Need For Speed Unbound è un sorprendente manifesto generazionale per i tuner di domani, nonostante alcuni difetti storici della serie

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ispetto al classico battage a cui Electronic Arts ci ha abituato per ogni sua uscita di rilievo, il marketing di Need For Speed Unbound è stato piuttosto discreto. Talmente discreto che la stessa Criterion si è dimenticata di annunciare il raggiungimento della fase Gold, uno degli step finali della messa in produzione. Insomma, una situazione che di norma è presagio di delusione all’orizzonte e, sotto alcuni aspetti, non siamo assolutamente ai fasti della serie, né all’altezza di Criterion, studio che dà il cambio al precedente Ghost Games. Eppure questo capitolo mi ha sorpreso per un motivo ben preciso: mi ha fatto sentire vecchio, oserei dire nostalgico, ma anche parte di un mondo che sta cambiando in meglio nonostante il futuro sia tutto tranne che roseo. Fortuna che ci sono le macchine.

Tutto inizia a Lakeshore, la città che fa da sfondo alle innumerevoli corse clandestine del gioco e probabilmente uno dei punti più bassi raggiunti dalla serie in termini creativi. Una città americana con tutti i crismi, dalla downtown ai sobborghi residenziali, passando per centrali nucleari, cantieri e così via, quasi da meritare una foto accanto alla voce “derivativo” del dizionario. Una città peraltro in piena campagna elettorale, con vari esponenti politici che fanno proclami inneggiando al cambiamento, al rinnovamento e alla sicurezza, con un occhio di riguardo alle corse clandestine, come sempre accade nella serie.

Eppure Need for Speed Unbound fa qualcosa di diverso, dando carattere ed una back story solida ai piloti di Lakeshore: non più figure anonime bensì una crew a tutti gli effetti. Una crew dove l’amore per il tuning supera qualunque differenza di età, sesso, orientamento, religione o etnia, tutti alla ricerca di un’identità e tormentati da dubbi e paure. Oltre alle classiche bio, queste storie sono tutte approfondite grazie ad una delle attività secondarie previste dal gioco che consiste nell’andare a recuperare un pilota in difficoltà con la polizia. Nel tragitto, oltre ad evitare le forze dell’ordine, ogni pilota avrà la sua occasione di raccontare chi è e perché è a Lakeshore, condividendo con noi pensieri sul proprio passato e futuro. Tra le persone che saliranno nella nostra macchina c’è anche il rapper A$AP Rocky, stella di copertina del gioco: il suo è forse uno dei discorsi più intensi che ascolteremo ed è la ciliegina sulla torta di una caratterizzazione dei personaggi inaspettatamente profonda rispetto alla media dei racing game, tendenzialmente macchiettistica o stereotipica. In particolare ho adorato il ruolo di Rydell: nella trama principale, è il gestore del garage dove si dipanano gli eventi principali del gioco. Appassionato di tuning della vecchia guardia, abbastanza avanti con l’età ed ex pilota delle corse clandestine che furono, è sostanzialmente un boomer che si sforza di comprendere le nuove generazioni. Ma soprattutto, è il personaggio che fa da ponte tra il passato della serie ed un futuro basato su una nuova generazione di tuner incalliti.

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C’è molto citazionismo in Need for Speed Unbound: qui per esempio si parla di corrieri di tofu o giù di lì…

Un nuovo passo, quello di Need for Speed Unbound, che viene esplicitato anche da una colonna sonora tanto valida quanto variegata: la versione rap di Riders on the Storm di Snoop Dogg è ormai un lontanissimo ricordo, ma al suo posto è presente una tracklist internazionale tra le più variegate in assoluto. O meglio, c’è parecchia musica techno martellante e ossessiva, ma anche un mucchio di artisti moderni come la musa del nostro Luca Parri Charli XCX e molta trap, tra cui persino una traccia con Sfera Ebbasta. In generale a sorprendere è il suo essere un vero e proprio melting pot mondiale con artisti polacchi, giapponesi, palestinesi e altro ancora. Probabilmente una delle colonne sonore videoludiche non originali più belle che è capitato di sentire durante l’anno e in linea con l’atmosfera gen-z che il gioco cerca di trasmettere con un’ottima direzione artistica, incluse le famose animazioni fumettistiche. Anche qui il divario generazionale è netto: laddove molti hanno rievocato Auto Modellista, all’atto pratico quelli che vediamo su schermo sono letteralmente dei filtri visivi degni di Tik Tok. Va detto che a volte sono talmente carichi da rendere caldamente consigliata la disattivazione in caso di forte fotosensibilità, tuttavia la loro aggiunta aumenta a dismisura il senso di velocità e di adrenalina generale.

Grazie ad un semplice editor del personaggio sono diventato uno splendido maranza su una Subaru BRZ

Eppure qualcosa che non è cambiato c’è, nel bene e nel male. Di buono è rimasto il sistema di guida, sfacciatamente arcade e abbastanza semplice da padroneggiare, ma sempre capace di regalare grandi emozioni e derapate senza senso sfiorando appena il grilletto sinistro, con l’adrenalina che schizza in alto come la barra della nitro e la conseguente botta di forza G che ti schiaccia sul sedile. E poi il tuning delle macchine, mai così complesso e completo, grazie anche alla scelta più che sacrosanta di Need for Speed Unbound di uscire esclusivamente sulla current gen garantendo un nuovo livello di dettaglio nei kit e negli elementi decorativi tutti. La cura dei modelli è tale che in game fanno sfigurare ancor di più l’anonima Lakeshore, ma almeno le nostre scorribande viaggiano ad alta risoluzione e soprattutto con un framerate stabile.

Di male c’è invece una gestione complessiva dell’esperienza abbastanza ripetitiva per colpa del design della campagna. Sostanzialmente, Need for Speed Unbound ruota attorno al Lakeshore Grand, una sorta di campionato dove dovremo affrontare qualifiche settimanali, e ben prima un numero esorbitante di corse e lavori sul nostro parco auto per essere competitivi. Questo perché le qualifiche (ma anche le gare) hanno una tassa di iscrizione molto alta, ma soprattutto il possesso di auto con una determinata classe e modificate a puntino.

Nonostante la varietà di eventi sia quella che ci si aspetta, inclusa la new entry del Takeover tradotta malamente come Staffetta, il sistema diventa stancante in tempi brevi e anche una caratteristica interessante come la gestione del budget diventa un grinding ossessivo e no-brainer. Anche i prezzi delle modifiche sembrano aver risentito dell’inflazione del mondo reale, il che porta naturalmente a giocare le stesse gare che, generalmente, hanno il montepremi più allettante, arrivando anche a preferire le gare notturne rispetto a quelle diurne per via di una forbice molto ampia in termini di guadagni. Un aspetto che sembra essere il difetto portante degli ultimi episodi, al pari come una trama principale scialba e già sentita che sfigura rispetto alla caratterizzazione con cui ho aperto questo articolo. Stessa storia per quanto riguarda il multiplayer: esclusa la trama, il gameplay ricalca quello della campagna, con un personaggio da creare e la partecipazione reiterata ad eventi su eventi con giocatori reali per accumulare soldi senza soluzione di continuità.

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Difficile dargli torto se si pensa che il primo Need for Speed è del 1994.

Need for Speed Unbound è un capitolo di transizione come pochi altri nella storia della serie. Benché i passi avanti in termini di gameplay siano risibili, il lavoro di caratterizzazione svolto da Criterion è di altissimo livello per un titolo racing e non solo ed è un punto di forza invidiabile del gioco. Qualcuno non mancherà di obiettare, eppure accettare i cambiamenti è un principio cardine dell’evoluzione e se le cose stanno così, il futuro di Need for Speed potrebbe essere ben lungi dal cadere nel dimenticatoio.

Francesco Paternesi
Pur essendo del 1988, Francesco non ha ricordi della sua vita prima del ’94, anno in cui gli regalarono un NES: da quel giorno i videogiochi sono stati quasi la sua linfa vitale e, crescendo con loro, li vede come il fratello maggiore che non ha mai avuto. Quando non gioca suona il basso elettrico oppure sbraita nel traffico di Roma. Occasionalmente svolge anche quello che le persone a lui non affini chiamano “un lavoro vero”.