Imbarazzante carrozzone trash? L’Eurovision Song Contest è molto di più

al 10 al 14 maggio si svolgerà a Torino l’Eurovision Song Contest 2022. L’Italia vi partecipa sin dal 1956 – pur ritirandosi per un periodo dal 1997 al 2011 – e la scorsa edizione è culminata con la vittoria dei Måneskin. Nonostante questo rapporto di lunga data, i giudizi su di esso tendono ad essere spesso polarizzati, oscillando tra chi lo segue con passione e chi lo liquida come un “imbarazzante carrozzone trash”. La finale del 2021, con i suoi 4.512.000 telespettatori e uno share del 24,98%, è stata comunque quella più seguita di sempre da parte del pubblico italiano. A livello internazionale, invece, l’edizione è stata vista da circa 183 milioni di spettatori, il canale ufficiale youtube dell’Eurovision ha registrato 50,6 milioni di contatti, mentre gli account social ufficiali (Instagram, Facebook, Twitter e TikTok) hanno generato 14 milioni di interazioni. A queste cifre si devono aggiungere i contenuti prodotti da decine di canali e account privati. Questi dati rendono il festival uno degli eventi non sportivi più seguiti a livello globale. Ma a cosa è dovuto il suo successo?


Breve guida alla storia del festival


L’Eurovision Song Contest è un festival musicale annuale, organizzato dall’Unione Europea di Radiodiffusione, che si svolge dal 1956. È stato fondato con l’obiettivo di promuovere la collaborazione e gli scambi culturali tra paesi fino a qualche anno prima in guerra. Il numero degli Stati partecipanti è gradualmente aumentato, soprattutto dopo l’allargamento ai paesi post sovietici, e ne sono cambiate la denominazione e il sistema di voto.

Attualmente, possono partecipare al festival gli Stati che appartengono all’Unione Internazionale di Comunicazione e che rientrano nella Zona Europea di Radiodiffusione, che si estende dall’Artico al nord Africa, dall’Oceano Atlantico al Caucaso. È per tale motivo che l’Eurovision comprende anche Georgia, Armenia, Azerbaijan, Israele e Turchia (ritiratasi dal 2013). Potenzialmente, inoltre, possono essere presenti anche i paesi arabi – come ci ricorda la partecipazione del Marocco del 1980. L’Australia, invece, ha iniziato a parteciparvi dal 2015 esclusivamente per il grande entusiasmo con cui è seguito l’evento in patria, che ha portato alla stipula di un accordo specifico.

Il paese vincitore è determinato da un sistema di voto misto, tra giurie nazionali e televoto, e ha diritto a ospitare l’edizione successiva. Regola aurea: non si può votare per il proprio paese. Vince, insomma, non solo chi presenta il brano migliore, ma chi è capace di guadagnarsi più sostenitori all’estero, sia tra le giurie che tra gli spettatori. Giocano quindi un ruolo importante le comunità immigrate: gli immigrati tendono a votare per il proprio paese d’origine, ma il flusso di voti funziona anche in senso opposto. Come dimostra lo scambio di televoti tra Italia e Albania, il paese di approdo può esercitare una certa influenza anche sulle famiglie rimaste in madrepatria. Un’equazione comunque non scontata, se si considera che dalla Turchia – finché è stata in gara – arrivavano invece ben pochi voti per la Germania.

Un elemento caratterizzante del festival è la pluralità delle lingue presenti sul palco. Ogni partecipante può cantare nella lingua che preferisce (anche immaginaria): l’inglese è l’idioma più usato, ma ad esso si affiancano numerose lingue nazionali e regionali. A parte i Big 5 (Regno Unito, Germania, Francia, Italia, Spagna), che accedono direttamente alla finale, tutti gli altri devono superare le semifinali; presentare una canzone in inglese che risulti immediatamente comprensibile è quindi essenziale per garantirsi il successo. Il suo uso non è però dettato solo da ragioni strategiche: per gli Stati post sovietici, infatti, optare per una lingua internazionale è stato anche un modo per presentarsi come moderni e aperti all’Occidente, cercando di catturare l’interesse del suo pubblico.

Nel corso degli anni, questi paesi hanno perciò presentato numerose canzoni pop in lingua inglese, ma non sono mancati i brani riconducibili alla tradizione folklorica o il mix tra alcuni elementi di musica tradizionale e testi in lingua inglese, mentre la scelta di usare la propria lingua può indicare una rivendicazione più decisa della propria identità nazionale e la volontà di essere accettati e apprezzati senza compromessi.

Questi elementi ci fanno subito comprendere come lo spazio culturale europeo sia definito in maniera molto più estesa di quello politico e come l’evento, oltre a essere una manifestazione musicale, possa diventare anche un modo per misurare il soft power e promuovere una certa immagine del proprio paese all’estero.


Eurovision come palco del confronto tra identità nazionali


L’Eurovision è una manifestazione apolitica. La lingua usata, le sonorità musicali o le performance possono però comunque esprimere messaggi di tolleranza, amicizia tra popoli o affrontare questioni etniche e nazionali. I paesi scandinavi e dell’Europa continentale inviano spesso al festival artisti di origine straniera, appartenenti alle principali comunità immigrate. Queste partecipazioni, come quelle degli artisti LGBTQIA+, mostrano un’immagine del proprio paese come aperto e inclusivo. In altri casi, invece, sono rappresentate le minoranze storiche: nel 2000 per la Svezia si è esibito Roger Pontare, un discendente della popolazione sami, mentre la Serbia ha vinto l’edizione del 2007 con Marija Šerifović, una cantante di origine romanì.

L’esibizione delle proprie specificità culturali può riguardare anche la definizione della propria identità nazionale. Un esempio di ciò è la Moldavia, rappresentata quest’anno da Zdob şi Zdub & Frații Advahov. La canzone in gara è un brano folk rock in rumeno dal titolo Trenulețul, che descrive un viaggio tra Chișinău e Bucharest, capitali di Moldavia e Romania, ed è un inno alla vicinanza culturale e all’amicizia tra questi due “popoli fratelli” (e alla proiezione del paese verso l’Europa). Come ci ricorda la cronaca di questi giorni, però, una tale collocazione della Moldavia non è affatto scontata e il brano finisce per assumere una implicita posizione politica.

Casi ancora più controversi hanno accompagnato le esibizioni dell’Ucraina. Il paese partecipa con successo all’Eurovision dal 2003: è l’unico – con l’esclusione dei Big 5 – a essere sempre riuscito a qualificarsi alla finale e ha vinto in pochi anni 2 edizioni. Nel 2007, l’Ucraina, rappresentata dalla drag queen Verka Serduchka, si è classificata seconda grazie a Dancing Lasha Tumbai. Verka è un personaggio creato e portato in scena a lungo dall’artista Andrei Danilko, che incarna una fiammeggiante donna di mezza età, la quale, indossando vestiti luccicanti e attillati, esplora tabù sessuali e temi controversi, usando il surzhyk, un mix di lingue, di solito tra russo e ucraino ma non solo, associato generalmente a persone con basso livello d’istruzione e usato con effetti comici.

La sua performance all’Eurovision è stata una esibizione e una parodia della cultura post-sovietica (basti pensare alla stella argentata che porta sul capo), così come una presa in giro verso l’audience occidentale per la iper-sessualizzazione con cui sono guardate le artiste esteuropee (indicata dal 69 che ha cucito sulla schiena e dalle pacche sul sedere date solo alle coriste donne). Il testo della canzone è un mix di tedesco e inglese e il suo ritornello è un’espressione no sense “Lasha Tumbai”, che però, ripetuta ossessivamente, suona incredibilmente simile a “Russia Goodbye”, particolare che non è passato inosservato a Mosca.

Il rapporto tra i due paesi è diventato ancora più complicato dopo l’annessione della Crimea del 2014. Nel 2016 l’Ucraina è tornata in gara con Jamala, cantante appartenente alla minoranza tatara, la quale, nel brano 1944, descrive le sofferenze della popolazione tatara della Crimea deportata da Stalin verso l’Asia centrale. Il parallelismo abbastanza palese, nonostante il titolo della canzone si premurasse di specificare che la vicenda descritta risalisse alla seconda guerra mondiale, non è piaciuto alla Russia. Le polemiche sono state inasprite anche dal fatto che l’artista russo, Sergej Lazarev – già famoso a livello internazionale – si fosse classificato terzo, ma fosse risultato primo al televoto. Mosca si è ritirata dall’edizione successiva, svoltasi a Kyiv.

La Russia, in gara dal 1994, ha esercitato a lungo il ruolo di potenza culturalmente egemone nella regione, guadagnandosi molti voti dai paesi vicini. Non sono mancate però le tensioni nel corso degli anni. Pochi mesi dopo la prima e unica vittoria all’Eurovision, nel 2008, la Russia è entrata in guerra contro la Georgia in sostegno all’Ossezia del Sud, una regione separatista. I georgiani sono stati squalificati dalla successiva edizione del festival, ospitata proprio a Mosca, perché avrebbero voluto presentarsi con una canzone disco dal titolo: We Don’t Wanna Put In (il cui gioco di parole fu giudicato troppo esplicito). L’edizione è stata preceduta anche dalle minacce di boicottaggio da parte dei paesi baltici. Insomma, per quanto l’Eurovision sia un festival musicale, quelle che vanno in scena sul palco non sono “solo canzonette”.


Il futuro dell’Eurovision e la partecipazione popolare


Dopo 66 anni il festival non ha perso ancora il suo fascino. Esso continua a essere un evento musicale “leggero”, grottesco o divertente (a seconda dei punti di vista), e, al contempo, un luogo in cui mostrare come è – o come vorrebbe essere – lo spazio culturale comune europeo, frutto di una continua ridefinizione alla quale contribuiscono attivamente le fanbase di appassionati. Ogni esibizione è accompagnata infatti da una mole enorme di commenti e discussioni, che proseguono per tutto l’anno. Il pubblico co-produce il significato dell’evento, dibattendo sullo stile musicale e le esibizioni, sui contenuti dei messaggi veicolati dalle canzoni, sull’identità nazionale e sul livello di inclusività sociale del proprio paese, misurato in rapporto alle minoranze e alle questioni di genere.


L’Eurovision intende celebrare in maniera gioiosa ed esuberante le diversità presenti in Europa. Quest’anno però l’atmosfera leggera che circonda l’evento è un po’ forzata. La Russia, esclusa dopo l’invasione dell’Ucraina, resta il grande convitato di pietra. Molti vorrebbero che l’evento non ne venisse ulteriormente condizionato. È però un po’ ingenuo pretendere che un festival musicale, nato per celebrare l’armonia in Europa, possa semplicemente ignorare lo svolgimento di una guerra sul continente.

Durante le guerre nei Balcani seguite alla dissoluzione della Jugoslavia, Croazia, Slovenia e Bosnia ed Erzegovina hanno partecipato al festival come Stati indipendenti per la prima volta nel 1993. Fazla, il cantante bosniaco, dovette fortunosamente scappare da una Sarajevo sotto assedio serbo, tra colpi di artiglieria e una lunga marcia notturna nel fango, per riuscire a partecipare al festival in Irlanda. Nonostante le difficoltà, essere presente su quel palco aveva un valore fortemente simbolico, serviva ad affermare la propria resistenza e a poter cantare: «I cannot take the stars down from the sky / I can’t find the road, the road to the universe / But I can send you this song / So that you know that I’m alive, [my] love». Inoltre, voltando le spalle al pubblico durante l’esibizione, Fazla denunciava anche l’indifferenza con la quale gli europei stavano assistendo inerti al massacro in corso nel suo paese.

L’Eurovision Song Contest può diventare insomma uno strumento di diplomazia culturale: dal suo palco possono essere lanciati messaggi gioiosi o denunce, senza che ciò intacchi la sostanziale natura di intrattenimento dell’evento. Esso può essere apprezzato per le proposte musicali, per le performance eccessive e memorabili, ma soprattutto è un buon indicatore per cogliere lo spirito del tempo attraverso la cultura di massa, tra orgoglio identitario e fratellanza.

Articolo a cura di Maria Elena Cantilena