Gunfire Games ritorna su Remnant con un secondo capitolo che oltre a migliorare il già ottimo primo episodio riesce a stupire in continuazione

Il primo Remnant: From the Ashes è stato un piccolo successo, con una nicchia di fedelissimi entusiasti del gioco. Non ha purtroppo fatto “il botto”, ma poco male visto che, nel momento in cui scrivo, il secondo sta finalmente facendosi largo a spallate uscendo dalla sua nicchia in un momento storico peraltro ricchissimo di uscite. 

Gunfire Games aveva già dato prova delle sue capacità con l’ottimo Darksiders 3 e le sue timide aperture al mondo dei soulslike, nonostante prendesse le mosse da una serie che di soulslike non aveva assolutamente nulla. Remnant: From the Ashes era un nuovo passo nell’individuazione di un modo che mi sentirei ora di definire “à la Gunfire” di intendere il soulslike: immaginate il sistema di navigazione e di esplorazione tipico degli ARPG di From Software e aggiungetegli la randomizzazione degli ambienti di gioco, un sistema di combattimento da third person shooter preponderante rispetto al combattimento all’arma bianca e un’importante (ma non obbligatoria) componente multiplayer. Infine immaginate un background narrativo di genere post-apocalittico che accarezza diverse sfumature della fantascienza, dal weird alla space opera, per avere un quadro completo di come Gunfire Games non abbia assolutamente provato a giocare in maniera sicura come chiunque altro si sia affacciato al mondo dei soulslike, ma anzi abbia preso un qualcosa di familiare per costruirci sopra un prodotto che in definitiva risulta essere assolutamente altro in confronto a quello che ci si potrebbe aspettare rispetto a uno sparatutto soulslike. 

Come dicevo il successo con il primo episodio c’è stato, seppure limitato. Il gioco aveva le sue sbavature e vabè, niente di tragico. Il secondo Remnant però, che abbandona il sottotitolo in favore di un più asciutto Remnant II, è un palazzo enorme costruito sulle fondamenta del primo titolo: più grosso, più bello, ma soprattutto traboccante di idee dentro e fuori il gioco (e per fuori intendo che gli sviluppatori hanno pensato di “nascondere” una classe dietro operazioni di data mining, per dirne una). 

Quello che però più mi ha colpito di Remnant II è – oltre alla creatività, ma ci arriveremo – l’esplorazione delle zone. Normalmente i giochi che puntano alla randomizzazione delle mappe per ovvi motivi hanno un’esplorazione non troppo soddisfacente, con una struttura dei livelli poco interessante e reward non sempre proporzionate all’esplorazione richiesta per ottenerle. Remnant II abbastanza chiaramente non arriva ai livelli di gratificazione nell’esplorazione che può restituire un Elden Ring, o più banalmente un videogioco in cui ogni singola mappa è tratteggiata a mano. Il risultato è però eccezionale lo stesso, non solo grazie all’alternarsi di zone fisse e zone randomizzate, ma anche grazie al motore grazie al quale queste vengono costruite all’inizio di ogni partita, che le rende veramente divertenti da navigare e sempre generate con un’ottima coerenza narrativa rispetto all’ambiente che stiamo esplorando.

L’altro punto che trovo estremamente ben congeniato rispetto alla randomizzazione delle mappe è che queste (ed era così anche nel primo capitolo), non vengono generate a ogni morte del personaggio ma all’inizio dell’accesso nell’area, rendendole sempre le stesse all’interno della medesima partita ma diverse ogni volta che si ricomincia il gioco. Le implicazioni di questa scelta sono tante, prima tra tutte il limitare la frustrazione del dover riscoprire ogni cosa da capo ogni volta che si muore, ma ce ne sono molte altre, come lo sviluppare un senso di familiarità con le aree utile a creare un legame con i diversi biomi e le diverse culture che li abitano senza però dimenticare la possibilità di giocare ancora e ancora senza mai annoiarsi quelle stesse aree in modalità multiplayer. 

Questo approccio ibrido alla randomizzazione va anche a favore di un’ottima narrativa ambientale all’interno di un titolo che da una parte è piuttosto avaro di dialoghi quanto ricco di world building nei dettagli che compongono il mondo. Esplorare con attenzione le diverse zone e i diversi dungeon ci rivela molto di come vivevano i popoli le cui civiltà andremo a conoscere. Anche non ponendo troppa attenzione a questi dettagli però è possibile entrare in sintonia con il gioco grazie soltanto alle ottime atmosfere, diversificate per cromatismi, architetture e design delle civiltà in maniera netta grazie anche al pretesto narrativo che ha permesso a Gunfire Games di costruire mondi partendo da ispirazioni lontanissime tra loro, riuscendo se non proprio a trovare una coerenza in senso stretto quantomeno a non sembrare forzati accostati gli uni agli altri. 

Qualche riga più su parlavo di creatività, e questo è probabilmente l’altro punto che mi ha colpito di più di Remnant II. Il gioco riesce continuamente a reinventarsi proponendo soluzioni nuove e puzzle complessi. Soprattutto i puzzle mi hanno lasciato spiazzato. Mi aspettavo qualcosa di più in linea con un gioco il cui perno è… beh, sparare! Mi sono invece trovato di fronte a enigmi che mi hanno fatto sbattere la testa contro il muro. La situazione si è resa ancora più frizzante quando ho incontrato delle boss fight che integravano elementi da puzzle game. In questi aspetti più che in altri Remnant II è una costante scoperta, riuscendo a mettere sul tavolo situazioni mai uguali a loro stesse in cui il saper sparare è sì importante ma lo è ancora di più sbrogliare la matassa che riuscire a mettere a segno più colpi possibile. 

A margine ci sono i segreti, tanti segreti, alcuni anche difficilissimi da scoprire. Un paio di armature non le avrei mai trovate senza cercare su internet come fare – lo ammetto, bisogna essere sinceri! 

La domanda che mi faccio quindi è: come sarebbe una seconda partita? Perché se leggete di nuovo i due punti di cui vi ho parlato nelle righe precedenti, si tratta di cose che sono la norma nei giochi che hanno una pesante componente di generazione casuale delle mappe. Quanto di questo è effettivamente possibile rendere sempre nuovo, e per quanto tempo? 

La questione è interessante e certamente l’approfondirò in futuro, ma l’obiettivo è di dire a chiunque sia un po’ restio ad avvicinarsi a un soulslike che per motivi di comunicazione viene anche (se non soprattutto) promosso per la sua rigiocabilità grazie alla generazione casuale e per il multiplayer che Remnant II è un gioco bello, denso, complesso ed estremamente gratificante anche per chi vuole approcciarlo come un TPS soulslike single player. Anzi, probabilmente per una prima partita suggerirei a tutti di provarlo come esperienza single player. 

Oltre a questo che vi ho raccontato c’è tanto altro: un ottimo sistema di crescita, delle classi interessanti, la possibilità di costruire build particolari, un’ottima art direction e un impianto narrativo molto gradevole. Tutto quello che daremmo per scontato in un ottimo gioco in Remnant II c’è, e non avevo interesse ad approfondirlo. Mi interessava invece “puntare i riflettori” sul fatto che anche quello che non ci si aspetterebbe così raffinato in un gioco che viene venduto come un multiplayer con mappe randomizzate è invece così raffinato da diventare il punto forte della produzione. Mi spingerei a dire che, in retrospettiva, potremmo un giorno vedere in Remnant II quel gioco che “lo aveva già fatto”, in riferimento al riuscire a far coesistere sistemi che non siamo abituati a veder così ben amalgamati tra loro.

Luca Marinelli Brambilla
Nato a Roma nel 1989, dal 2018 riveste la carica di Direttore Editoriale di Stay Nerd. Laureato in Editoria e Scrittura dopo la triennale in Relazioni Internazionali, decide di preferire i videogiochi e gli anime alla politica. Da questa strana unione nasce il suo interesse per l'analisi di questo tipo di opere in una prospettiva storico-politica. Tra i suoi interessi principali, oltre a quelli già citati, si possono trovare i Gunpla, il tech, la musica progressive, gli orsi e le lontre. Forse gli orsi sono effettivamente il suo interesse principale.