Quella sottospecie di prostituta che non è un autore

Magari stavolta soffermiamoci un po’ ad analizzare cos’è un autore, perché mi sembra che si stia perdendo il senso stesso di questa parola, e non voglio pensare che si tratti solo di maleducazione.

Quando nei miei fumetti la narrazione si fa più intensa e si arriva ad affrontare i nodi salienti della trama, fioriscono nei commenti tutta una serie di considerazioni sul ruolo dell’autore che mi lasciano davvero interdetto. Le considerazioni più bizzarre, sono quelle dei lettori che conseguono a spericolate interpretazioni metanarrative di quello che sta succedendo: i lettori prendono la situazione, i personaggi, la trama, e sbucciano tutto come si farebbe con una banana matura, cercando di portare in evidenza quella che – secondo loro – è la polpa. E fin qui va bene, il problema è quello che fanno della polpa. Premetto che l’analisi di un fumetto è un buon esercizio, e che si analizzino i miei fumetti mi lusinga molto perché significa attestare che il mio lavoro può essere letto a diversi livelli. Quello che mi perplime (perdonatemi l’uso di questa non-parola) è il modo in cui viene considerato l’autore alla luce dell’analisi. Entriamo nel dettaglio, altrimenti si rischia di essere troppo nebulosi. Diciamo che c’è un personaggio che rovescia un bicchiere di vino su un altro, con cattiveria.

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Sotto questa scena, pubblicata online, mi ritrovo un sacco di commenti nei quali si ragiona delle motivazioni per le quali il personaggio uno ha rovesciato il vino sul personaggio due. Poi arriva quello che sbuccia la banana: “il personaggio uno è un personaggio secondario, la sua funzione narrativa è terminata e per questo l’autore ha deciso di umiliarlo, così i lettori perderanno interesse in lui”. Interessante ipotesi, penso subito, complimenti. Ma subito dopo arriva il commento che mi lascia interdetto: “l’autore non umilierebbe mai quel personaggio, perché ai lettori piace troppo, perderebbe un sacco di consensi.” Resto basito. Quest’idea perversa per cui un autore si preoccupa di quello che diranno i lettori al punto da determinare se un personaggio muore o non muore, se viene trattato male, se torna in vita, o in che modo una situazione si risolva, è sicuramente figlio di una cultura internettiana da social network secondo la quale tutti quelli che pubblicano online sono delle specie di prostitute in cerca di like, senza i quali probabilmente la loro esistenza non avrebbe senso. O almeno, questa è l’interpretazione più gentile che io possa dare al fenomeno. Quella meno gentile è che i lettori considerano gli autori talmente incapaci di fare il proprio lavoro, da farsi guidare da quello che dicono i fan nei commenti. Ebbene, è il caso di cambiare idea sugli autori.

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Un autore, uno bravo intendo, scrive seguendo la propria ispirazione, cercando di dare forma ai propri pensieri, di trasmettere le proprie emozioni, di raccontare qualcosa, di “esprimersi”. Un autore che si preoccupa di fare le pugnette al suo pubblico, non è un bravo autore. Ecco perché il fan-service è una pratica che ha connotazioni negative: perché significa che l’autore sta prostituendo la propria creatività. Ricominciamo a considerare gli autori come persone che hanno qualcosa da dire, invece. Ricominciamo a considerarli creativi, costruttori di mondi, conduttori, narratori, artisti. Ripristiniamo la salutare distanza che c’è tra chi crea un’opera e chi ne fruisce, la separazione tra questi due mondi: io scrivo, tu leggi. Ogni volta che a un autore viene attribuita la degradante intenzione di fare qualcosa per accontentare chi legge, lo state insultando. Sono sicuro che molti autori se lo meritino, perché magari lo fanno davvero. Ma a quel punto seguite il mio consiglio spassionato: anziché scriverglielo, smettete di leggerli e passate a qualcosa di più interessante.