Le Malerbe è la graphic novel sulle vittime dello sfruttamento sessuale dell’esercito giapponese

Il 10 ottobre 2019 la casa editrice BAO Publishing ha portato in Italia Le Malerbe, ultimo lavoro della fumettista coreana Keum Suk Gendry-Kim. Si tratta di una graphic novel dai toni autobiografici, nata dopo anni di lavoro grazie alla testimonianza diretta di una sopravvissuta alle atrocità della Seconda Guerra Mondiale. Seguendo i racconti di “nonna” Yi Okseon, infatti, l’artista ci racconta una parte di storia che spesso si è preferito ignorare, talvolta negandola. Ci racconta delle torture e degli stupri quotidiani subiti dalle schiave sessuali costrette a prestare servizio nei bordelli militari giapponesi durante tutto il corso della Guerra del Pacifico. Ci parla di donne rese fragili come fili d’erba da una realtà storica che non ha lasciato loro nessuna via di scampo, ma che portano nel cuore il desiderio di rinascere, di sbocciare finalmente a nuova vita, anche dopo 70 anni.

Una questione rimasta irrisolta 

In parallelo al più famoso Processo di Norimberga, fu istituito anche a Tokyo un Tribunale di guerra. Le imputazioni erano le stesse: crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Quando si sciolse, nel novembre del 1948, più di 5000 cittadini erano stati accusati in base al secondo e al terzo capo d’accusa. Tra alti ufficiali, soldati e semplici civili, le condanne a morte furono 984. Molte questioni spinose rimasero però irrisolte e alcuni tra i più inspiegabili orrori della storia del Novecento vennero taciuti. Tra questi, gli esperimenti su cavie umane condotti nell’unità 731 nel Manchukuo, il massacro di Nanchino e lo sfruttamento delle comfort women”.

È proprio l’ultima una vicenda terribile che ha segnato decine di migliaia di donne provenienti dai territori occupati militarmente dal Giappone. Si trattava principalmente di coreane, ma anche di cinesi, taiwanesi, filippine, vietnamite, thailandesi e addirittura olandesi. Le ragazze, spesso poco più che bambine, venivano prelevate dalle zone rurali con la promessa di un lavoro, rapite per strada, talvolta vendute come “figlie adottive” dai genitori, incapaci di procurare cibo sufficiente per tutta la famiglia. Venivano quindi ammassate nelle cosiddette “stazioni di conforto”, strutture circondate da filo spinato, che impediva loro di fuggire. Lì erano costrette a prostituirsi per l’esercito nipponico, arrivando a ricevere anche più di 30 uomini diversi in un solo giorno. Il loro sfruttamento era giustificato come un modo per mantenere alto il morale dei soldati, limitando le violenze e gli stupri ai danni della popolazione civile e diminuendo il rischio per i militari di contrarre malattie veneree.

Tra le donne uccise e quelle che morivano di malattia, parto o malnutrizione, il ricambio all’interno delle stazioni di conforto era continuo. Inoltre, al termine della Guerra, i giapponesi distrussero la maggior parte dei documenti riguardanti le “comfort women”. Per questo, il numero esatto di donne così sfruttate rimane sconosciuto. Tuttavia, prendendo in considerazione alcuni rapporti militari in cui si parla di una donna ogni cento, ogni quaranta od ogni 30 soldati, è stato possibile per gli studiosi fare una stima. Il numero oscillerebbe quindi tra le 50.000 e le 200.000 persone.

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Le Malerbe: una voce per le “comfort women”

Dare voce alle vittime di questa violenza non è certo semplice. Solo 23 sono ancora vive, la maggior parte di loro ha 90 anni o più. Keum Suk Gendry-Kim ha però voluto rendere loro omaggio, mettendo per immagini quegli orrori di cui si fa tanta fatica a parlare. Per questo si è recata in una House of Sharing per conoscere e intervistare una sopravvissuta, “nonna” Yi Okseon.

Le Malerbe ci mostra la sua storia, partendo dalle speranze di una bambina desiderosa di andare a scuola come i suoi fratelli e dalle difficoltà economiche della sua famiglia. Poi, la scelta dei genitori di inviarla come “figlia adottiva” in un ristorante di udon a Pusan. Dopo essere stata venduta nuovamente, nell’estate del 1942 venne prelevata con la forza e trascinata a Yanji, nel Jiandao, dove visse come “comfort woman” fino al termine del conflitto mondiale. Gli orrori visti da Yi Okseon, l’inferno quotidiano vissuto da lei e dalle sue compagne traspaiono in modo diretto dalle parole della “nonna” e dal pennello dell’autrice.

Quello de Le Malerbe è il racconto di una guerriera, una donna che afferma di non aver mai vissuto, fin dalla nascita, un momento felice, ma che è in grado, nonostante tutto, di continuare a ridere e scherzare. Una signora che a più di ottant’anni non si arrende e continua a gridare giustizia, pretendendo scuse ufficiali da parte del Primo Ministro Abe.

È un racconto che vuole dire tutta la verità, che non tace la violenza estrema riservata alla popolazione civile. L’autrice non si ferma di fronte alle persone arse vive, uccise a bastonate, massacrate dai soldati giapponesi. Non si ferma di fronte ai cadaveri di bambini accumulati lungo le strade.

La bravura della disegnatrice sta nel mostrare tutto questo senza mai ricorrere alla crudezza grafica. La gravità delle vicende viene sottolineata soltanto dall’uso marcato dell’inchiostro nero. Le tavole così scure, le figure appena accennate, le pennellate veloci trasmettono tutta la paura e l’impotenza dei protagonisti. Alle scene più cupe si alternano poi numerosissime rappresentazioni paesaggistiche, che occupano intere pagine, dando respiro al lettore grazie anche a un tratto più leggero ed elegante.

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Le sorti delle donne di conforto dopo la guerra

Uno dei maggiori punti di forza de Le Malerbe è, inoltre quello di aver mostrato le sorti delle donne di conforto dopo la Liberazione. Nella graphic novel vediamo infatti come Yi Okseon non sia mai riuscita a riconciliarsi del tutto con i suoi fratelli e sorelle, che si ostinano a negare l’evidenza che da bambina sia stata venduta dalla madre.

Come lei, la grandissima maggioranza delle sopravvissute ebbe enormi problemi a ricongiungersi alla propria famiglia. In una società come quella coreana dell’epoca, dominata da visioni patriarcali e da un rigido senso di moralità e castità, quello di aver vissuto un’esperienza del genere divenne un segreto inconfessabile. Oltre ai danni fisici, le conseguenze delle droghe assunte per abortire o renderle sterili, e i traumi psicologici, le donne ritornate a casa dovettero convivere anche con la vergogna di essere state violate e con la paura che nessuno le avrebbe mai più volute come mogli.

La questione delle “comfort women” fu quindi ignorata per anni e sollevata soltanto grazie a gruppi di attiviste giapponesi e sudcoreane. La prima donna a denunciare quanto subito durante gli anni del conflitto fu Pae Pong Gi, che nel 1979 raccontò la sua storia nel documentario An old lady in Okinawa: testimony of a military comfort woman, di Yamatani Tetsuo.

In seguito, si raggiunse un punto di svolta nel 1991, quando Kim Hak Suk dichiarò di voler non solo testimoniare sulla sua esperienza, ma anche portare avanti una battaglia legale. Da allora, le reduci di quei terribili anni vissuti come schiave, supportate da centinaia di femministe, si riuniscono ogni mercoledì di fronte all’ambasciata giapponese per protestare e chiedere giustizia. In 239 hanno avuto la forza di farsi avanti, chiedendo non tanto un risarcimento in denaro, quanto la presentazione di scuse ufficiali e pubbliche da parte del Primo Ministro giapponese e la correzione dei libri di storia.

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Perché Le Malerbe è una lettura necessaria

Ad oggi, sono molte le opere letterarie che hanno trattato il tema delicato delle donne di conforto; una delle ultime è sicuramente il romanzo Le figlie del mare, dell’americana Mary Lynn Bracht.

Anche moltissimi film, per lo più asiatici, si sono soffermati sull’argomento. Tra i più famosi, il documentario My name is Kim Bok-dong (2019), dedicato a una delle sopravvissute più famose, deceduta lo scorso gennaio all’età di 93 anni. Ha continuato fino all’ultimo a lottare per i propri diritti, protestando ogni mercoledì, parlando pubblicamente, rilasciando interviste. Donando la sua voce a tutte quelle donne costrette al silenzio.

Leggere Le Malerbe è un pugno allo stomaco. Farlo da appassionati di cultura nipponica è, forse, ancora più difficile. Ma è una lettura necessaria per prendere coscienza di quelle che sono state e rimangono tutt’ora vittime impotenti di un sistema patriarcale e maschilista. E ci ricorda come le battaglie per il riconoscimento dei diritti di chi ha subito violenze sessuali non si sono ancora concluse e ci toccano da vicino.

Sara Zarro
Non sono mai stata brava con le presentazioni, di solito mi limito a elencare una serie di assurdità finché il mio interlocutore non ne ha abbastanza: il mio animale preferito è l’ippopotamo; se potessi incontrare un personaggio letterario a mia scelta questi sarebbe senz’altro Capitan Uncino; ho un’ossessione per la Scozia, l’accento scozzese e i kilt, derivata probabilmente da una infatuazione infantile per il principe della collina di Candy Candy; non ho mai visto Harry Potter e i doni della morte per paura di dover chiudere per sempre il capitolo della mia vita legato alla saga… Ah, ho anche un pony.