Piccoli Brividi è stato uno dei casi letterari più clamorosi di sempre, con oltre 500 milioni di copie vendute. Torniamo negli anni novanta, dove sono nati gli incubi firmati Stine!

È il 1995. Quel pallone calciato da Roberto Baggio a Pasadena inizia finalmente a svanire, nell’orizzonte dei ricordi. Italia Uno ha appena trasmesso Una guerriera speciale, il primo episodio di un anime destinato a spopolare, Sailor Moon. In Giappone ha da poco esordito una console grigia che segnerà la storia, la Playstation. In Italia nel frattempo ci si chiede ancora quale tra Super Nintendo e Mega Drive sia migliore, mentre si trova l’ennesimo doppione degli Squalibabà nell’Ovetto Kinder.
Tra un cartone e l’altro, tra una partita di battimuro e una tedesca, un’intera generazione di bambini e ragazzi nati negli anni ottanta si porta in giro dei libri particolari, appena arrivati in libreria. Un titolo con caratteri sanguinolenti, pagine dai bordi verdi, un incipit accattivante in copertina, colori sgargianti. I Piccoli Brividi erano appena arrivati e tutti si erano già persi, fantasticando e seguendo il flusso di quelle pagine fatate provenienti dagli Stati Uniti.

Ma perché Piccoli Brividi ebbe un successo così clamoroso? Come è diventata la seconda serie di libri per teenager più venduta di sempre, dopo Harry Potter? E perché in ogni libro c’erano adesivi fosforescenti? Per scoprirlo bisogna viaggiare negli USA, tanto tempo fa.

Come nasce la saga

Robert Lawrence Stine nasce in una fattoria dell’Ohio, nella classica realtà rurale a stelle e strisce, all’ombra del progresso e dei grattacieli che stanno imperversando a pochi chilometri di distanza. Robert è un ragazzo timido, non ama stare con gli altri, si definisce strano e a nove anni fa l’incontro che gli cambierà la vita. Nella soffitta di casa trova una vecchia e polverosa macchina da scrivere ed è amore alla prima lettera premuta. Mentre i suoi coetanei vivono il loro piccolo, banale sogno americano, lui mescola i propri pensieri con l’inchiostro e vive un’adolescenza, premendo tasti e costruendo mondi di carta.

Stine si trasferisce a New York, dove fa il secondo grande incontro della sua esistenza. Nella Grande Mela conosce Jane Waldhorn, piccola imprenditrice nel mondo dell’editoria e sua futura sposa. Insieme nel 1983 fondano la Parachute Publishing e iniziano a pubblicare romanzi per bambini, soprattutto di carattere comico. Tre anni dopo gli Stein virano verso il filone horror e fanno centro. Dopo il successo ottenuto con Blind Date, lo scrittore pubblica nel 1989 la serie Fear Street, composta da 51 titoli, con oltre 80 milioni di copie vendute. È il preludio all’arrivo di Piccoli Brividi.

Siamo agli inizi del 1992 e Joan Waricha, co-fondatrice della Parachute, convince Stein a continuare il filone horror, creando una nuova serie per un pubblico ancora più giovane. Poche ore dopo aver accettato la proposta, Stein vede un annuncio in tv che afferma: “È la settimana della pelle d’oca (goosebumps in inglese) su Canale 11”. Il titolo c’era.

Ispirato dai fumetti Tales from the Crypt, letti durante l’infanzia, e da eventi realmente accaduti, riadattati in chiave horror, Stein scrive giorno e notte. A Luglio nelle librerie americane compaiono quattro volumi della saga Goosebumps (Piccoli Brividi): La casa della morte, Il mistero dello scienziato pazzo, Un barattolo mostruoso e Foto dal futuro. Il successo della saga precedente scritta da Stein lascia presagire un trionfo di vendite immediato e invece quei quattro romanzi rimangono sugli scaffali, invenduti. Negli anni novanta la capacità di aspettare e di testare il mercato era decisamente maggiore rispetto alla frenesia contemporanea e le librerie statunitense mantengono in bella vista i coloratissimi volumi firmati Stein.

Dopo tre mesi accade l’impensabile: un improvviso passaparola lancia Piccoli Brividi in vetta alle classifiche e la serie viaggia ad una media di un milione di copie vendute al mese. L’inaspettato exploit porta Stein a scrivere altri romanzi e nel 1993 escono ben dieci volumi di Piccoli Brividi. Due anni dopo la serie sbarca in Italia e nel frattempo esce una trasposizione televisiva. Ma questa è un’altra storia.

Cosa rendeva speciali Piccoli Brividi

Da un punto di vista legato prettamente al marketing, Piccoli Brividi ammiccava, già negli anni novanta, ad un modo di approcciare l’imprenditoria editoriale che avrebbe contraddistinto il decennio successivo.
La veste grafica era curata nei minimi dettagli, a partire da quelle copertine studiate ad hoc per catturare l’attenzione di una fascia di età che negli anni novanta viveva di colori accesi e sgargianti.

Le illustrazioni portavano la firma di Tim Jacobus, che ha curato i disegni di ben cento volumi della saga. L’illustratore racchiudeva con un’immagine dai forti connotati orrorifici l’essenza del libro, senza però svelare troppi particolari, rischiando lo spoiler. L’effetto teaser era sempre assicurato, supportato da una fase ad effetto, una sorta di claim pubblicitario, capace di invogliare la lettura con poco più di dieci parole. Anche il titolo giocava perfettamente la sua parte, tra giochi di parole (1,2,3… invisibile! è un esempio lampante) e rimandi alla cultura horror più adulta.

Ad aumentare il pregio estetico di Piccoli Brividi contribuiva il colore verde dei bordi delle pagine, che rendeva perfettamente distinguibili i libri della collana, in qualsiasi biblioteca. In un’epoca in cui stickers, tatuaggi trasferibili e figurine vivevano il proprio momento d’oro, l’inserimento dei celebri adesivi horror fosforescenti era stato progettato come ulteriore elemento di appeal verso un prodotto irresistibile.

Ovviamente, oltre all’approccio visivo ammiccante, anche la narrazione era ideata perfettamente per far breccia nel giovane pubblico. Ogni libro aveva come protagonisti coetanei dei lettori, creando un marcato principio di identificazione.
Nelle varie storie della collana i bambini/adolescenti dovevano affrontare i classici personaggi che riempiono gli incubi di quella fascia di età: pupazzi posseduti, fantasmi, mummie, lupi mannari e traumi infantili. Stine spesso ribaltava all’ultimo la situazione tragica dei Piccoli Brividi, risolti nel finale con un colpo di scena sorprendente. Senza mai urtare la sensibilità del lettore, le pagine erano cariche di un mix di paura e suspense, azzerata dal coraggio e dal senso di amicizia dei protagonisti.

Non mancavano poi libri dal finale aperto o amaro, aumentando il senso di imprevedibilità e stupore nella lettura. In puro stile Night Shyamalan spesso la risoluzione del mistero porta all’inserimento di altre componenti enigmatiche, spiazzando il lettore proprio nelle ultime parole del libro.

Quali Piccoli Brividi rileggere

Tra la serie originale e quelle proposte nel nuovo millennio sono stati pubblicati più di cento Piccoli Brividi. Per ovvi motivi la qualità non è stata sempre eccelsa e, per approcciare nuovamente la saga, non avrebbe senso leggere l’opera tout court.

Un ritorno nell’inquietante e fantasioso mondo Stine dovrebbe iniziare con Il pupazzo parlante, settimo libro della collana, in cui viene introdotto uno dei più grandi antagonisti ricorrenti dell’opera: il pupazzo Slappy (Sventola nella prima traduzione italiana), un pupazzo da ventriloquo che fa il suo ingresso in scena con la rassicurante frase “Io non sono un sogno…sono un incubo!”.

Il primo Piccoli Brividi non si scorda mai, per questo anche il primissimo volume intitolato La casa della Morte meriterebbe una rilettura, per il suo saper mescolare suggestioni horror classiche (una casa stregata, morti viventi, un villaggio maledetto) ad una rielaborazione metaforica e psicologica dei fantasmi.

Un esempio dell’abilità nel creare un ritmo narrativo incalzante e sorprendente è Il Campeggio degli Orrori, in cui Stine mescola avventura, fasi thriller e un finale che negli anni novanta lasciò parecchie mascelle spalancate.

Una puntata di Black Mirror ante litteram può essere invece Foto dal futuro, in cui una macchina fotografica riflette il macabro destino dei protagonisti.
Sempre in ambito fotografico, non si può non citare il geniale “La scuola maledetta” in cui un gruppo di ragazzi rimane bloccato dagli anni quaranta in una fotografia e in un mondo in bianco e nero.

Un barattolo mostruoso, terzo libro dei Piccoli Brividi, dà invece il via ad una sottosaga composta da ben quattro romanzi, tutti con protagonista il sangue di mostro, una melma fosforescente, risposta adolescenziale all’horror Blob – Fluido mortale.

Sono poi degni di nota e di (ri)lettura Le zucche della vendetta, Mano di mummia, Al mostro! Al mostro!, Una giornata particolare, Alito di vampiro e La maschera maledetta, che ha una delle copertine più belle della saga.
Perché in fondo non si sfugge dagli anni novanta e dai racconti di Stine!

Leone Auciello
Secondo la sua pagina Wikipedia mai accettata è nato a Roma, classe 1983. Come Zerocalcare e Coez, ma non sa disegnare né cantare. Dopo aver imparato a scrivere il proprio nome, non si è mai fermato, preferendo i giri di parole a quelli in tondo. Ha studiato Lettere, dopo averne scritte tante, soprattutto a mano, senza mai spedirle. Iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2006, ha collaborato con più di dieci testate giornalistiche. Parlando di cinema, arte, calcio, musica, politica e cinema. Praticamente uno Scanzi che non ci ha mai creduto abbastanza. Pigro come Antonio Cassano, cinico come Mr Pink, autoreferenziale come Magritte, frizzante come una bottiglia d'acqua Guizza. Se cercate un animale fantastico, ora sapete dove trovarlo.