Il team di Storm in a Teacup, studio romano di sviluppo videoludico, ci ha gentilmente ospitato nel proprio “quartier generale” e ci ha concesso una interessante e dettagliata intervista in cui sono stati sviscerati diversi aspetti, dal generale al particolare, approfondendo anche il discorso delle differenze sul lavorare in Italia e all’estero.
Ma bando alle ciance, ecco a voi l’intervista completa!

storm in a teacup intervista

Com’è sviluppare videogame in Italia, per un team come voi, che lo sta facendo ormai da un po’ di tempo?

È dura esattamente come svilupparli all’estero, con qualche bonus e qualche malus. I bonus sono, per esempio, il bel tempo e il cibo. Ho vissuto all’estero per tanti anni e devo dire che mi mancavano questi due elementi. Poi ci sono gli aspetti negativi che sono tanti e vari: il sistema fiscale italiano, per dirne una, che è una botta allucinante, piuttosto che il ricircolo di personale, mentre all’estero se ti esce un programmatore o un artist molto promettente dalla porta, te ne entrano subito altri 3. Qui in Italia, se ti lascia un programmatore o un artist molto preparato è difficile rimpiazzarlo, e questo porta al fatto che noi le persone che sono il backbone della società le curiamo in modo particolare.

Quindi in qualche modo non siete d’accordo su quella che è la comunicazione che si sta facendo in questo ultimo anno, relativa allo sviluppo in Italia, o trovate che effettivamente ci sia una rifioritura dello sviluppo?

C’è una fioritura, sicuramente. Sono nati tanti studi indipendenti, tanti piccolini, quindi c’è stata. Quello che mi preoccupa è chi resisterà, in realtà. E mi preoccupa da italiano, nel senso che a me non piace stare in un paese dove, di base, me la canto e me la suono insieme ad altri quattro, cinque. Preferirei avere tanti studi vicini sul territorio, perché questo permetterebbe quel ricircolo del personale, per esempio. Magari un mio artista se ne va, e io da un altro studio ancora me ne prendo un altro, come avviene normalmente all’estero.

Parliamo di Close to the Sun, che è il gioco che state sviluppando adesso: quanto tempo vi ha impiegato, quanto tempo vi impiegherà e, soprattutto, visto che hai parlato di tassazione, problemi vari, come si fa a resistere sviluppando un solo videogame alla volta?

Beh, la cosa è abbastanza semplice in realtà. Nel senso che bisogna avere le spalle forti. Sviluppare un piccolo prodotto e incrociare le dita, non è un business model ed anzi non lo è mai stato per nessuna cosa. Molti ragazzi più giovani guardano le case history, tipo quei tre, quattro ragazzi che hanno fatto il videogioco e hanno fatto il botto e sono diventati famosissimi e ricchi. Questo non fa benchmark. Per una realtà per cui questo ha funzionato, ce ne sono migliaia che hanno chiuso. Quindi bisogna strutturarsi come società per vari motivi. Il primo è che così si comincia ad avere una forma mentis da società e pertanto si trattano le cose in maniera differente. E l’altra motivazione è che se cerchi un partner, un publisher o altro, è molto più facile che si fidino di una società legalmente riconosciuta, piuttosto che di tre, quattro ragazzi che non hanno neanche un accordo firmato dal notaio.

Quindi, se tu dovessi dare un consiglio a qualcuno, diresti: ragazzi, non fate progetti da garage, ma se avete delle competenze, cercate di lavorare per una società?

No, non è assolutamente quello. Fate i progetti da garage, ma fateli come società, apritevene una. Abbiate, non solo il nome e il logo, ma la posizione aperta alla Camera di Commercio. Perché quando vi presentate fuori, vi presentate in un’altra maniera.

Carlo, ma tu che hai avuto esperienze all’estero, perché stai in Italia?

Questa è una domanda che mi fanno tutti, tranne mia madre che è contentissima che sono tornato!

Però vabbé non è che quello fa benchmark!

È vero, non fa benchmark, mia madre!

Ma perché non spostare Storm in a Teacup in Giappone, come a Londra o Berlino o dove vi pare?

Per il semplice fatto che io sono tornato per varie motivazioni. Sono quelle motivazioni che mi tengono legato qua, pure i miei genitori, perché comunque comincio ad avere una certa età e non voglio stare distante, per esempio. Ho ricevuto sempre ottime offerte da società come Naughty Dog o Pixar o la stessa Epic Games, e non le ho mai accettate, perché se uno dei miei genitori, ad un certo punto, si fosse sentito male mentre mi trovavo a Londra in 3 ore mi sarei trovato a casa, ma in Canada o in California la faccenda sarebbe diventata un po’ più complessa.

E quindi perché, a parte i genitori?

Innanzitutto perché ero stanco, ero stanco morto. Il mio ultimo progetto a cui ho lavorato era Batman: Arkham Origins della Warner Bros Games e mi ha sfiancato. Son tornato a casa che stavo raschiando il fondo del barile e ho detto: mo’ mi fermo un attimo! Però non credo che ritornerò all’estero, pure perché il mio dramma è che io ho sempre voluto fare carriera molto in fretta fuori dall’Italia, e quindi io facevo un pochino da closer e le società tipo Square Enix, Ubisoft, Crytek o altre, mi chiamavano a sei mesi, massimo un anno dalla fine del progetto, cioè quando il progetto non c’è, c’è solamente crash time e dopo dieci anni di crash time perenne, io ho detto basta. Poi, nel frattempo, mi ero fatto casa qui a Roma, ho cominciato ad arredarla e mentalmente ero già preparato al fatto che sarei tornato.

Riferendomi sempre a Storm in a Teacup, non sarebbe più economico spostarsi da un’altra parte?

No. Quando uno pensa allo spostamento, non deve pensare semplicemente a quanto può costare lì l’attività, ma anche al costo dello spostamento in sé, a quante persone perde, a tutti quelli che non si vogliono spostare insieme a te e alla tua società e poi ci sono un sacco, ma veramente tantissimi, luoghi comuni sull’aprire una società all’estero. Per esempio: tutti mi dicono “vai a Malta”; ma io sto a Roma, uno degli scali più importanti d’Europa, se un publisher vuole venire a trovarmi, ci mette due nanosecondi; se un giornalista estero mi vuole venire a trovare, stessa cosa.

Pensi che comunque questo tipo di centralità premi?

Assolutamente sì! Noi abbiamo tantissima gente che ci viene a trovare dall’estero, anche perché con l’occasione vede per la prima volta Roma e per noi è normale, siamo romani, è naturale vedere il Colosseo, oppure il Pantheon, mentre per loro è il sogno di una vita che si realizza e quindi uniscono l’utile al dilettevole. Voglio dire un’altra cosa riguardo lo spostamento: c’era stato proposto, da un governo straniero di spostarci da loro e sembrava tutto troppo bello: detassazioni, non si pagava un tubo, ecc. Poi abbiamo fatto la domanda fatidica: ci mandate un chart dove è definito lo stipendio medio per artisti e programmatori junior, mid e senior? Gli stipendi erano talmente alti che, con tutta la detassazione, comunque paghiamo di meno qua.

Voi siete uno studio che ha avuto dei grossi riconoscimenti nel corso della vostra carriera, partendo dal modo in cui Microsoft vi ha spinto dai tempi di Nero, ai più recenti Drago d’oro che avete lì e che non immaginavo pesassero così tanto! Quanto ha influenzato il riconoscimento all’interno della vostra attività lavorativa? Immagino che ricevere un riconoscimento, soprattutto se ti spinge Microsoft, è una cosa bellissima, però in fin dei conti quanto è effettivamente utile tutti i giorni una cosa del genere?

Se parliamo dei premi, sono assolutamente inutili! Però danno tanta soddisfazione e la soddisfazione aiuta a lavorare meglio, costantemente. Invece a livello effettivo, nel day by day, non serve a nulla. Mentre il riconoscimento da parte di Microsoft, quello sì che ha un valore economico a tutti gli effetti. Andare all’E3, figurati sullo showfloor da Microsoft con il programma ID, vuol dire che se ti giochi bene il tuo schedulig all’interno del E3, tu stai ricevendo qualcosa come 100.000/150.000 euro di marketing gratis. Insomma, non è poco!

Da sviluppatore, secondo te, qual è il problema del videogame nel nostro paese? Comunicativo, economico, culturale? Tu cosa ne pensi quando si dice che c’è un problema di arretratezza culturale nei confronti di un videogioco?

Non c’è assolutamente nessun problema! Chi lo dice sbaglia, perché di base è un paese che investe almeno un miliardo di euro ogni anno in videogames e roba collegata ad essi. Quindi io tutto questo problema culturale sinceramente non lo vedo.

Quindi dici che associazioni come AESVI stanno combattendo contro i mulini a vento, perché non esiste il problema?

Assolutamente no. Lì il problema non è culturale, è diverso; è politico. È la politica che deve riconoscere il videogioco, ma qualunque politico ha un nipote o un figlio che gioca con una PlayStation, Xbox o Nintendo, se non il politico stesso! Sai quale è il problema? Che per fare questo mestiere, servono i soldi. Fine della storia. Se tu pensi di farlo con 5.000, 10.000, ma anche 100.000 euro… sbagli! Perché se tu pensi: io faccio un gioco, che venderà, e coi proventi ci farò un secondo gioco che venderà e coi proventi di quel secondo gioco ci farò un terzo gioco i cui proventi ecc, ecc… no, non funziona così! Perché i giochi possono andare male, possono andare bene oppure possono andare mediocremente. Se va male, tu che fai? Chiudi perché non hai soldi per fare il secondo? Eh no, devi partire con le spalle coperte, ma per partire con le spalle coperte, devi stare in un sistema. Ecco, per parlare di qual è il problema dei mutui e dei prestiti bancari, per esempio, in Italia le banche non ti danno soldi per fare videogiochi. Ma io di secondo mestiere faccio il costruttore e non te ne danno più neanche per costruire! E un tempo, se costruivi, le banche ti ricoprivano di soldi. Oggi non fanno più neanche quello.

A questo punto, che cosa vi aspettate voi da Close to the Sun? Al di là del successo, perché uno fa ovviamente un videogioco e si aspetta che abbia successo!

Allora, il successo si può dividere in: successo economico, successo mediatico e successo di brand recognition. Il successo economico è importantissimo e sicuramente noi ci attendiamo dei numeri abbastanza forti. Non ci attendiamo la luna, perché sarebbe da stupidi, però abbiamo i nostri forecast, quanto pensiamo di vendere più o meno. Successo di brand recognition e cioè: Storm in a Teacup è la società che ha sviluppato, è uscita dal canale dei giochi di nicchia ed è entrata di prepotenza nei cosidetti AA, cioè quelli che hanno la qualità dei tripla A ma non hanno la medesima durata e le tante meccaniche. Mi riferisco a giochi come Outlast, come Soma, come Layers of fear. E, se ci pensiamo bene, a livello globale, di titoli “grandi”, come Outlast e Layers of fear e Soma, al mondo non ce ne sono tanti di studi indipendenti. Quindi noi ci andiamo ad infilare in un target che sta attendendo qualcosa come quello, non di meno, ma neanche di più.

Quindi lo sviluppo e la creazione di Close to the Sun sono un pochino un punto di svolta per Storm in a teacup?

Sono “il” punto di svolta. Questo era ciò che noi ci prefiggevamo da tre anni, ma sarebbe stato stupido farlo come primo progetto, sarebbe stato stupido farlo come secondo o terzo progetto. Avevamo bisogno di costruire un team, di crescere insieme e imparare le tecnologie. E Close to the Sun è il risultato di questi tre anni di sviluppo della società, perché in questo tempo noi più che sviluppare giochi, abbiamo sviluppato la società ed è molto differente. Una cosa che io ci tengo molto a dire è che, da un certo periodo in poi sono state fatte delle manovre che sono potute sembrare magari azzardate, ma non lo sono state affatto, perché oggi come oggi Storm in a Teacup, nel mercato italiano, è una società che è stata valutata 3 milioni di euro e questo vuol dire che è stato creato del valore, quindi siamo diventati più appetibili e di conseguenza creiamo un valore sui prodotti.

Da Close to the Sun in poi punterete sempre di più al sole, praticamente!

Non vedrete più Lantern, non vedrete più giochi di questo tipo. E sì, punteremo al sole, cercando di non bruciare la cera delle ali!

I titoli precedenti si basavano molto sulla sensorialità (vedi Nero e soprattutto Lantern), volete quindi abbandonare questa particolarità che è poi quella che ha caratterizzato i vostri primi titoli?

Storm in a Teacup nasce per raccontare storie e non intendiamo smettere. Con Close to the Sun stiamo narrando una storia, pure abbastanza complessa, quindi non ci stiamo discostando da Nero, sotto questo punto di vista. È vero che Nero era molto emozionale, era una storia molto profonda, molto triste, molto elaborata, però alla fine voglio metterla in maniera molto semplice: questa è una società e dobbiamo fare business, e le emozioni non vendono più come quattro anni fa. Se uscisse oggi Journey, a meno che non ci fosse dietro qualcuno a spingerlo veramente bene come ha fatto Sony ai tempi, ora non farebbe un euro.