Glowamania is Running Wild. Abbiamo visto Glow 2 ed è stato un bel vedere.

La prima stagione di Glow ci aveva riportato negli anni ‘80 e mostrato due anime molto diverse.

Certo, c’era il panorama del wrestling in un momento di profonda trasformazione, con la Rock n’ Wrestling Connection concepita da Vince McMahon che stava prendendo piede, cancellando definitivamente la vecchia tradizione delle federazioni territoriali e le passate politiche delle promotion.

Ma il vero leitmotiv dello show era il ruolo della donna in un decennio di forti trasformazioni sociali, dove il ruolo di madre e moglie iniziava tipico della tradizione americana stava lasciando spazio a quello dell’imprenditrice e della donna che voleva farsi da sé, capace di scrivere la propria storia.

E Glow riusciva nel suo intento, superando quella strana contraddizione dell’utilizzo di una fiera di stereotipi come il wrestling della “gimmick era” per parlare di emancipazione femminile e parità dei diritti.

La seconda stagione appariva perciò inevitabile, ma riuscire a portare avanti tutti questi temi non sarebbe stato facile. Ma tiriamo subito un sospiro di sollievo: la seconda stagione di Glow è anche meglio della prima.

Può sembrare strano essere sorpresi dalla stessa cosa che aveva destato stupore nella prima stagione. Riuscire a far arrivare un messaggio a favore della parità di genere in uno show basato su uno degli ambienti più maschilisti e brutali al mondo come il pro-wrestling non è cosa semplice da fare. Tuttavia, per nostra fortuna, le creatrici e sceneggiatrici Liz Flahive e Carly Mensch riescono in questo intento. E ci riescono alla grande.

Riprendiamo la narrazione più o meno dove l’avevamo lasciata l’ultima volta. Le ragazze di Glow, dopo l’episodio pilota, sono riuscite a strappare un contratto televisivo con la KDTV, un’emittente locale della San Fernando Valley.

Non è cosa da poco: le ragazze si trovano a dover firmare un contratto e produrre venti episodi, cercando di mantenere il prodotto fresco e originale quanto basta per convincere il network a mantenere lo show in vita. E questo, ovviamente, si traduce in un’enorme responsabilità per l’intero roster.

A subire le pressioni maggiore sono però i protagonisti della vicenda, primo tra tutti il regista Sam Sylvia (Marc Maron), costretto a dividersi tra la responsabilità sul lavoro e quelle paterne, con la ritrovata figlia Justine; Debbie (Bettie Gilpin), la diva del programma, in procinto di divorziare dal marito infedele, con un figlio piccolo a carico e nella nuova veste di produttrice; e, infine, Ruth (Alison Brie), la quale vorrebbe rimettere un po’ di ordine nella propria vita personale e dare lustro al progetto di Glow, che ha iniziato a sentire davvero suo.

La seconda stagione di Glow conferma quanto di buono fatto nella precedente. Ci troviamo di fronte, come in passato, a una serie corale, dove tutti i personaggi contribuiscono a rendere migliore quanto visto all’interno della serie. Insomma, più che gli eventi sul ring hanno importanza quelli che si svolgono attorno a esso: la scelta dei match e la produzione della serie, certo, ma anche e soprattutto gli eventi personali di chi sta costruendo questo show. Glow è soprattutto questo: la vita di un gruppo di persone in una società che, seduta sopra un trono d’ipocrisia, osserva con sguardo indagatore e giudica tutto e tutti.

I tentativi di emergere rimanendo fedeli a se stessi non sono facili né esenti da compromessi e la critica rivolta verso il mondo della televisione non manca mai di farsi sentire. E la forza della serie sta nel saper valorizzare la maggior parte dei propri personaggi, dando loro uno spazio e un minutaggio adeguato per riuscire a rendere al meglio su schermo.

Se è vero che grandissimo spazio viene dato ai tentativi, quasi patetici, di Ruth di riconquistare la stima e l’amicizia di Debbie, al sempre maggiore distacco di questa rispetto alle altre ragazze e alle traversie personali di Sam, non si possono ignorare anche le altre storyline che trovano spazio all’interno di questa seconda stagione di Glow. Prima tra tutte quella di Tammé Dawson, interprete di “Welfare Queen”.

Interpretata da un’ex wrestler professionista, l’ex campionessa TNA Kia Stevens (aka Awesome Kong), la sua vicenda ricalca molto bene quella che è una delle grandi contraddizioni del wrestling: portare in scena uno stereotipo razziale, parodia dello spauracchio repubblicano del cittadino indolente (magari appartenente a una minoranza) che si fa mantenere dallo stato per sopravvivere, il tutto mentre suo figlio è al college e combatte per elevare il proprio status a discapito di una società ancora imbevuta dei mali della segregazione razziale. Il tutto con una strizzata d’occhio al wrestling lottato e a quello che un pessimo personaggio può causare nella vita e alle carriere dei lottatori.

Le tematiche, insomma, pur essendo quelle della scorsa stagione, restano fresche e vengono trattate nel migliore dei modi. Nulla, all’interno di Glow, appare stantio e la serie si dimostra costantemente appassionante. E non guasta certo il fattore nostalgia, la capacità di ricreare al meglio l’atmosfera degli anni ‘80 attraverso la colonna sonora e i costumi.

Anche i fan di pro-wrestling non resteranno delusi. Oltre a un paio di cammei importanti e a qualche riferimento ai grandi di questo sport spettacolo, come nella precedente stagione si riprendono le fila dei retroscena e le meccaniche di questa disciplina. Forse è proprio qui che è stato fatto uno dei grandi miglioramenti rispetto alla prima stagione, coerentemente con quelle che sono le necessità di narrazione della storia.

Se, infatti, inizialmente Glow mostrava uno scalcinato gruppetto di attrici mentre cercava di compiere la difficile trasformazione a wrestler, adesso ci troviamo di fronte a un “roster” vero e proprio, consapevole delle necessità e delle difficoltà da fronteggiare per mettere su uno spettacolo godibile. La storia di Glow in fondo potrebbe benissimo funzionare in qualsiasi altro contesto, senza un ring e una corona in palio. Ecco quindi che l’importanza data a un elemento che, a conti fatti, è assolutamente di secondo piano, non può che essere apprezzata.

Verdetto

Glow continua a migliorarsi e sorprendere. Dopo una prima stagione che costituiva un’eccellente premessa per quello che poteva essere lo show, la serie riesce a confermare quanto di buono mostrato in passato e proporre, ancora una volta, uno spettacolo in cui il wrestling diventa un valido pretesto per riuscire a portare in scena una storia di rivalsa, contro le aspettative e le etichette imposte dal senso comune.

Federico Galdi
Genovese, classe 1988. Laureato in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie, Federico dedica la maggior parte del suo tempo a leggere cose che vanno dal fantastico estremo all'intellettuale frustrato. Autore di quattro romanzi scritti mentre cercava di diventare docente di storia, al momento è il primo nella lista di quelli da mettere al muro quando arriverà la rivoluzione letteraria e il fantasy verrà (giustamente) bandito.