Sorelle, ultimo romanzo di Daisy Johnson, elabora la dinamica sororale in un gotico contemporaneo che ricorda e omaggia Shirley Jackson

“Mia sorella è un buco nero. Mia sorella è un tornado. Mia sorella è il capolinea mia sorella è la porta chiusa a chiave mia sorella è uno sparo nel buio. Mia sorella mi sta aspettando.” Con questo potente incipit inizia la storia di Settembre e Luglio, sorelle diversissime (da tradizione gotica che nasce forse con le sorelle Laura e Marian immaginate nel 1859 da Wilkie Collins) e simbiotiche dell’ultimo romanzo dell’autrice britannica Daisy JohnsonSorelle, appunto, pubblicato in Italia da Fazi Editore con traduzione di Stefano Tummolini.

Entrare nella storia di dolore e assenza scritta da Daisy Johnson non è di immediata facilità: Luglio, la sorella minore, quella debole, quella che fisicamente – come dice la mamma – somiglia alla nonna, in India, porta chi legge sul sedile posteriore di un auto; stanno traslocando da Oxford allo Yorkshire, dove le aspetta la casa di famiglia del defunto padre – “i capelli lisci, le guance morbide coperte di peluria bionda, gli occhi chiari come un animale delle nevi” che ha ereditato Settembre, la sorella maggiore forte e manipolatrice. Dal sedile posteriore dell’auto – guida la mamma, Sheela – Luglio e Settembre vedono la casa, si sentono la casa: “quest’anno siamo case, luci accese in tutte le finestre, porte che non si chiudono bene.” e – anche se le ragazze non lo sanno e non lo sapranno mai – anche Sheela “ha sempre saputo che le case sono corpi e che il suo corpo è una casa più di tanti altri.”

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L’elemento della casa – non è la prima volta che ne parliamo – è sempre stato fondamentale nel romanzo gotico ed è impossibile, per chi ne conosca i romanzi, i temi, lo stile, non pensare a Shirley Jackson L’incubo di Hill House, ma non solo – leggendo Daisy Johnson (che è stata anche finalista, proprio con questo romanzo, agli Shirley Jackson Awards). La casa in cui si muovono le due sorelle è una casa viva (ma morente), con odori, rumori, presenze e assenze che si aggirano tra le stanze. Luglio e Settembre – fuggite da Oxford dopo un incidente scolastico che le ha viste protagoniste – passano le giornate giocando a nascondino tra di loro, quasi che la vita vera, quella fatta di giornate che si susseguono, non riuscisse a varcare la porta della casa, quasi che la casa le tenesse al sicuro dallo scorrere del tempo.

Come scrive Holly Kybett Smith nel suo articolo Becoming the Thing That Haunts the House: Gothic Fiction and the Fear of Change per Tor.com: “questo è il concetto della casa gotica: una persona, una presenza, che diventa così attaccata al luogo in cui vive che, nel bene e nel male, non può sopportare di lasciarlo”, un rifiuto di abbandonare le mura che nasconde un rifiuto del cambiamento, una riluttanza nell’accettare che qualcosa – nella vita della persona che infesta ed è infestata – sia cambiato per sempre.

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A soffocare la paura del cambiamento in una routine casalinga di rituali di magia simpatica e pulizie domestiche è anche Mary Katherine Blackwood, protagonista di un’altra delle storie di case infestate di Shirley Jackson; sto parlando di Abbiamo sempre vissuto nel castello, ultimo dei romanzi pubblicati in vita dall’autrice, nel 1962. Mary Katherine – Merricat per la sorella Constance – si presenta da sola nell’incipit di questo romanzo breve ma indimenticabile: “Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott’anni e abito con mia sorella Constance. […] Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l’Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti.” Mary Katherine, che poche righe dopo ammette che “spostavamo di rado le cose, noi Blackwood: rivoluzioni e cambiamenti non sono mai stati il nostro forte”, ama la routine della vita da orfane: la spesa in città due volte alla settimana – parlando con meno persone possibile ma senza far percepire ai paesani la paura -, i pasti al tavolo della cucina, le verdure dell’orto, i piccoli oggetti della vita quotidiana – una zuccheriera con le rose dipinte, un bricco con un fregio di margherite gialle – che assumono per le due sorelle un valore ben più alto dell’argenteria o dei gioielli d’oro lasciati alla loro morte dai genitori e riposti con cura nelle loro stanze, immutate e immutabili.

Nel rapporto di amore e potere tra sorelle Merricat, la minore, è tra le due la più decisa a mantenere la pace domestica, a lottare aggressivamente contro ogni agente del cambiamento che possa bussare alla porta del suo castello. Merricat infesta il luogo in cui hanno vissuto e sono morti i suoi parenti più prossimi, tenacemente attaccata al presente – laddove il passato non le rendeva giustizia e il futuro non esiste e non esisterà mai, schiacciato dall’immobilità dei giorni che passano tutti uguali. Se nel romanzo di Johnson è la sorella maggiore, Settembre, a decidere dispoticamente per la sorella minore Luglio (Settembre dice e Luglio obbedisce, una dinamica che nasce come gioco e che ben presto gioco non sarà più), è però quest’ultima a restare intrappolata – fisicamente e metaforicamente – tra le mura della casa di famiglia, una casa piena di fantasmi che le impediscono di affrontare il cambiamento che le permetterebbe di liberarsi del passato.

E se in alcune narrazioni la fuga dalla casa permette alle protagoniste di liberarsi, in Abbiamo sempre vissuto nel castello e in Sorelle il cambiamento non verrà accettato e Luglio, Constance, Merricat e Settembre continueranno a infestare i loro luoghi, i loro pensieri, figure immobili al di fuori del tempo – diventate storie da ripetere sottovoce, diventate esse stesse fantasmi, monito dei rischi del restare immobili.

Angela Bernardoni
Toscana emigrata a Torino, impara l'uso della locuzione "solo più" e si diploma in storytelling, realizzando il suo antico sogno di diventare una freelancer come il pifferaio di Hamelin. Si trova a suo agio ovunque ci sia qualcosa da leggere o da scrivere, o un cane da accarezzare. Amante dei dinosauri, divoratrice di mondi immaginari, resta in attesa dello sbarco su Marte, anche se ha paura di volare. Al momento vive a Parma, dove si lamenta del prosciutto troppo dolce e del pane troppo salato.