“Make the purge great again”



La notte più pericolosa d’America torna per la quarta volta sul grande schermo, con un prequel pronto a spiegarci l’origine di questo controverso fenomeno socio politico (dal 5 Luglio al cinema).

Per poter analizzare in maniera dettagliata questo nuovo capitolo dobbiamo, però, partire dalle origini studiando, seppur superficialmente, il fenomeno The Purge e l’idea di base.
La trilogia sino ad ora mostrata e diretta da James DeMonaco si è dimostrata, sin da subito, un prodotto cinematografico affascinante, capace di catturare l’attenzione di un pubblico molto variegato.
La componente action-thriller viene contaminata fortemente da tinte horror che traggono ispirazione dai classici home invasion tanto cari alla tradizione cinematografica americana, seppur, in questo caso, non sia più la casa che deve essere protetta da un nemico “interno”, ma il proprio quartiere o la propria città.

Questo aspetto così interessante era stato affrontato e sviluppato degnamente nei primi due capitoli della saga di DeMonaco, per poi esser messo leggermente in disparte con Election Year, dove i gruppi paramilitari e gli scontri politici avevano fatto vedere nuovi aspetti della pellicola (presa nel suo insieme).
Tutto ciò, con il quarto capitolo, purtroppo sparisce.

La prima notte del giudizio, infatti, nonostante sia un prequel volto a spiegare, per l’appunto, la nascita di questo fenomeno, salvo qualche frammentaria sequenza, finisce per divenire un action movie con un improbabile, quanto inefficace, protagonista “one man show”.
Va bene il delinquente di strada che ha familiarità con le armi e i combattimenti corpo a corpo, ma decidere di mettere una controparte afroamericana dello Schwarzenegger anni ’80, intenta a fronteggiare squadre di mercenari professionisti, finisce per essere una mossa abbastanza insensata per l’idea di base dalla quale nasce il film.

Con ogni probabilità, questo inaspettato cambiamento stilistico è dovuto ad un problema posto a monte visto il cambio di regia, che passa da DeMonaco a Gerard McMurray, salito alla ribalta per la serie afroamericana, targata Netflix, Burning Sands.
Il nuovo cineasta, purtroppo, oltre a perdere di vista l’essenza basilare della produzione Universal, eliminando la tensione tipica dei primi film optando per dei tristi jumpscare, finisce anche per commettere errori registici (inquadrature e messe a fuoco da B-movie) e  stilistici.
La fotografia simil vaporwave, ricca di neon ed inquadrature “scattose”, realizzate con camera a mano, vengono abbandonate a favore di un’ambientazione urbana fortemente pop, accompagnata perennemente da una colonna sonora che unisce rap della nuova generazione e trap (scelta interessante, seppur leggermente stereotipata, ma lontanissima dal The Purge che conosciamo).
Oltretutto, la scelta di voler sostituire i colori fluo e le maschere inquietanti (seppur macchiettistiche e trash) con lenti oculari colorate, è grottesca ed inefficace.

In aggiunta ai vari errori artistici e registici, un grosso problema viene messo in mostra da uno script banale (ad opera di DeMonaco ), incapace di appassionare realmente lo spettatore.
Oltre alla totale, ed insensata, piega action che prende il film dopo i primi 60 minuti, cavalcata dal giovane attore Y’Lan Noel (Dimitri nel film) il quale fa del suo meglio e, nonostante tutto, riesce a portare a casa la sufficienza, la sceneggiatura ha il grande demerito di non essere riuscita a caratterizzare minimamente nessun personaggio.
Passi un cast giovane e poco conosciuto (ad eccezione dell’impalpabile Marisa Tomei), e il fatto che non ci aspettavamo chissà quale profondità da un blockbuster, ma se arrivati a metà film la morte di un personaggio mi lascia impassibile, significa che qualcosa è andato storto durante la proiezione.
Il ritmo è uno dei pochi elementi del film che si salvano, visto che riesce a mantenere quella cadenza già vista nelle precedenti pellicole, volta a mantenere costantemente elevata l’asticella dell’attenzione dello spettatore (seppur venga annoiato da tutte le componenti elencate in precedenza) e coadiuvato da una colonna sonora, come già anticipato, interessante e fresca.


Verdetto

La prima notte del giudizio è, senza ombra di dubbio, il capitolo più deludente della famosa saga cinematografica.
Il cambio di regia è evidente in tutte le sequenze del film, finendo per mostrarci una creatura snaturata e totalmente distante dall’idea di base dalla quale era nato il brand.
La componente artistica finisce per perdere il suo fascino punk, mentre la direzione di McMurray è banale priva di mordente, finendo per dare alla luce una produzione paragonabile ad un b-movie qualsiasi.
A farne le spese, soprattutto a causa di uno script incapace di mantenere il “colore” delle vecchie produzioni, sono i personaggi protagonisti, i quali entrano ed escono dal mazzo in pochi istanti senza lasciar una vera impronta del loro passaggio.
Oltretutto l’ambientazione fortemente afro e auto-ghettizzante (alla Get Out) finisce per annoiare lo spettatore, sia per i numerosi stereotipi messi in mostra, sia per i soliti cliché adoperati.
Un’uscita a vuoto non necessaria e nemmeno prevedibile, la quale potrebbe affossare (e non ci auguriamo ciò) il buon lavoro svolto sino ad ora.

Leonardo Diofebo
Classe '95, nato a Roma dove si laurea in scienze della comunicazione. Cresciuto tra le pellicole di Tim Burton e Martin Scorsese, passa la vita recensendo serie TV e film, sia sul web che dietro un microfono. Dopo la magistrale in giornalismo proverà a evocare un Grande Antico per incontrare uno dei suoi idoli: H. P. Lovecraft.