Gli Ainu sono un affascinante popolo indigeno del Nord del Giappone, ne abbiamo parlato con la ricercatrice Sabrina Battipaglia

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li Ainu sono un popolo quasi sconosciuto ai più, nonostante il numero crescente di appassionati e visitatori del Giappone. In effetti, anche storicamente, gli Ainu non hanno avuto vita facile, sopportando discriminazioni culturali che avevano quasi portato alla scomparsa della loro cultura. Poiché a nostro parere se ne parla troppo poco, abbiamo pensato di farvi conoscere meglio questo popolo indigeno facendo qualche domanda a una ricercatrice esperta, Sabrina Battipaglia, che ha analizzato profondamente la loro cultura e scritto diversi articoli e ricerche di enorme interesse socio-culturale.

Ciao Sabrina, innanzitutto spieghiamo a tutti chi sei e cosa fai nella vita, raccontaci di te.

La domanda più difficile a cui rispondere credo sia questa, perché include un percorso fatto di vita lavorativa e di scelte personali. Da un lato sono una Yamatologa e Archeologa, con un Master in Italia e un Dottorato in Spagna, dall’altro ho deciso di vivere anni fa in Belgio, alternando però periodi di ricerca in Hokkaidō. Riconosco questi due luoghi, il Belgio, ma in particolare la capitale Bruxelles come una parte dell’anima e l’isola di Hokkaidō come la sua parte mancante. Mi piace vivere lo spazio urbano, così oltre ai viaggi impegnativi in Vespa assieme al mio compagno, esploro le città a piedi ripercorrendone la storia culturale e facendo visita ai diversi complessi museali. In alcuni periodi però mi “disintossico” dalle città immergendomi nelle culture indigene per riconnettermi con me stessa e con la natura circostante.

Come sei entrata in contatto con la cultura Ainu e perché hai deciso di approfondirla?

Era il lontano 2006, quando alle prese con la ricerca di un professore a cui chiedere la tesi della mia prima Laurea (Vecchio Ordinamento), ricaddi su uno che a tutti noi studenti metteva una tale soggezione reverenziale, tanto che avevo persino difficoltà a rivolgergli il saluto. Ma sai, era di quei professori con uno spessore enorme, un bagaglio infinito di conoscenze, pur restando di una umiltà che sconvolge. A lui chiesi se in Giappone esisteva per caso una popolazione indigena, visto che ero appassionata anche di antropologia. Lui mi rispose sorridendo, confermandomi che avrei potuto coniugare le mie due passioni occupandomi degli Ainu. Da quel giorno, non li ho più mollati. Lavorai alla tesi per due anni durante i quali non finirò mai di ringraziare quel professore per le solide basi che mi ha permesso di costruire e che tutt’ora mi reggono in piedi.

Spiegaci più un generale chi sono gli Ainu e in cosa consiste la loro cultura, perché si differenzia da quella giapponese?

Gli Ainu sono tradizionalmente animisti e questo contatto con la natura circostante viene espresso in molteplici modi. Partendo dall’individuo, sia i ricami sugli abiti (attush) che i tatuaggi fanno riferimento ai simboli tradizionali, i quali hanno un potere protettivo e tengono lontane le energie negative. Passando alle abitazioni, la loro struttura è ben precisa come fossero un corpo in cui vi è un centro che è l’anima della casa stessa, un focolare in cui si crede risiedere la dea del fuoco (Fuchi-Kamui), segue poi il contatto tra l’interno e l’esterno della casa attraverso la finestra sacra (rorun puyar), mentre all’esterno il discorso continua con la palizzata sacra (nusa). Gli strumenti liturgici invece, siano essi quotidiani o cerimoniali (inau o iku-bashui), fungono da intermediari e hanno il potere di manipolare le energie. Ogni azione della vita quotidiana viene preceduta, accompagnata e conclusa con un ringraziamento alle divinità, e così il momento della caccia, della pesca, della costruzione di una casa che diventa un complesso rituale, sono momenti di gratitudine verso le divinità.

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E poi ci sono cerimonie specifiche, tra le più importanti quella del sacro invio dell’orso (Iyomande), che prevedeva diversi momenti in cui si trovava un piccolo orso, lo si allevava, veniva nutrito nella propria casa, anche allattato al seno e al momento propizio veniva celebrato il suo invio nella terra degli dèi (Kamui-Moshir), ma prima della sua uccisione soprattutto, seguivano preghiere per ricordargli di quanto gli Ainu fossero stati benevoli con lui, col fine di ricevere benedizioni dagli dèi stessi. Da ciò si può percepire come dall’individuo, passando per la sua abitazione fino al mondo circostante vi sia una sorta di filo conduttore che contiene energie le quali necessitano di essere costantemente tenute purificate per meglio comunicare con il mondo delle divinità.

Infine c’è la musica sia con l’accompagnamento di strumenti (tonkori, mukkuri), che solo voce sono un’ode alle loro tradizioni, oppure le leggende che hanno il potere rievocativo del passato e possono diventare persino uno strumento di rivendicazione delle proprie origini.

Come abbiamo detto all’inizio, hai scritto alcuni paper di ricerca riguardo gli Ainu: quali aspetti hai affrontato esattamente?

Durante tutto il percorso di studi (Laurea in Lingue e Letterature Comparate di Vecchio Ordinamento-giapponese e spagnolo, Master in Filosofia Orientale e Comparativa, Dottorato in Studi Interculturali, seconda Laurea magistrale in Archeologia giapponese), il filo conduttore è stato sempre il popolo Ainu. Ho affrontato la loro cultura analizzandola da più punti di vista: storico, filosofico-religioso, antropologico (etno-turismo, artigianato/arte), archeologico. I miei articoli, dunque, sono il risultato delle mie ricerche nei diversi campi, dei quali alcuni sono stati già pubblicati, altri sono in corso di stampa.
Le mie ultime ricerche riguardano l’aspetto archeologico, nello specifico cibo e turismo, non solo degli Ainu ma di tutto quanto l’Hokkaidō e in questo caso, gli articoli sono in fase di scrittura sia in italiano che in inglese.

Comprendere appieno la loro cultura più tradizionale e quella che è stata la sua evoluzione mi ha permesso di mettere insieme pezzi di un puzzle più complesso sulla storia giapponese. È chiaro che ho ancora da esplorare, perché una cultura è sempre in continua mutazione e porta con sé traumi, tentativi di sopravvivenza, compromessi.

Quanto è difficile fare ricerca su un popolo indigeno? E cosa fanno gli Ainu stessi per farsi conoscere come gruppo culturale?

Devo ammettere che, quando ero ancora una studentessa, ho avuto non molte difficoltà nel reperire materiale, poiché a quei tempi si diffuse sempre più l’idea che gli Ainu fossero un popolo prossimo all’estinzione. Gli studiosi ponevano l’accento su un passato che vedeva gli Ainu discriminati e inclini all’alcool e su un presente che non dava loro giustizia. Credo, dunque, che il lavoro sul campo sia la modalità più valida per conoscere un popolo indigeno, perché quella che viene ascoltata è la diretta voce degli interessati. Ad ogni modo è possibile affermare oggigiorno che la cultura Ainu non è estinta, anzi, è più viva che mai. Nel corso degli anni, grazie alla messa in moto della cosiddetta macchina turistica in alcuni villaggi ricostruiti, oggetti di uso quotidiano prima e di souvenir dopo hanno visto la loro produzione aumentare considerevolmente.

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Foto di Sabrina Battipaglia: villaggio Akan

A tal proposito, molti studiosi discutono di consueto sul concetto di creazione “finta” del patrimonio tradizionale, quando invece viene trascurato il fatto che si è messa in funzione una microeconomia molto utile agli indigeni. Col tempo gli Ainu hanno cercato di ampliare i propri contatti attraverso la partecipazione ai forum, agli incontri con altri popoli indigeni, per confrontarsi, per trovare una loro modalità di comunicazione. E così, proponendo corsi di lingua, di ricamo, di intaglio del legno, oppure realizzando spettacoli di danza e musica o ancora ricreando piatti della cucina tradizionale, hanno la possibilità di recuperare a poco a poco il proprio patrimonio culturale, trasformandolo in chiave più moderna capace di attrarre un numero sempre crescente di curiosi. A tutto ciò si aggiunge internet e i vari social che sono diventati una vetrina vera e propria anche per gli Ainu sia per la diffusione della loro cultura in generale che per promuovere iniziative sempre diverse.

Quali sono le condizioni in cui vivono ora gli Ainu in Giappone? Sono ancora discriminati? Rischiano di sparire come popolazione indigena?

Come ho detto in precedenza, gli Ainu non rischiano più l’estinzione, poiché si è giunti a un compromesso tra la riappropriazione della loro cultura tradizionale, anche se solo in parte, e la possibilità di comunicarla apertamente alle future generazioni. Rispetto al passato la situazione generale è molto diversa, compreso il discorso relativo agli atti discriminatori.

Per arrivare alla situazione odierna di maggiore equilibrio tra il gruppo maggioritario e quello indigeno, ci sono state leggi che ne hanno raccontato i diversi passaggi. Nella Costituzione del 1889, gli Ainu non erano esplicitamente menzionati, ma rientravano genericamente tra i sudditi, nel 1899 invece, entrò in vigore una legge per la protezione dei nativi, la “Former Aborigines Protection Act”, con cui si stabilirono nuove situazioni come una formazione agricola, una nuova ricollocazione economica, e tutto un piano per l’istruzione, l’assistenza e le cure mediche. Gli Ainu all’improvviso si ritrovarono da cacciatori-raccoglitori a lavorare nei campi o nella ferrovia o ancora nelle industrie della pesca, mentre le donne dovettero occuparsi di tutto il resto, inclusa l’educazione dei figli. Ovviamente ciò non bastava per il loro sostentamento, per questo ben presto l’eccessiva povertà di molti trovò rifugio nell’alcool. Nel maggio del 1997 il governo giapponese approvò la legge “Ainu Cultural Promotion Act (ACPA)” che abolì le disposizioni della legge del 1899, ancora in vigore. Nello stesso anno, con l’obiettivo di promuovere la cultura Ainu, nacque la FRPAC (The Foundation for Research and Promotion of Ainu Culture) e grazie anche all’impegno degli attivisti Ainu in quei decenni, si è potuto assistere ad una svolta. Inoltre, l’ONU, a seguito della comprovata presenza di discriminazioni, sollecitò lo Stato giapponese al riconoscimento degli Ainu come popolazione indigena nel 2001.

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Foto di Sabrina Battipaglia: villaggio Akan

Un successivo e importante provvedimento seguì nel 6 giugno del 2008, ma accolto con cautela, poiché dal punto di vista costituzionale non vi è stato un riconoscimento ufficiale, ma solo un cambiamento della politica giapponese. Fondamentale invece è stata la legge del 2019, che ha abrogato la legge del 1997, conosciuta anche come “Ainu Policy Promotion Act” (APPA) ed entrata in vigore il 24 maggio. Oltre ad un riconoscimento degli Ainu come popolazione indigena, il governo giapponese ha dichiarato di impegnarsi su vari fronti; stimolare ogni cittadino nel compiere sforzi per la realizzazione di una società in cui gli Ainu vengono rispettati, maggiore promozione della cultura indigena, dell’industria e del turismo, nonché la distribuzione di sussidi alle varie amministrazioni comunali per l’implementazione dei vari progetti. Un esempio concreto molto importante è relativo all’apertura del primo museo nazionale interamente dedicato agli Ainu, l’ “Upopoy National Ainu Museum and Park”, in cui il termine “upopoy” può essere tradotto come “cantiamo insieme” con il messaggio di creare uno spazio simbolico per l’armonia etnica. Il museo è stato inaugurato a Shiraoi il 12 luglio 2020, e tra esposizioni di oggetti tradizionali e contemporanei, tra visite alle chise o case tradizionali, e tra un workshop e uno spettacolo, tutto parla esclusivamente di Ainu.

Da un lato l’emanazione di queste leggi e dall’altro le lotte da parte degli indigeni siano essi stati capi tribù o attivisti, hanno scandito i tempi di una relazione che ha assistito ad un enorme svantaggio iniziale per il gruppo minoritario. Nel corso del tempo, la comunicazione tra i due gruppi è notevolmente migliorata e sono in aumento anche le azioni concrete per il sostegno degli Ainu. Se un tempo la parola Ainu che in lingua indigena sta per “essere umano”, risuonava ad un giapponese come “A-inu” ossia “ah un cane” o anche l’aspetto fisico come la peluria su un corpo maschile oppure la lunga barba potevano essere pretesti di discriminazione, oggigiorno per fortuna la situazione è cambiata molto rispetto al passato. Gli Ainu stanno ritrovando lentamente l’orgoglio delle proprie radici e il desiderio di trasmettere la cultura tradizionale alle future generazioni.

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Il museo Upopoy

Raccontaci una delle cose più particolari della loro cultura e che a te piace di più.

Ogni cultura indigena presenta una storia carica di lotte, di difficoltà, di sopravvivenza. Per gli Ainu di certo il passato non è stato diverso, ma ciò che ha catturato maggiormente la mia attenzione riguarda il passaggio dallo stato di sopravvivenza a quello di “rinascita”.

A seguito della Restaurazione Meiji (cioè dal 1868), gli Ainu sono stati privati del proprio patrimonio culturale, non potevano più tatuarsi, celebrare pubblicamente le cerimonie, danzare e cantare, parlare l’Ainu-itak ossia la lingua ainu. Inoltre, il divieto di praticare la caccia e la pesca, da sempre fonti di sostentamento, li ha visti economicamente in forte disagio e scivolare lentamente nella disperazione e nell’alcool. Penso al coraggio di quei capi Ainu che secoli prima hanno perso le loro vite (tra i più noti, Koshamain nel 1457, Henauke nel 1644, Shakushain nella lotta tra il 1669-1672, o la rivolta di Menashi-Kunashiri nel 1789) e le voci di tutti quegli attivisti che hanno combattuto successivamente. Dunque, in quella fase tra lo stato di sopravvivenza e quello di “rinascita” o riappropriazione della cultura tradizionale, ciò che mi ha colpito è stato l’impiego delle loro abilità, creando col tempo sia abilissimi artigiani, che apprezzati artisti oltre che talentuosi musicisti.

So bene che questo è più un aspetto storico che culturale, ma mi piace la lezione che ne ho tratto, ossia quella di cercare, nei momenti difficili, ciò che sappiamo fare in modo naturale senza sforzo e ripartire proprio da quello.

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Foto di Sabrina Battipaglia: villaggio Akan

Quali sono, secondo te, le azioni che si possono compiere per conoscere una cultura indigena rispettandola?

In genere, quando si pensa a una cultura indigena, i primi riferimenti sono lo stretto contatto con la natura e la consapevolezza delle proprie radici. Nel mondo urbano in cui viviamo, purtroppo, ciò viene perso di vista troppo spesso. Per entrare in contatto con gli indigeni, di qualsiasi cultura nel mondo, credo che una buona dose di umiltà sia necessaria col fine di non pretendere di sapere ciò che è “giusto” o che è “verità assoluta”. Segue l’ascolto, anch’esso indispensabile, come modalità per entrare in contatto con l’altro, e poi il rispetto per ciò che ci viene detto, per permetterci di apprendere un’altra percezione delle cose, un’altra visione del mondo.

Tutto ciò è un qualcosa che sto imparando ancora sia dagli Ainu che dagli altri popoli indigeni del mondo con cui sono venuta a contatto. Le mie convinzioni errate mi hanno fatto storcere il naso, ad esempio, in presenza di una sciamana, fino a quando non ho avuto lunghe conversazioni con lei e dormito nella stessa camera; oppure ricordo il mio timore di fronte ad un indigeno del Borneo, quando ho scoperto che era un ex-tagliatore di teste, fino a che non ho conversato più volte con lui bevendo birra; o ancora, ho stupidamente ballato al ritmo dei canti di indigeni Rapanui fino a quando non ho ascoltato le sofferenze storiche di questo popolo e cosi mi sono messa in ascolto anche delle storie più personali.

Posso dire che devo tanto agli indigeni che ho incontrato, perché mi hanno offerto una visione della vita più ampia e più profonda, in cui il contatto con il mondo naturale che ci circonda è sinonimo di contatto con la parte più intima di noi stessi.

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Foto di Sabrina Battipaglia, insieme a un gruppo di Ainu (scattata col consenso dei soggetti)

Parlaci del tuo progetto Ainu Giappone e di qualcosa a cui stai lavorando (se c’è!)

Questo è un progetto a cui sono molto legata, la cui finalità è quella di diffondere la cultura Ainu in pillole, attraverso diverse rubriche esplorando in questo modo, la tradizione più antica, la cultura materiale, la musica e la danza, gli aspetti religiosi, le leggende fino alla situazione più contemporanea, mostrando al contempo diversi luoghi dell’Hokkaidō, e parlando di cibo che si fa archeologia e storia.

Attualmente sto editando un saggio sulla cultura Ainu, che è il primo di una piccola serie e che è il risultato di poco più di un decennio di ricerche. Inoltre, vi sono altri progetti paralleli più grandi, i quali stanno richiedendo più tempo del previsto per la loro realizzazione, ma di cui spero di poterne condividere presto i risultati.

Alessia Trombini
Torinese, classe '94, vive dal 2014 a Treviso e si è laureata all'università Ca' Foscari di Venezia in lingua e cultura giapponese, con la fatica e il sudore degni di un samurai. Entra in Stay Nerd nel luglio 2018 e dal 2019 è anche host del podcast di Stay Nerd "Japan Wildlife". Spende e spande nella sua fumetteria di fiducia ed è appassionata di giochi da tavolo, tra i quali non manca di provare anche quelli a tema Giappone.