Il nome del vento, primo volume delle Cronache dell’Assassino del Re: Patrick Rothfuss reinterpreta gli archetipi del fantasy classico

Sembrava, fino a pochi anni fa, che i canoni del fantasy si fossero irrimediabilmente fissati in un insieme di riconoscibilissimi archetipi e convenzioni di cui Tolkien aveva in qualche modo stabilito i confini. Lo spazio dedicato al fantasy in libreria era scarso e i pochi titoli raccontavano la stessa storia. La lotta tra bene e male con in gioco il destino dell’umanità, poche variazioni di razze – nani, elfi e creature umanoidi variamente senzienti – e un protagonista paladino destinato a compiere imprese eroiche. Si aveva l’impressione che come genere il fantasy avesse detto, benché meravigliosamente, tutto ciò che aveva da dire, e che non ci si potesse aspettare nulla di nuovo, a meno che non se ne volesse alterare la prospettiva – come fanno Terry Pratchett col suo Mondo Disco e William Goldman in La principessa sposa, ibridando gli archetipi del fantasy con la parodia.

Gli antieroi alla conquista del fantasy

L’insofferenza per la perfezione degli eroi fantasy – i vari Aragorn e Elric di Melnibonè – si è sublimata nella ricerca di un racconto più crudo e realistico della lotta tra bene e male, combattuta all’interno dei personaggi non meno che dalle loro fazioni. La lente si sposta, per così dire, da Frodo a Boromir, con una messa a fuoco sulla psicologia del personaggio, a delinearne un ritratto che ne metta in risalto i difetti, e quindi più umano.

Nel giro di un paio di decenni e una schiera di autori particolarmente significativi – George R. R. Martin, Andrej Sapkowski, Joe Abercrombie – l’antieroe ha preso il posto dell’eroe. I veri eroi, i duri e puri, in queste narrazioni soccombono proprio a causa della loro incorruttibilità. Ne Il nome del vento, la questione è più complicata.

Patrick Rothfuss è nato nel 1973 a Madison, nel Winsconsin. Avido lettore e giocatore di Dungeons & Dragons fin dall’infanzia, ha intrapreso un percorso di studi variegato, iniziando con l’ingegneria chimica per poi dedicarsi alla psicologia clinica. Dopo anni di rifiuti, la sua prima e mastodontica opera è approdata alla casa editrice DAW, che ha deciso di suddividerla nella trilogia delle Cronache dell’Assassino del Re, il cui primo volume è uscito nel 2007 col titolo Il nome del vento. In patria ha riscosso un immediato successo, meritandosi l’accesso alla classifica dei romanzi più venduti del New York Times. In Italia è arrivato con Fanucci nel 2008, per poi approdare di recente a Mondadori, che ne ha pubblicato l’edizione rivista per il decimo anno dalla pubblicazione, completa di commenti e illustrazioni.

il nome del vento patrick rothfuss

A leggerne la trama, Il nome del vento non si presenta come un’opera particolarmente originale; sembra piuttosto riportare indietro l’approccio al fantasy di un paio di decadi: il protagonista, Kvothe, è un eroe leggendario che cerca rifugio dal proprio passato cambiando nome e diventando il proprietario della Pietra Miliare, la locanda di un piccolo villaggio.

Lo vediamo servire i clienti, pulire i bicchieri, scambiare due parole col suo aiutante, Bast. Un cronista riesce a scovarlo chiedendogli di raccontargli la sua storia, e l’eroe lo accontenta, seppure dopo una serie di tentennamenti, andando a formare una cornice narrativa viva e dinamica all’interno della quale le avventure di Kvothe vengono non solo raccontate, ma anche commentate insieme all’atto stesso della narrazione.

Il nome del vento e la metanarrazione

Nelle Cronache dell’Assassino del Re, l’elemento metanarrativo è molto presente, rafforzato dalla cornice – Kvothe che si racconta a Cronista nella sala vuota della Pietra Miliare – che non si limita a racchiudere la storia di Kvothe, ma la intervalla e arricchisce con riflessioni puntuali sull’origine delle leggende, la mistificazione della realtà e l’artificio della manipolazione. Kvothe si presenta come un narratore inaffidabile con un controllo totale sul racconto, con capacità esplicita e implicita di omettere e abbellire i fatti, o di interpretarli in maniera scorretta, volente o nolente. Rothfuss sembra approcciarsi al più classico dei racconti fantasy con l’intenzione di analizzarlo insieme al lettore. Va fondo negli stereotipi, puntando la luce sugli aspetti problematici del genere, sulle inesattezze che si sarebbe portati a scusare perché “tanto è fantasy”.

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I genitori di Kvothe sono artisti e impresari di una compagnia teatrale itinerante, una coppia felice che lo ricopre di affetto e gli fa dono di un’istruzione ampia e variegata. Gli insegnamenti impartitagli dai genitori e dagli altri membri della compagnia, completa di musici e acrobati, sono vasti e variegati. Gli saranno vitali per sopravvivere alla più totale indigenza in seguito all’evento funesto che gli porterà via tutto, nonché alla propria faccia tosta – Kvothe è tanto dotato quanto arrogante. Le prime battaglie che deve affrontare sono quelle contro la fame e la miseria, che rimangono per anni le sue uniche preoccupazioni.

Magia e follia

Gli studi di psicologia clinica di Rothfuss si apprezzano nell’accuratezza con cui affronta gli effetti di un evento traumatico sulla psiche di Kvothe, all’epoca appena undicenne. Per un lungo periodo rimane in uno stato mentale assimilabile al disturbo da stress post-traumatico, una condizione da cui riesce faticosamente a risollevarsi riconnettendosi col passato che aveva cercato di rimuovere. Un ulteriore elemento che permette di apprezzare gli studi di psicologia di Rothfuss all’interno del romanzo è il pericoloso collegamento tra magia e follia; operare magia significa comprendere il mondo e i suoi meccanismi a fondo, oltre la rassicurante visione umana e superficiale. Sforzare la propria mente oltre i propri limiti implica un rischio tutt’altro che remoto di perdere la ragione. Un edificio dell’Accademia è preposto per accogliere studenti e insegnanti che sono impazziti, per un breve periodo o permanentemente.

Il nome del vento e lo sfruttamento ragionato degli stereotipi

A iniziare Kvothe alla magia è un incantatore male in arnese accolto dalla compagnia dei genitori più per compassione che per reale bisogno. Kvothe ha una memoria prodigiosa, è rapido di ragionamento, la sua naturale predisposizione gli permette di eccellere in qualsiasi ambito nel giro di poco tempo. In un romanzo ambientato nel nostro mondo e nel nostro tempo, non esiteremmo a definirlo un genio. Le sue capacità eccezionali, unite al suo bell’aspetto e alla sua abilità nel combattimento, rischiano di renderlo di una perfezione insopportabile, quella che ha portato molti autori fantasy ad abbruttire i loro eroi, a piagarli di disgrazie visibili e irrimediabili.

Ma Rothfuss è consapevole dello stereotipo in cui rischia di incastrare il suo protagonista, quello dell’eroe incorruttibile prestato all’umanità dalla provvidenza per salvare il mondo, ed essendone consapevole ribalta il discorso; se Kvothe è riuscito a diventare una leggenda non è perché la sua strada sia stata macchinosamente spianata, ma proprio in virtù delle sue straordinarie capacità, senza le quali avrebbe dovuto capitolare, accontentandosi un destino molto meno entusiasmante.

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L’approccio scientifico alla magia

Che in un romanzo fantasy la magia abbia un ruolo centrale, non ha nulla di strano, anzi. Ne Il nome del vento, l’eccezionalità sta nell’approccio scientifico al funzionamento della magia, le cui leggi vengono studiate con la stessa metodicità che nel nostro mondo dedichiamo alla fisica. Nel mondo finzionale delle Cronache dell’Assassino del Re, “magia” è il termine del popolo ignorante e superstizioso per riferirsi alla simpatia – e qui Rothfuss cita la “magia simpatetica” di cui parla l’antropologo James Frazer alla fine dell’800 in Il ramo d’oro, un saggio su magia e superstizione nelle cultura primitive.

Il funzionamento delle arti magiche è regolato da leggi fisiche e termodinamiche attentamente codificate, che rispecchiano l’interesse di Rothfuss per la scienza, per l’alchimia e l’ermetismo. Secondo l’autore, dotare i lettori degli strumenti per comprendere appieno il funzionamento strutturale della magia, “permette di apprezzarne fino in fondo l’inventiva”. Le lezioni cui assiste Kvothe forniscono al lettore spiegazioni dettagliate, e la sua mente analitica trasforma l’incontro con un drago, creatura fantastica per eccellenza, in una dissertazione delle sue caratteristiche fisiche, partendo dal tentativo di delineare la fonte organica dell’alito infuocato – un serbatoio aggiuntivo.

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Ne Il nome del vento l’ambientazione non è particolarmente originale, e non risalta per creatività rispetto a buona parte dei mondi fantasy che già conosciamo. L’impalcatura mitologica riprende elementi sia dal mondo cristiano che dalle leggende anglosassoni dei fatati. I personaggi sono perlopiù ben caratterizzati, benché alcuni compagni di Kvothe all’Accademia risultino quasi intercambiabili e Rothfuss si affidi a stereotipi abusati, come quelli dell’eroe e l’eroina infallibili.

Ma è soprattutto quando ricorre a questi stereotipi senza compromettere la caratterizzazione dei personaggi che Rothfuss dimostra di sapere davvero cosa sta facendo. “Voglio leggere libri pieni di persone straordinarie”, ha affermato in un’intervista a Wired. “Va bene esagerare. Va bene essere irrealistici”. L’importante, ai fini della narrazione, è che i personaggi agiscano in modo coerente con quello che sono e quello che vogliono, che le loro azioni abbiano un senso che non si limiti al proseguimento meccanico della trama.

Rothfuss affronta inoltre esplicitamente la questione dell’affidabilità del narratore quando Kvothe viene accusato da Bast di dare un resoconto parziale dell’aspetto del suo grande amore. Kvothe è un narratore interno alla storia, profondamente toccato dagli eventi e dunque inaffidabile. La sua interpretazione e la sua memoria non possono che alterare la realtà. Nella stessa intervista citata sopra, quando gli viene chiesto di pronunciarsi sull’auto-mitizzazione di Kvothe, la risposta di Rothfuss è tanto vaga quanto soddisfacente. “È giusto domandarsi, quanto di tutto questo è reale, quanto di tutto questo è vero? Sfortunatamente, qualsiasi risposta che io possa dare sarebbe deleteria per la storia.”

Erica Casalini
Classe 1988, cresciuta a manga e Piccoli Brividi, avida divoratrice di storie ben scritte. Chiacchiero di libri sul mio blog e su varie testate online, e occasionalmente scrivo racconti che mi procurano rifiuti molto promettenti. Mi entusiasmano il gioco di ruolo, l'MMA e la storia a momenti alterni. Il mio film preferito è Labyrinth e la mia divinità di riferimento è Neil Gaiman.