

Arrivati alla fine di questo viaggio nel periodo storico che ha ispirato Ghost of Tsushima proviamo a tirare le somme. La vittoria del Giappone contro l’Impero Mongolo fu una strana combinazione di tenacia, fortuna e incredibili errori militari. Certo, i giapponesi furono tenaci. Ma senza le tempeste che in ben due casi distrussero la flotta del Catai difficilmente avrebbero vinto. E pure le tempeste potevano non bastare, se i generali mongoli non avessero scelto di ritirare le truppe sulle imbarcazioni al primo assalto, o avessero avuto la pazienza di aspettare i rinforzi.

Il secondo fallimento pose fine ai tentativi dei mongoli di conquistare il Giappone. Kublai Khan doveva affrontare delle crisi interne, compresa una forte inflazione che lo costrinse a mettere da parte i suoi piani di espansione. Anche se, è bene dirlo, fino alla sua morte (avvenuta nel 1294) non cessò mai di sognare un’espansione a oriente.

La guerra ebbe strascichi pesanti anche in Giappone. Se è vero che la minaccia esterna aiutò gli Hōjō a sedare il conflitto interno per far fronte comune contro l’invasore, altrettanto vero è che ne aumentò non poco il malcontento. La popolazione divenne sempre più insofferente verso la militarizzazione del paese voluta dagli shikken e avvertita come una necessità per prevenire l’invasione.

La paura dello straniero tuttavia non bastò a calmare il dissenso interno, che crebbe al punto da permettere a un Imperatore di mettere in discussione il governo dello shōgunato e iniziare una ribellione che, pur fallendo, lasciò pochi sostenitori agli Hōjō. All’alba del Secolo XIV era chiaro che presto o tardi il governo di Kamakura sarebbe finito. Il Giappone si avviava a una nuova fase delle propria storia.

Federico Galdi
Genovese, classe 1988. Laureato in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie, Federico dedica la maggior parte del suo tempo a leggere cose che vanno dal fantastico estremo all'intellettuale frustrato. Autore di quattro romanzi scritti mentre cercava di diventare docente di storia, al momento è il primo nella lista di quelli da mettere al muro quando arriverà la rivoluzione letteraria e il fantasy verrà (giustamente) bandito.