La rivisitazione del “Canaro della Magliana” ad opera di Matteo Garrone

Raccontare un fatto di cronaca nera con un qualsiasi medium, audiovisivo o meno, si rivela spesso e volentieri un’operazione difficoltosa: non ci si può concedere espressioni di violenza esagerate per evitare di scadere nel filone dell’horror slasher, che trasformerebbe il tutto in una patetica farsa, ma al tempo stesso il regista deve essere in grado di cogliere l’efferatezza dell’evento e trasporla sullo schermo, grande o piccolo che sia.
Il suddetto procedimento non va applicato ai dettagli più cruenti, ma anche alla destabilizzazione reciproca di vittima e carnefice e al loro sconvolgimento psicologico.

Il percorso scelto per “Dogman” da Matteo Garrone, pluripremiato regista nostrano al quale si devono pellicole dall’indubbia qualità artistica come Gomorra (il film, non la serie TV), Reality e Il racconto dei racconti, è proprio quest’ultimo.

La violenza del fatto di cronaca originale, come spesso ribadito dallo stesso Garrone, viene quasi completamente accantonata ed interviene esclusivamente a sprazzi: la storia che sceglie di raccontare il regista è quella di un rapporto di prevaricazione fisica e, soprattutto, psicologica, all’interno della quale l’elemento splatter viene giustamente soffocato.

Nello specifico, il protagonista Marcello (Marcello Fonte, premiato allo scorso Festival di Cannes per la sua interpretazione), mite proprietario di un locale per la toilettatura dei cani, rappresenta la parte oppressa e contemporaneamente repressa di questo malsano rapporto, mentre è Simoncino (Edoardo Pesce), un delinquente di quartiere che da anni lo tormenta, a rivestire il ruolo dell’oppressore, della pesantissima croce che un semplice ometto da troppo tempo si porta sulle spalle.

Garrone quindi decide di far diventare la vicenda del Canaro della Magliana un mero pretesto per analizzare i personaggi di Marcello e Simoncino, due facce della stessa medaglia, in quanto entrambi, in modi differenti, si ritrovano annichiliti e sopraffatti dal contesto sociale degradato intorno al quale sembrano costretti ad orbitare secondo un’irrefrenabile forza centripeta.

I protagonisti, che non sono altro che archetipi derivati dal cinema neorealista, non fanno altro che vagare senza meta in una landa desolata che richiama fortemente il cinema western del Belpaese, laddove le secche ambientazioni semidesertiche erano allo stesso tempo spazi nei quali perdersi a causa della loro indeterminatezza e gabbie che limitano la dinamicità dei personaggi.

Marcello si muove all’interno di questo ambiente con scarsa sicurezza e profonda ingenuità, arrivando quasi a rappresentare un’incarnazione prematura del Pinocchio collodiano (il quale invece costituirà il prossimo lavoro di Matteo Garrone), mentre Simoncino devasta ogni entità che gli capiti a tiro, assumendo sempre di più caratteristiche e sembianze mostruose, anche per merito di un trucco prostetico che rende questo antagonista simile al Jake La Motta di Toro scatenato.

Tuttavia, come in ogni dialettica schiavo-padrone che si rispetti, i due poli sono destinati a scambiarsi di posizione, fenomeno che accade nel momento in cui Marcello perde ogni traccia di umanità, diventando lui stesso la bestia dal quale ha sempre dovuto difendersi.

Garrone mostra al pubblico l’orrenda catabasi di questa maschera vivente restringendo i campi e abbandonando gli inserti comici che aveva disseminato nella prima parte, con lo scopo di lasciare predominare l’inevitabile tragedia, la quale aleggia intimidatoria dall’inizio del film.

dogman

In conclusione, Dogman si aggiunge alla sequenza di opere di immensa fattura firmate da Matteo Garrone: un ulteriore centro nella carriera di un’artista che, ancora una volta, ha deciso di soffermarsi a raccontare un altro lato marcio dell’Italia, con un approccio congeniale alla favola grottesca, ma compiendo contemporaneamente un’analisi psicologica e comportamentale degli individui che la abitano.

Inutile affermare che l’entusiasta accoglienza ricevuta Cannes sia assolutamente condivisibile, che i molti elogi ottenuti dalla critica siano giustificati e che l’intera operazione sia motivo di vanto per l’industria cinematografica italiana all’estero.

Insomma, se non hai ancora visto Dogman, è proprio giunto il momento di farlo.

Davide Colli
Iniziato alla settima arte sin dalla tenera età, Davide Colli è un giovane totalmente alienato dalla realtà circostante, che scrive di cinema, tv e musica ovviamente in un modo tutto suo. Qualche volta riesce ad imbucarsi a qualche festival importante, e non lo hanno ancora scoperto. Vorrebbe diventare uno sceneggiatore in futuro, ma come quelli di Boris. Talvolta venera David Lynch o gioca con il suo modellino di DeLorean.