Quando un colpo fa la storia del videogame

La prima volta che ho giocato a Street Fighter (il II per la precisione) avevo circa 9 anni. Era il 1995 ed il mondo si ricordava ancora cosa fossero le sale giochi. Ero in un bar in quel di Sabaudia, sulla costa laziale, un luogo che frequentavo più o meno tutti i giorni delle mie assolate e spensierate estati, e lì andavo proprio per quei pochi cabinati attorno a cui si affollavano i ragazzini come me. Per me era tipo uno dei posti più belli del mondo. Non che la scelta fosse particolarmente ampia, ma tra le varie amavo a dismisura il cabinato di Toki, nonché quello di Super Mario Bros 3 che qualche anno dopo avrebbe lasciato spazio ad un vecchio cassone SNK con all’interno Samurai Shodown. Sto divagando.

I bambini si affollavano però attorno a Street Fighter II, affascinati dai suoi personaggi così fighi ed a portata di immaginazione. Non c’era ancora tra i ragazzini la cultura del manga o dell’anime, ed il minimo comune denominatore era Dragon Ball, per quelle poche puntate che potevi beccare su Telemontecarlo o giù di lì, giusto inframezzato da Alvaruccio & Camilla e gli ultimi episodi del tv game show con protagonista il leone del Lion. Punto.

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Hadoken-Humor-Tee_grandeCome che fosse, erano gli anni in cui le arti marziali andavano forte, complice un tripudio amoroso che ogni bambino stava sperimentato grazie alle TMNT. Le arti marziali, meglio ancora se condite da poteri più o meno sovrannaturali, erano dunque un pallino di tanti, tantissimi giovani, ed ecco dunque spiegato perché, in quella vecchia sala giochi del baretto in pineta, partissero ogni giorno innumerevoli sfide a colpi di gettoni da 500 lire, precedute da una certa indecisione sul chi scegliere e perché: Honda, per esempio, era universalmente considerato un personaggio sfigato da giocare, e chi se lo sceglieva (conscio di quanto male potevano fare le sue cinquine) veniva pubblicamente deriso. Vega, nonostante la sua ambigua sessualità, aveva invece quella combo maschera+artigli che non poteva che affascinare più o meno tutto il circondario. Bison era l’icona del male figo dalle mosse complicate e, dunque, scelto da chi aveva irrimediabilmente bisogno di sentirsi un pochino superiore alla media e poi c’era Ryu. Ora, Ryu era un personaggio che ti sembrava stereotipato pure con la mentalità di un ragazzino, versione palesemente presa bene di un Daniel LaRusso a caso, ma che dalla sua aveva la mossa più figa di tutto il gioco: l’hadoken.

Perché poteva esserci incertezza nella scelta dei personaggi, ma quella che non mancava era la convinzione con cui maccheronicamente si “scagliavano” in aria i colpi dei vari nomi, così come sembrava di averli intuiti dalle poche battute dei personaggi (una cosa che, nel post Dawson Creek è stata ribattezzata “sindrome anouanauei”). Ma non l’hadoken. L’hadoken era chiaro a tutti, e tutti cercavano di emularne le pose in qualche modo. Ancor più chiaro era come, pian pianio, esso si stava radicando nella nostra memoria muscolare, tanto che nel corso di buona parte dei lanci in game, il circolino di ragazzini attorno al cabinato ripeteva, sottovoce e con religioso rispetto, “sotto, diagonale, avanti, pugno”. Effettuare o meno il colpo era fonte di impareggiabile gioia, ancor di più quando colpiva il povero stronzo che, tentando di scansarne uno saltando, veniva colpito in volo dal secondo.

STREET-FIGHTER-II

L’hadoken è diventato quindi prima una “moda”, poi il simbolo consacrato di una serie che non solo ha spinto il concetto di “fighting game” ma che è DI FATTO essa stessa Il Fighting Game; nel tripudio di consonanti maiuscole che è questa frase dovrebbe esservi chiaro cosa sia, almeno per la mia generazione, Street Fighter II e cosa, di conseguenza, sia l’hadoken. È il marchio di fabbrica, il biglietto da visita e, contemporaneamente, anche la firma dell’intera serie Capcom. L’hadoken non è un colpo, è il colpo per eccellenza, così radicato nella cultura di massa da essere divenuto oggetto di memetica e merchandising.

yamato_wave_motion_gunUna palla energetica, nulla più che una sferetta luminosa che, con il tempo, si è tramutata in una manifestazione del carattere di quegli stessi personaggi che dopo Ryu e Ken si sono resi capaci di lanciarlo. L’hadoken è la manifestazione del “chi”, del proprio spirito combattivo, in quei guerrieri capaci di concentrarne il potere per poi scagliarlo attraverso le mani. Le influenze, come ammise poi Takashi Nishiyama (creatore della serie ed ora presidente di Dimps) non derivano solo dall’ovvia cultura asiatica, ma attingono addirittura ad un insospettabile filone science fiction che in Space Battle Yamato, per il game designer, trova un ideale punto di riferimento. Come la nave spaziale Yamato aveva un colpo eccezionalmente potente, capace di essere rilasciato (sotto forma di raggio energetico) solo dopo un apposito momento di “carica”, così Nishiyama immaginò di dotare alcuni dei suoi combattenti (solo Ryu e Ken all’epoca, in quanto discepoli di Gouken) del potentissimo hadoken. L’arma della Yamato, la Wave Motion Gun (Hado Ho in giapponese) diventa così l’hadoken, probabilmente poi influenzato, almeno per la posa e l’emissione del colpo, da quello stesso Dragon Ball che imperversava in Giappone già da un paio d’anni buoni. Il resto, come si suol dire, è storia. Persino la scelta dei tasti non fu casuale, e fu studiata per emulare al meglio il movimento dello sprite del personaggio, affinché la partecipazione all’esecuzione del colpo fosse massima… e lo era.

hadoken_sfiIl team pensò inoltre di integrarlo nel gioco non solo come mera tecnica utile al combattimento, ma come punto di riferimento narrativo, creando attorno al suo insegnamento anche un certo misticismo (peraltro perfettamente riportato nella serie a cartoni animati Street Fighter II Victory), condito dall’alone di mistero che, all’epoca, avvolgeva il nome di Gouken. Solo certi personaggi possono eseguire un hadoken, e benché la lista fosse originariamente stringata, il contatore attuale segna “solo” 11 nomi, con con circa il doppio delle varianti del colpo stesso (dovrebbero essere 21). La potenza del colpo, ed il suo stesso aspetto dipendono dal “chi”, e dunque dallo spirito combattivo e dal carattere del personaggio. E così mentre, ad esempio, Ryu può scagliarne una versione particolarmente rabbiosa, come la furia che segretamente alberga nel suo cuore, Akuma può scagliarne uno in volo, dimostrando la sua dedizione allo studio del Satsui No Hado. Sakura, che ha imparato a combattere imitando Ryu e senza alcuna formazione tecnica, ha invece un hadoken quasi incompleto, mentre Dan, che altro non è che una macchietta, ne spara uno che è quasi una comica, incapace di percorrere neanche un decimo della distanza che il colpo dovrebbe avere.

hKxPoQeMa l’hadoken non è solo questo, è la base del combattimento tecnico, e la sua tempistica di utilizzo fa la differenza tra un pro e un niubbo. Il colpo è efficace, potente, ma lascia il personaggio scoperto per qualche secondo, aprendo la difesa ad un tripudio di mazzate. Perché neanche un colpo di pura energia, in Street Fighter, significa automaticamente vittoria. Il tempismo è tutto in Street Fighter e l’hadoken è quasi la parabola perfetta che mette in pratica questa regola aurea, obbligando il giocatore a imparare a calcolare spazio, frame, danni. Lo avevamo detto un po’ più su, non è un colpo, è IL colpo, il simbolo di una generazione che ha speso decine e decine di lire alla settimana per padroneggiare un cabinato a cui sono legati, indissolubilmente, tantissimi ricordi. Si tratta di una di quelle cose radicate nel vecchio modo di concepire i videogame, e che con l’incedere degli anni 2000 si è perso. Si trattava, all’epoca, di imporre status mentali, messaggi forti (almeno dal punto di vista visuale) creando, di conseguenza, indissolubili e radicate icone del videogame.

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È stato così per il salto di Mario, è stato così per il dash di Sonic, ed è stato così anche per l’hadoken di Ryu che, come il Konami Code, è rimasto impresso nella nostra comune memoria storica, come una versione 1.5 di una involontaria stele di Rosetta. Erano altri tempi, Dio solo sa quanto non mi manchino quegli anni, quel rumore di monete, quell’odore stantio da sala giochi. Per fortuna però, l’hadoken resta ancora. Almeno quello.