C’era una volta un Witcher: i romanzi di Andrzej Sapkowski

Quando parliamo dei romanzi di The Witcher dobbiamo affrontare un piccolo spartiacque culturale. Niente di drammatico, ma una linea netta che divide giocatori e lettori. Il tutto si può riassumere in una semplice distinzione: chi considera Geralt di Rivia un Witcher… e chi uno strigo.

Per chi ha sia letto la prima edizione della Nord che giocato i titoli di CD Projekt Red questa distinzione non esiste. Ma per altri, sentir definire Geralt uno strigo, può causare un’improvviso smarrimento. Uno smarrimento che la lettura dei romanzi potrebbe far superare.

In superficie l’opera di Andrzej Sapkowski si presenta come un romanzo fantasy piuttosto classico. Elfi, umani, magia, draghi. Tutti i connotati di quello che noi oggi conosciamo come high fantasy, il genere codificato sul modello del Signore degli Anelli e del Legendarium di Tolkien.

Ma questa, come detto, è solo la superficie. Nei fatti Sapkowski prende questo concetto e lo supera in maniera del tutto originale. Come? Proviamo a ripercorrere un po’ la storia dei suoi romanzi, vedere come un witcher sia diventato il Witcher e cercare di capire cosa, per lungo tempo, ne abbia fatto uno strigo, prima di diventare quella che è la sua incarnazione attuale, quella vista nella serie televisiva di Netflix.

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Wiedźmin

La storia di Geralt di Rivia inizia con una medaglia di bronzo. Siamo nel 1985 quando Fantastyka, nota rivista polacca di fantasy e fantascienza, bandisce un concorso letterario a cui uno scrittore e traduttore di trentasette anni decide di partecipare.

Sapokowski scrisse così un racconto intitolato Wiedźmin, la storia di un cacciatore di mostri, capace di vivere a metà tra Michael Moorcock e Raymond Chandler. Il titolo fu scelto dopo molte riflessioni: la volontà era quella di trasmettere ai lettori una versione maschile di “strega”, coniando quindi un neologismo per la lingua polacca.

Il racconto si piazzò terzo. Ma tanto bastò per far apprezzare il personaggio protagonisti di quella storia, quello strano avventuriero di nome Geralt, ai suoi lettori. E, soprattutto, tanto bastò per convincere Fantastyka a commissionare la scrittura di altri racconti all’autore di Łódź.

Dopo qualche tempo, verso l’inizio degli anni Novanta, Sapkowski concepì per la prima volta l’idea di trasformare le sue storie in qualcosa di più. Nel 1992 vennero raccolti i primi racconti, dove si introduceva la seconda protagonista della vicenda, Ciri. Successivamente Sapkowski raccolse anche le altre novelle, soprattutto quelle che componevano l’originale Wiedźmin (operando una revisione profonda), facendo uscire quello che a tutti gli effetti si configurava come un prequel della vicenda. Finalmente nel 1994 uscì il primo dei romanzi della Saga di Geralt di Rivia, seguito dagli altri cinque volumi della saga principale del Witcher. Un piccolo classico della letteratura fantasy anni Novanta, che tuttavia rimase a lungo in sordina. Una traduzione in inglese arrivò solo a cavallo tra il 2007 e il 2008.

Andrzej Sapkowski, l’autore della Saga di Geralt di Rivia

Una mano da Projekt Red

I motivi dietro questa lentezza sono da ricercare soprattutto nella collocazione geografica dell’autore. La Polonia usciva negli anni Novanta da un lungo periodo sotto la Cortina di Ferro. Trovare qualcuno che si interessasse al mercato e all’editoria dell’ex blocco sovietico nelle case editrici occidentali nel 1999 non doveva essere un’impresa facile. Eppure, senza saperlo, già nel 1997 l’autore aveva gettato i semi della sua fortuna internazionale.

Fu in quell’anno, al momento dell’uscita del sesto romanzo, che Sapkowski venne avvicino dai responsabili di uno studio di videogiochi di Varsavia, CD Projekt Red. Si potrebbe dire che il resto sia storia, ma in realtà le cose non furono affatto semplici.

Projekt Red propose all’autore un contratto standard, basato sulle royalties delle vendite del gioco. Peccato che Sapkowski non nutrisse alcun amore o fiducia per i videogiochi, preferendo invece una cifra forfettaria pari a 9500 $. Una miseria, se pensiamo al successo della saga videoludica.

All’uscita del gioco, nel 2007, il gradimento fu tale che gli editori inglesi e statunitensi decisero di cavalcare l’onda e pubblicare il romanzo. Ma ecco nascere un altro problema: Sapkowski avrebbe ceduto i diritti solo se la traduzione fosse stata eseguita direttamente dall’originale polacco. Nessuna intermediazione dal tedesco, dal russo o dal francese, dove i romanzi avevano già cominciato (timidamente) a uscire. Lo stesso accadde in Italia nel 2010: l’autore costrinse l’Editrice Nord a cercare un traduttore dal polacco per avviare la pubblicazione italiana.

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La copertina del primo volume italiano della Saga di Geralt, Il Guardiano degli innocenti

La traduzione italiana, proprio sulla base delle richieste dell’autore, scelse di non utilizzare la parola Witcher. Nata dalla mente del game designer Adrian Chmielarz, voleva essere la versione inglese dell’originale Wiedźmin, pensata per il mercato internazionale. Ma Sapkowski si oppose su tutta la linea all’uso della traduzione intermedia in inglese.

E qui bisogna aprire una piccola parentesi sull’autore. Andrzej Sapkowski non è noto per il suo carattere amabile. Trattare con lui, specie per una questione delicata come la traduzione, non deve essere stato facile.

La scelta fu quindi di tornare al concetto originale del nome. Wiedźmin, come detto, nasceva come sostantivo maschile del polacco wiedźma, ovvero “strega”. La traduttrice Raffaella Belletti scelse quindi lo stesso criterio: quello di trovare un termine maschile per una parola universalmente femminile. Era nato il termine strigo. Lo stesso termine che avrebbe accompagnato Geralt di Rivia nei suoi primi anni di pubblicazione italiana.

Hard boiled fantasy

La trama della Saga di Geralt di Rivia e dei romanzi che compongono l’epopea del Witcher è ormai abbastanza nota. Geralt è un cacciatore di mostri appartenente alla scuola del Lupo di Kaer Morhen. Dopo i primi anni di infanzia passati con la madre Visenna, viene da questa abbandonato e lasciato alle cure del Witcher Vesemir, il suo mentore. Verrà quindi sottoposto all’addestramento per combattere i mostri e alla successiva Cerimonia delle Erbe, con la quale otterrà i poteri e le abilità sovraumane tipiche dei Witcher.

Ed è proprio il personaggio di Geralt uno dei motivi per cui la saga di Sapkowski brilla di luce propria. Appassionato dei romanzi di Raymond Chandler e del genere hard boiled, appare evidente come Geralt sia una sorta di investigatore in un mondo fantasy. Non sono i criminali quelli a cui dà la caccia e la sua ricompensa non è un Falcone Maltese. Ma i metodi e il modo di fare di Geralt sembrano richiamare quelli di un Philip Marlowe o di uno Sam Spade (come detto, in alcune interviste, dallo stesso Sapkowski). Un investigatore sbrigativo, sarcastico e un po’ brutale, con un ristretto numero di persone fidate. Ma è soprattutto la contraddizione che vive Geralt a farne qualcosa di unico: un mostro nato per combattere mostri. Consapevole di questa sua natura, spesso deve ignorare le bestie peggiori, gli umani, in virtù della scelta dei Witcher di non schierarsi.

Ma l’altra evidente influenza presente in Sapkowski è quella dei grandi autori fantasy che lo hanno preceduto. Non tanto Tolkien, di cui restano evidenti alcune influenze (i connotati di elfi e nani presenti nella Saga di Geralt richiamano quelli del Professore, così come un certo titanismo presente nella saga). Sembra essere soprattutto l’opera di Michael Moorcock a fornire uno spunto fondamentale all’autore di Łódź. Già il soprannome del protagonista (Lupo Bianco) appare come un evidente omaggio a Elric di Melniboné, il negromante albino creato da Moorcock.

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Illustrazione di Vladimir Kafanov

Quando parlammo di Elric ricordammo come Moorcock avesse “distrutto” la tipica dicotomia tra bene e male presente in Tolkien, sostituendovi quella tra Legge e Caos. Più semplicemente Sapkowski la ignora: Geralt è neutrale. Non c’è bene o male nelle scelte che compie. O, almeno, non esiste nella sua visione.

Se nei primi due libri, gli stessi trasposti nella serie televisiva e costituiti dai racconti, la neutralità di Geralt era soprattutto motivo di turbamento per quanti volevano coinvolgerlo nella politica e nei giochi di potere, nei romanzi assume anche un altro aspetto. Le azioni di Geralt sono volte a proteggere se stesso e la sua famiglia, i suoi affetti. Non c’è la salvezza del mondo nei pensieri del Witcher, la distruzione di un Signore Oscuro o di un impero malvagio. Per Geralt contano solo Ciri, Yennefer e Ranuncolo, gli altri Witcher della sua scuola e il mantenimento della sua cerchia di affetti.

Questo porta Geralt a compiere delle scelte con conseguenze a lungo termine. Ma sono scelte che lo scrittore non giudica. Non vengono incanalate nelle due categorie “bene” e “male”, così restrittive per i canoni del fantasy contemporaneo. Geralt è pur sempre un uomo, seppure con abilità straordinarie. E, come tale, nutre ambizioni, sentimenti, soffre e prova dolore. Alla fine l’intera Saga di Geralt di Rivia può ridursi a questo: a un uomo desideroso di proteggere la propria famiglia.

Per quanto riguarda i metodi con cui ciò viene fatto il giudizio viene lasciato al lettore, il quale nel corso delle avventure di Geralt e Ciri ha sempre la facoltà di osservare i loro ragionamenti e il loro comportamento. Non sono Sapkowski e i suoi personaggi a indicarci quale sia il male minore: questo compito è lasciato al lettore.

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Costruire un mondo

Se è vero che sempre più spesso gli autori ci propongono la propria versione del “gioco del trono”, è anche vero che Sapkowski realizzò un’operazione del genere in maniera contemporanea a Martin. Il mondo in cui sono ambientati di romanzi di The Witcher è costruito in maniera complessa e raffinata, con una politica ben definita. Ogni regno ha il suo sovrano, la sua storia e le sue caratteristiche, che ne fanno qualcosa di unico ai fini della trama, un vero e proprio ciclone di complotti, battaglie e tradimento, nel cui occhio si ritrova Ciri, sempre più protagonista col progredire della storia.

Ma coi romanzi di The Witcher Sapkowski si dimostra anche capace di sfruttare al meglio sia gli archetipi tolkieniani che diverse influenze della mitologia slava, finnica e persino di quella classica. Geralt, nel corso dei suoi viaggi, dà la caccia a mostri di ogni tipo, ma il continente su cui si muove, pur essendo abitato in grandissima parte da umani, ha una minoranza di elfi e nani rappresentati in maniera del tutto originale. Vittime della colonizzazione umana, le razze fantasy tolkieniane si sono dovute adattare alla vita nei ghetti o alla guerriglia, come avvenuto per gli Scoia’tael.

Vedere nani adattarsi alla vita dei banchieri, o gnomi ed elfi vittime dei pogrom è una delle dimostrazioni dell’inventiva di Sapkowski, capace di unire a un contesto di fantasy classico alcune tematiche attuali. Una linea sottile, in cui riescono convivere il passato e il futuro. Una linea su cui Sapkowski è riuscito a fare la fortuna del suo Witcher e dei propri romanzi.

Federico Galdi
Genovese, classe 1988. Laureato in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie, Federico dedica la maggior parte del suo tempo a leggere cose che vanno dal fantastico estremo all'intellettuale frustrato. Autore di quattro romanzi scritti mentre cercava di diventare docente di storia, al momento è il primo nella lista di quelli da mettere al muro quando arriverà la rivoluzione letteraria e il fantasy verrà (giustamente) bandito.