Un’analisi a 360° della vicenda riguardante il nuovo live-action Disney de La Sirenetta

Nei giorni scorsi, il tema dell’etnia della nuova Sirenetta è stato al centro del dibattitto social, assumendo il rilievo mediatico che probabilmente la Disney stessa, nella veste dei suoi strateghi della comunicazione, aveva preventivato: sfruttando la polarizzazione culturale dominante degli ultimi anni, stimolando uno scontro netto e violento tra nostalgici e fautori del nuovo, i manager Disney sono riusciti ancora una volta a far dimenticare le atrocità artistiche e culturali che l’azienda continua a commettere da decenni, focalizzando l’attenzione del pubblico su temi fondamentali ma filtrati dalla loro prospettiva, rendendo impossibile una critica strutturale al loro modo di agire sul mercato.

LA SIRENETTA

sirenetta disney politically correct

Prima di affrontare quello che nella mia prospettiva è il vero il nocciolo della questione, cercherò di restituire un quadro complessivo della situazione in base alle mie esperienze dirette, sia sui social che dal vivo. In funzione di ciò, i problemi generati dalla vicenda “Sirenetta nera”, volendo mettere da parte boiate clamorose come il problema della melanina sott’acqua, l’origine danese della storia e i paragoni con Martin Luther King bianco, sono approssimativamente i seguenti:

  1. Per i fautori del nuovo, chiunque sia contrario a questa scelta è razzista;
  2. Per i nostalgici, chiunque sia favorevole a questa scelta è un buonista;
  3. Non è una scelta artistica ma commerciale per seguire il trend del politically correct;
  4. Disney fa intrattenimento e cultura e quindi deve essere libera di fare ciò che vuole.

Per quanto riguarda il primo punto, bisogna cercare di distinguere scelte e atteggiamenti coscientemente razzisti e reazionari dalla partecipazione, spesso involontaria, ai frame e alle narrazioni xenofobe e d’odio etnico. Infatti, quando una cultura è dominante (come nel caso della razzializzazione in occidente), gli effetti delle sue tradizioni e dei suoi modi d’agire e pensare si trascinano e diffondono in modo generale e omogeneo, coinvolgendo anche chi, a livello razionale, non condivide certe opinioni o idee. Per fare un esempio, potrebbe esservi capitato di avere atteggiamenti protettivi e possessivi nei confronti delle vostre o dei vostri partner.

Questo, ovviamente, non significa che si odi il sesso opposto, ma che siamo stati cresciuti in un contesto culturale complessivo che, nei modo più disparati e diversi, ci ha suggerito di dover in qualche modo proteggere e riaffermare il nostro potere su chi ci è caro, soprattutto se di sesso opposto al nostro. Allo stesso modo, provare fastidio per il cambio d’etnia della Sirenetta non implica un diretto razzismo nel senso di odio per chiunque sia diverso da me, ma si inserisce all’interno di una narrazione che supporta, rafforza e diffonde la visione strutturale della società come di “razze” (concetto scientificamente fallace) in contrapposizione tra loro.

A questo punto, si prospettano due diverse interpretazioni di questa particolare reazione alla scelta Disney:

  • Non infastidisce tanto il cambiamento etnico quanto tutta l’operazione nostalgia e recupero del passato, e quindi non in quanto tale ma perché simbolo di uno sfruttamento tematico e commerciale di emozioni e affetti adolescenziali o infantili;
  • Il cambiamento etnico infastidisce perché buonista, politically correct, perché tradisce l’originale.

Nel primo caso, la riflessione critica si apre a un discorso che affronteremo più avanti. È solo il secondo, invece, che si inserisce nelle narrazioni reazionarie di cui sopra. Di conseguenza, tacciare di razzismo chiunque esprima dei dubbi sulla vicenda è controproducente, perché tende a far assimilare e avvicinare i critici dei processi mediatici Disney verso correnti culturali razziste e xenofobe. Bisognerebbe invece spiegare loro ciò che descrivo nella seconda parte dell’articolo.

Il secondo punto è passibile di varie interpretazioni a seconda del significato che si vuole attribuire al termine buonista. Come la maggior parte delle buzzword e le parole d’ordine dell’estrema destra italiana, quest’ultima è stata mutuata dal lessico creato dall’alt-right americana, e potremmo agilmente identificarla con il suo equivalente inglese “social justice warrior”.

Tenendo conto di questa tradizione del termine, l’errore di questa prospettiva sta nel considerare negativamente la cosa, come se si stesse lottando una battaglia inutile sul piano culturale e rappresentativo. Dato che, però, tutte (e con tutte si intende tutte) le ricerche e le statistiche accademiche relative alle minoranze nel cinema hollywoodiano dimostrano come siano sempre inferiori nella rappresentazione rispetto alla fetta di mercato costituita, questa battaglia si dimostra semplice apertura culturale, ben lontana da una fittizia guerra inutile e irrilevante. Inoltre, dato che molte ricerche e analisi dimostrano che il mercato lo si può anche creare, e che non è semplicemente un costrutto statico e impermeabile agli input, ha anche un senso programmatico e politico il premere per rappresentazioni egualitarie e inclusive.

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Il vero problema dell’approccio di molti fautori di queste nuove scelte disneyane risiede in un altro passaggio, ossia nel fossilizzarsi sul problema della rappresentazione senza mettere mai in dubbio i sistemi che ne riproducono la struttura. Lo vedremo nei prossimi punti.

Il terzo punto è vero. In funzione di ciò, si generano due possibili e diverse riflessioni:

  • La critica origina dall’analisi del discorso foucaltiano, perché si sottolinea la volontà della gestione Disney di inserirsi in una parte della narrazione del reale che quest’ultima ritene profittevole o utile occupare. Di conseguenza, questa critica deve poi estendersi a ogni processo comunicativo e attivo dell’azienda stessa, dal marketing ai modi di produzione, dalle estetiche scelte alle condizioni contrattuali dei dipendenti. Infine, questa presa di coscienza deve riconoscere come questo processo avvenga sempre, in ogni produzione e creazione di arte e intrattenimento, altrimenti non sarebbe più discorsiva ma situazionale;
  • La critica si sostanzia integralmente sul problema dell’etnia della protagonista, senza che venga estesa in modo strutturale a ogni altro processo artistico e comunicativo, ma esaurendosi esclusivamente su questo tema. In funzione delle varie letture possibili, si farà parte delle narrazioni dominanti reazionarie (secondo punto) o di quelle di resistenza culturale (primo), ma per chiarire il tutto rimando alla seconda parte dell’articolo.

L’affermazione del quarto punto è idealistica e priva di legami con il reale, perché nega o non riconosce le influenze strutturali e naturali che coinvolgono ogni genere di comunicazione (e quindi trasmissione di significato) umana. Non esiste espressione concettuale e materiale del pensiero che sia “totalmente libera e vergine”, ma è sempre regolata da numerosi elementi, tra i quali le risorse disponibili (Michelangelo ha bisogno del marmo per scolpire e crea in funzione di ciò che ha a disposizione); la concessione o il possesso delle risorse e dei mezzi di produzione (Michelangelo ha bisogno che il Papa gli conceda denaro e bottega, ossia tempo e spazio); la formazione culturale e personale o di gruppo pregressa (Michelangelo cresce nella Toscana del 1500). Inoltre, la comunicazione (all’interno della quale rientra l’espressione artistica) comprende sempre almeno un mittente ma anche uno o più destinatari, che reinterpretano e ricevono il messaggio in funzione di un contesto e di un codice, che possono cambiarne radicalmente il significato.

Di conseguenza, pretendere l’impermeabilità critica delle scelte Disney (e ciò vale per qualunque altra azienda e\o artista) in quanto fulgido esempio di autorialità è assurdo, dato che implicherebbe un’inesistente purezza e indipendenza creativa precedente alla pubblicazione dell’opera. Nel caso poi di una multinazionale che controlla a livello commerciale percentuali immense dell’immaginario collettivo occidentale (Indiana Jones, Marvel, Star Wars, Topolino, ecc.), un’affermazione simile non ha alcuno spazio di manovra. Tenendo conto di tutto ciò, volere libertà creativa assoluta per chi detiene mezzi di produzione, risorse e spazio, e nel mentre pretendere silenzio e implicita sottomissione per chiunque abbia una critica da muovere a chi crea è una prassi incoerente ed elitista.

LA CENSURA DISNEY

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In uno splendido articolo del 2016, Andrea Fiamma ci racconta delle pressioni e dei corposi investimenti da parte di Disney per mantenere il controllo assoluto sul brand e sul concetto stesso di Topolino, il simbolo forse più diffuso e conocsciuto della compagnia americana. Le storie raccontate in quel pezzo e nelle fonti citate sono terribili, perché ci mostrano un mondo della cultura e della comunicazione totalmente assoggettato alle logiche del profitto e dell’accumulo di capitali: le idee, la creatività e l’espressività umana vengono soppiantate dal diritto allo sfruttamento di un personaggio creato decenni fa; sono una distrazione e un fastidio per chi ha ottenuto il diritto di controllare culturalmente questo particolare concetto o mezzo espressivo (perché tali sono i brand e i personaggi che li rappresentano). Parodie, satira, reinterpretazione e critiche sono state combattute aspramente dall’azienda americana, per tutto il corso del secolo scorso e di quello in corso, con ogni mezzo possibile.

Questi processi e queste violente imposizioni sull’immaginario collettivo e sulla libertà del pensiero non hanno però coinvolto il pubblico, e non hannno generato lo stesso astio dei cambiamenti etnici di un personaggio o dell’assenza di figure femminili in un determinato film. Il contesto culturale odierno è talmente soffocato dal valore riconosciuto al rischio d’impresa e al diritto di proprietà che li considera sostanzialmente immutabili, principali attori e motivatori sociali dell’intero agire umano, nonostante abbiano pochi secoli di prassi egemonica sulle spalle.

Gli unici segmenti su cui riusciamo a formulare un pensiero critico sono dunque la legittimità o meno delle istanze di questa o di quella fazione, senza essere in grado di mettere in crisi la struttura stessa di queste logiche di trasmissione e mantenimento del potere mediatico. E se per Topolino, effettiva creatura originale di Walt Disney, i più mansueti e arrendevoli tra noi potrebbero chiudere un occhio, su tutti gli altri brand dell’azienda americana andrebbe combattuta una vera e propria guerra mediatica. Se domani questi critici o delle sostenitrici del cambiamento etnico di Ariel volessero smontare o supportare la scelta di Disney, magari con una loro personale produzione a tema “La Sirenetta” e metterla in vendita per recuperare l’investimento di tempo, probabilmente finiranno per dover pagare dei diritti a un’azienda america per un’opera ideata ai primi dell’800 da uno scrittore danese.

Immaginate che tristezza se un personaggio come Robin Hood, che ruba ai ricchi per dare ai poveri, fosse stato di possesso dei ricchi che impediscono ai poveri di parlarne… ma, per fortuna, almeno in questo caso c’è libertà d’espressione e parola.

Su favole, fiabe e miti come La Sirenetta, Robin Hood o la Cicale e la Formica esistono sterminate produzioni e creazioni sintomo dell’intelletto umano. Esiste una versione moderna della Sirenetta che deve convivere con l’inquinamento ambientale, così come quella della Cicala che crede nei suoi sogni e diventa una rockstar, mentre la Formica si suicida per precariato e depressione, o dell’Inghilterra ucronica di Robin di Luxley che viene invasa dall’Impero degli Inca, dei Maya e degli Aztechi (Luxley, di Valerie Mangin e Francisco Ruizgé).

Queste opere sono libere o perché nessuno è riuscito a circoscriverne i diritti (cicala e la formica, Robin Hood), o perché non vengono commercializzate direttamente e si distanziano enormemente dalla fonte originale (in fondo, la sirenetta di quel mare inquinato potrebbe essere una qualunque sirena).

Al contrario, opere straordinarie come La Cicala di Shaun Tan potrebbero non essere mai pubblicate se, invece che alla fiaba di Esopo, l’autore australiano si fosse ispirato a quella di Biancaneve dei fratelli Grimm, perché una volta commercializzate e immesse nel mercato internazionale dovrebbero adeguarsi a una serie di standard e principi stringenti e censori, come Disney e molte altre aziende hanno ampiamente chiarito nel corso del tempo.

La libertà di reinterpretare e riscrive il vecchio è fondamentale tanto quanto la possibilità di costruire il nuovo, perché è ripensando e analizzando il passato, presentandolo sotto nuove prospettive, che possiamo comprendere e immaginare un nuovo futuro. Tutto questo viene impedito dal controllo dell’immaginario collettivo da parte di chi ne detiene la proprietà, che sia per diritto acquisito o casualità varie ed eventuali.

In questo contesto, le rivoluzioni tecnologiche moderne avevano permesso anche ai più comuni e poveri mortali di sperimentare con opere e creazioni che un tempo avrebbero richiesto ingenti risorse e mezzi. Come la stampa di Gutenberg aveva espropriato i monasteri e le corti del controllo quasi totale della scrittura, così Internet e il Web 2.0 hanno aperto la strada alla libertà espressiva di coloro che un tempo sarebbero stati esclusi dal mondo della comunicazione o dell’arte, ma ovviamente è stato fatto di tutto per castrare queste opportunità: da un lato, dato che in questo specifico settore il possesso di certi mezzi di produzione non era più così determinante (si guardi all’animazione 3D o al videogioco indipendente), l’elemento rilevante è diventato il controllo dell’attenzione collettiva e del pubblico, espresso e cementato anche e soprattutto dal diritto di proprietà dell’immaginazione, ossia il copyright.

Ma non solo: si pensi ai recenti cambiamenti chiesti dalle grandi aziende internazionali sulle nuove modalità di controllo e pubblicazione algoritmiche previste dai social e dal web, che non avranno altra funzione che quella di castrare e strozzare la libertà espressiva dei meno potenti e ricchi.

IL DRAMMA DEL POLITICALLY CORRECT

Ricapitolando:

– se all’interno di un brand avviene una modifica dell’etnia di un personaggio su scelta della compagnia che lo possiede, si genera dibattito sui social e parziale astio nei confronti dell’azienda, rea di non aver lasciato i suoi creativi liberi di esprimersi, o addirittura sono le stesse artiste ad essere state annichilite dalle narrazioni del politically correct. Chiunque sia a favore viene descritto come un censore, perché spingendo per queste scelte si limita la libertà degli autori;

– se all’interno della stessa compagnia si cambia prospettiva politica per esigenze palesemente commerciali, ne si apprezza il cambiamento sovrastrutturale (rappresentazione) senza sottolineare che non ne avviene uno a livello strutturale (condizioni di lavoro, sfruttamento, ecc.). Chiunque sia contro viene descritto come un censore, perché spinge per scelte che limitano la libertà delle autrici;

– nel mentre, la stessa azienda, in virtù dell’acquisto di diritti e idee non sue ma riconducibili ad accordi ultradecennali, impedisce concretamente e in modo dimostrato e acclarato la libertà di espressione, parodia, critica, reinterpretazione e riscrittura di alcuni dei suoi brand. L’azienda non viene descritta come censoria, nonostante limiti la libertà di numerosi autori.

Cos’è dunque questo fantomatico politically correct, che minaccia con tale, violento e immenso potere i nostri bei film, i nostri cari videogiochi, i nostri preziosi fumetti? In sostanza, il politically correct è lo spauracchio che le attuali narrazioni dominanti (sia quelle reazionarie che quelle falsamente moderate) utilizzano per innescare, proprio come una fosse parola d’ordine, le reazioni della quasi totalità delle fasce sociali che riescono a raggiungere. Da un lato, si cerca di occupare la narrazione del reale di chi già di fronte a sé non vede un futuro, che sia per crisi economica, lavorativa, personale o sociale, e che quindi non vuole in alcun modo veder messo in crisi persino il suo passato, e quindi il suo sistema di valori, dalle istanze di chi vuole cambiarlo, anche solo nelle scelte estetiche dei cartoni animati, o nelle storie con cui è cresciuto.

Dall’altro, in chiave moderata, si focalizza l’importanza dell’intervento politico e culturale sulle sovrastrutture, proprio per proteggere invece quelle strutture che andrebbero condannate e superate, raccontando che il problema sono quelli lì, i disperati che non vedono un futuro, e convincendoci che la lotta si giochi su quali parti vengono rappresentate, e non sul chi decide chi, cosa e quando rappresentarlo.

In questo modo, ci dimentichiamo che la Barilla che oggi sponsorizza il Pride è la stessa che due anni fa diceva, per voce dello stesso Guido Barilla, di non voler mostrare famiglie gay nelle loro pubblicità. Allo stesso modo, Disney passa nella percezione comune da un lato all’altro della barricata con fluidità, ma solo perché in fondo è semplicemente quella che gestisce l’apertura o meno dei cancelli di questa realtà percepita, e noi ci muoviamo al ritmo del loro spartito, guardando al dito che indica la Luna.

Fino a quando la censura delle idee e del pensiero altrui da parte di un piccolo gruppo di potere e interessi genererà meno rabbia e frustrazione delle richieste di folte minoranze, la guerra tra poveri e deboli sarà l’unico campo di scontro culturale che ci verrà concesso.

È ovvio, dunque, che a quel punto le parti lo combattano con tutti gli strumenti che hanno a disposizione. Se quindi è chiaro che la vera riforma culturale da portare avanti sarebbe quella dell’assoluta libertà espressiva, dall’altro non si può certo pretendere che chi si percepisce come minoritario, mal rappresentato o danneggiato attenda in silenzio che questo cambiamento si verifichi, ma anzi è anche grazie alle pressioni che emergono da queste vicende che si aprono spiragli di dibattito, come accaduto con questo articolo.

Ovviamente, come raccontato in queste righe, avviene anche l’opposto, ossia un rafforzamento delle narrazioni che difendano i valori tradizionali, presentati in quanto tali come superiori. Tenendo dunque sempre a mente l’urgenza di dover ripensare il mondo della comunicazione e le regole in materia di libertà espressiva, non ci resta che combattere queste battaglie con i mezzi che ci sono concessi, e poiché coscienti del fatto che queste produzioni riproducono semplicemente i rapporti di potere percepiti dalle aziende, dobbiamo cercare di spostare l’ago della bilancia verso un punto di rottura, in modo tale da esporre in modo chiaro e netto il problema strutturale in seno a tutto il settore.