God of War Ragnarok dimostra di essere molto valido, eppure in fondo si sente la mancanza di un elemento importante: la visione autoriale

amma mia regà, che giocone che è God of War Ragnarok. Questo è il commento medio tra gli amici che hanno giocato alla nuova epopea di Kratos e Atreus. E in effetti God of War Ragnarok è un gran gioco. A livello narrativo, ludico, tecnico. In un’intervista rilasciata su Multiplayer.it, il game director Eric Williams ha affermato di essere ancora impressionato del risultato su PlayStation 4. “Avevo paura che la console prendesse fuoco considerato quanto l’abbiamo spinta per far girare un gioco del genere”.

Ma è su PlayStation 5 che God of War Ragnarok dà il meglio di sé. Non tanto per le espressioni facciali dei personaggi – su questo fronte Horizon Forbidden West è superiore -, quanto per gli scenari durante l’esplorazione e le coreografie degli scontri. Il colpo d’occhio c’è, a tal punto da far sentire la mancanza iniziale della Photo Mode, poi fortunatamente aggiunta con la patch 3.00.

In merito al sistema di combattimento, Ragnarok riprende quanto fatto nel 2018 e lo estende. Il classico albero delle abilità appare più approfondito, inoltre la possibilità di concatenare più effetti, tra cambio d’armi, abilità e incantesimi, pure tra più personaggi, rende il tutto uno spettacolo adrenalinico.

Attenzione però: ciò non vuol dire che God of War Ragnarok sia da prendere alla leggera. Rispetto al precedente capitolo, mostra una difficoltà d’approccio maggiore. In altre parole, gli scontri, specie contro boss, richiedono uno studio dei pattern o dei ritmi nemici per parare o schivare in maniera efficace, altrimenti si rischia il suicidio. A difficoltà normale.

Ciò è molto apprezzabile, dimostrando la capacità di God of War Ragnarok, e in generale delle esclusive Sony, di sapere coinvolgere attraverso la cura di qualsiasi comparto – ludico, tecnico, sonoro, grafico, narrativo – andando contro lo stereotipo del gioco mainstream = gioco facile.

Il risultato finale non può che far dire “wow”. Lo dimostra il plauso unanime di critica e pubblico e i sei premi vinti all’ultima edizione dei The Game Awards. Eppure, c’è un qualcosa che manca. Quando si spegne la PlayStation, cosa rimane? Una trentina d’ore trascorse in ottimo modo, e poi? Se si guarda al videogioco come mezzo di comunicazione, d’espressione, è un risvolto che fa riflettere. Ma perché questa sensazione?

God of War Ragnarok: dopo cosa resta?

Il secondo album è sempre più difficile, diceva Caparezza, un concetto che può essere facilmente applicato pure sul secondo capitolo di un soft-reboot come God of War del 2018, titolo che vede al centro la figura e l’esperienza da neo-papà del game director Cory Barlog.

“Quando ho avuto una figlia, la mia prospettiva è cambiata, riguardo a tutto” dice nel documentario “Raising Kratos”. E questo nel gioco si percepisce, sin da subito. Il Kratos bellicoso e iracondo ha lasciato spazio a un uomo influenzato dalla vecchiaia e dall’amore per il figlio, Atreus, che metterà più volte in dubbio il suo passato da flagello degli dei.

La scena iniziale della caccia e l’epilogo in cui finalmente vengono disperse le ceneri di Faye racchiudono un percorso profondo di crescita tra i due protagonisti.

Ciò che resta al termine dell’avventura è un appagamento interiore, dettato dall’aver assistito a una tragedia greca videoludica in salsa norrena (nell’unire le due mitologie la nuova scia intrapresa dalla serie si è dimostra molto attenta), in cui apollineo e dionisiaco si scontrano e si uniscono per raccontare una storia. Una storia sentita da chi ha contribuito a crearla.

Nonostante l’enorme successo di God of War nel 2018, Barlog ha poi deciso di rinunciare al ruolo di game director e di chiedere di essere sostituito da Williams, veterano della serie di Santa Monica, su cui ha lavorato principalmente come consulente esterno. Un passaggio di redini tra un uomo che ha utilizzato il suo lavoro per raccontare la sua esperienza e un uomo ritrovatosi in quel ruolo senza averlo richiesto, con il peso di un franchise come God of War sulle spalle.

Ciò spiega in parte perché il secondo capitolo ripropone lo scontro prima menzionato, seguendo in maniera sopraffina ma “anonima” la medesima struttura: dissidio tra i due protagonisti, dettato da differenze caratteriali oramai note, fino ad arrivare alla risoluzione finale, epica e toccante sì, ma priva di un guizzo suo, unico, personale. La sensazione dunque è quella di aver assistito a un reset del rapporto tra Kratos e Atreus per attuare una formula narrativa sicura ed efficace.

Un reset che va a toccare anche l’albero delle abilità, che riparte da zero. Questo punto non è un neo tipico di Ragnarok, ma coinvolge la maggior parte dei sequel. Forse questa insofferenza dovuta al dover reimparare abilità già imparate nel capitolo precedente è la dimostrazione che bisogna trovare una nuova strada con la next-gen.


Altro aspetto che “spersonalizza” God of War Ragnarok è la struttura più aperta, con ampie aree che si alternano alle fasi lineari a corridoio, in cui poter svolgere numerose missioni secondarie. Una formula che funziona nell’endgame, ma che ad avventura in corso crea un senso di diluizione: il Ragnarok incombe, ma ehi, c’è tempo per cercare i Lindwyrm scomparsi dello scoiattolo mistico. Purtroppo è un problema che accomuna spesso gli open world: la quest principale riguarda la distruzione immediata del mondo, ma meglio accontentare le richieste di anonimi NPC.

God of War Ragnarok non è dunque esente da questa problematica che va inevitabilmente a stridere con l’atmosfera tetra dettata dal Ragnarok. Tramite i personaggi secondari come Mìmir, il gioco prova a rendere meno dissonante questo contrasto, ma la sensazione resta quella di annacquare l’esperienza per renderla conforme alla longevità media delle produzioni videoludiche principali, utilizzata spesso dal pubblico per giustificare l’acquisito di un titolo.

Tornando ai personaggi, non è un caso se nel secondo capitolo gli NPC acquisiscono maggiore spazio. Freya, Angrboda, Brok, Sindri e tutte le altre comparse (villain compresi) hanno un loro peso nel gioco, che a questo punto diventa un racconto corale. E ciò è evidente soprattutto nel finale.

Una tendenza evidente anche in altre esclusive Sony, dove attorno ai protagonisti principali vi è un corollario di personaggi secondari che arricchisce e caratterizza l’universo narrativo dei singoli franchise in esclusiva. In altre parole, stiamo assistendo a una “marvellizzazione” dei mondi di gioco, con schiere di personaggi che penetrano nell’immaginario videoludico e rafforzano il rapporto con la fanbase storica di Sony.

L’ingrediente segreto del successo: la componente umana

Riassumendo le riflessioni fatte finora, God of War Ragnarok si dimostra un gioco molto valido, meno però se inteso come opera. Fateci caso: a un mese di distanza dall’uscita è davvero difficile trovare discussioni sul gioco e anche le classifiche dei giochi più venduti, risalenti alla settimana del Black Friday, dunque vicina al lancio di gioco, danno l’idea di un hype scemato subito.

Certo, il primo God of War del 2018 aveva dalla sua parte il fattore sorpresa. Quattro anni dopo è difficile pensare a qualsiasi sorta di rivoluzione. L’assenza però di una visione autoriale, contenente un messaggio, si sente.

Ciò dimostra che anche le produzioni gigantesche si basano sulla componente umana. Per decenni si è parlato dei videogiochi come prodotto, dimenticando i team e le visioni che vi sono dietro. Su questo Sony è sempre stata molto attenta, con la realizzazione di franchise dotati di anima e carattere. Basti pensare ad Amy Henning e Uncharted, Neil Druckman e The Last of Us, Hideo Kojima e Death Stranding, Cory Barlog e God of War.

Sia chiaro: sarebbe miope attribuire il merito del successo di un titolo AAA a una singola persona, ma quando la visione autoriale emerge, sovrastando tutto il resto, anche quello che funziona, aggiunge quel quid in più capace di rendere un videogioco indelebile col susseguirsi delle generazioni di giocatori e giocatrici.

Lorena Rao
Deputy Editor, o direttigre se preferite, assieme a Luca Marinelli Brambilla. Scrivo su Stay Nerd dal 2017, per cui prendere parte delle redini è un’enorme responsabilità, perché Stay Nerd è un portale che punta a stimolare riflessioni e analisi trasversali sulla cultura pop a 360° tramite un’offerta editoriale più lenta e ragionata, svincolata dalle dure regole dell’internet che penalizzano la qualità. Il mio pane quotidiano sono i videogiochi, soprattutto di stampo storico. Probabilmente lo sapete già se ascoltate il nostro podcast Gaming Wildlife!