In Giappone, il dibattito sui tatuaggi non si è mai davvero concluso

Tante cose ci siamo persi durante questo 2020, tra cui le attesissime Olimpiadi di Tokyo. In occasione anche di queste ultime, era tornato alla ribalta il discorso relativo ai tatuaggi e allo stigma che quest’arte subisce ancora oggi in Giappone. Numerosi atleti hanno simboli e immagini indelebili su parti visibili del corpo, che spesso hanno un significato legato all’evento per cui si sono allenati duramente per quattro anni oppure sono considerati come dei portafortuna per le gare. Lo stesso si può dire delle centinaia di migliaia di turisti che avrebbero affollato il Paese e che si sarebbero recati, presumibilmente, anche in luoghi tipici e suggestivi come gli onsen, i bagni termali.

tatuaggi giappone

È strano quindi constatare come i tatuaggi vengano tollerati quando si tratta di persone straniere, sulle quali sono considerati praticamente un accessorio, mentre se a portarli sono dei giapponesi, cominciano ad accavallarsi vecchie tradizioni, stereotipi e credenze ormai superate che portano però, ancora oggi, ad avere diffidenza e timore di uomini e donne tatuati. Il tutto è ancor più paradossale se si conosce la storia dei tatuaggi in Giappone, nati ben prima della loro appropriazione da parte della yakuza.

I tatuaggi in Giappone: origini e storia di un pregiudizio secolare

In Giappone si hanno riscontri di tatuaggi primitivi fin dall’inizio dei tempi: dall’era Jomon (ovvero più di 10.000 anni A.C.) sono stati rinvenuti manufatti in argilla dalle sembianze umanoidi, sui cui volti e corpi erano incisi dei motivi a corda che molti hanno interpretato proprio come tatuaggi. Si suppone che questi fossero simboli d’appartenenza a una delle numerose tribù che allora e fino all’epoca Kofun (dal 300 D.C.) popolavano le isole del Giappone, o che avessero un significato rituale o ancora che fossero considerati amuleti ed espressione grafica della personalità di chi li portava.

In particolare, poi, erano una pratica piuttosto diffusa tra gli Ainu, abitanti la regione più a nord dell’arcipelago, lo Hokkaido: nelle loro tribù, anche le donne si tatuavano, intorno alla bocca o sulle mani, in occasione del raggiungimento dell’età adulta o del matrimonio, oltre a servire per tenere lontane le malattie e i demoni. In questo periodo, però, ci furono i primi contatti con la Cina e la Corea che introdussero la scrittura e, soprattutto, il Buddhismo. Probabilmente anche a causa dell’assimilazione dei precetti buddhisti, i tatuaggi cominciarono ad assumere una connotazione negativa, da cui può darsi derivi quella attuale, nonostante più di un millennio e mezzo di distanza.

I visitatori cinesi registrarono, per la prima volta per iscritto, i primi segni di tatuaggi già nel 720 D.C., quando si cominciò a utilizzare il tatuaggio come vero e proprio simbolo identificativo della criminalità: man mano che questa pratica prese piede, sulla fronte dei criminali venivano tatuate linee orizzontali ogni qualvolta compivano un misfatto o, in altre zone dell’arcipelago, il kanji di inu, “cane”, cosicché la persona sarebbe poi stata ostracizzata dalla società, senza possibilità di redenzione.

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Tatuarsi di propria sponte, dunque, stava diventando una scelta non contemplabile, narrata nel modo più negativo possibile, anche affiancandovi concetti come la pietà filiale: la devozione verso i propri genitori e la famiglia fu uno dei tanti introdotti sotto l’influenza cinese, diventando parte di una mentalità che sarebbe durata per secoli a venire (ancora oggi è viva nella mente della scorsa generazione) e modificare il corpo che ti era stato donato sarebbe equivalso a una mancanza di rispetto nei loro confronti.

Il legame con la yakuza e l’illegalità

Non deve stupire dunque l’associazione avvenuta in seguito con la yakuza, l’organizzazione mafiosa giapponese. Tuttavia questa è avvenuta gradualmente, anche a causa di altri numerosi fattori, che non c’entravano solo con la criminalità. Ad esempio, nel periodo Edo (1603-1868) con l’avvento dello ukiyo-e, i tatuaggi si sono via via evoluti nei design che ancora oggi ammiriamo estasiati: creature del folklore come gli yokai, guerrieri samurai, animali riconosciuti per alcune loro caratteristiche di valore, fiori e altri elementi stagionali, elementi naturali come il fuoco o le nuvole, addirittura il Buddha erano i soggetti prediletti per queste opere d’arte, non più dipinte, stampate o incise su legno ma sul corpo, dagli stessi maestri della corrente ukiyo che utilizzarono anche gli stessi strumenti.

È bene notare, infatti, come si volesse distinguere già allora questi tatuaggi da quelli applicati sui criminali: la bellezza, l’arte e la capacità che richiedevano questi quadri su pelle non permettevano di considerarli semplici irezumi, il termine con cui si indica genericamente il tatuaggio in Giappone, ma horimono cioè “cose scavate, incise”, poiché eseguite con maestria e un preciso intento artistico, tant’è che si dice fossero anche indice del benessere di chi lo portava, soprattutto mercanti, che durante quest’epoca prosperarono.

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Oggigiorno, i tattoo artist giapponesi che utilizzano ancora la tecnica tradizionale del tebori (che vede l’utilizzo di una stecca di legno a cui vengono attaccati gli aghi, per poi incidere a mano) sottolineano questa particolare differenza, acquisendo anche il prefisso Hori- per il proprio nome d’arte, per accentuare l’artisticità e la professionalità del loro lavoro.

Per dar loro maggior risalto, ovviamente questi tatuaggi dovevano essere enormi e ciò tornava a vantaggio di coloro che volevano coprire i tatuaggi penali applicati sulle braccia o altre parti del corpo. Due cose fecero sì che il tatuaggio in Giappone diventasse infine parte di uno stereotipo culturale: la diffusione di un romanzo cinese, intitolato Suikoden, che dal 1757 divenne popolarissimo poiché raccontava la storia di 108 fuorilegge che, nelle stampe del libro, venivano raffigurati coperti di tatuaggi su tutto il corpo; quindi, la conseguente domanda da parte dei primi yakuza, le cui gang si formarono proprio a metà del periodo Edo.

Da qui in avanti, perciò, nascono sia il tatuaggio che quasi sembra vestire il corpo, lasciando scoperti collo, polsi e caviglie, che l’inchiostro di Nara, la cui particolare composizione diventa verde o blu una volta sottopelle. Ricoprire il corpo di immagini e motivi tradizionali per uno yakuza significava dar prova della propria forza, sopportando il dolore che comporta la tecnica tebori, e per sottoscrivere in modo permanente il proprio impegno nell’organizzazione e il proprio volontario allontanamento dalla società.

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A quest’ultimo aspetto, comunque, provvederà il governo stesso che, dal 1868, entrando in epoca Meiji, probabilmente per rinnovare l’immagine del Giappone agli occhi dell’Occidente, decise di rendere i tatuaggi illegali. Tuttavia, tale legge non si applicava agli stranieri e per questo i tatuatori di luoghi come Yokohama ebbero principalmente marinai e viaggiatori come clienti e, di fatto, proseguirono il loro lavoro quasi senza interruzioni.

Il tatuaggio assunse perciò negli anni un fascino proibito e segreto, poiché andava nascosto e celato ma al contempo rivelava la bellezza intrinseca del corpo umano, rispettandone le forme e la simmetria. In più assumeva una miriade di significati, sia dal punto di vista sociale che da quello prettamente artistico, ma anche quello fisico ed emotivo come ci viene mostrato, ad esempio, nel perverso racconto d’esordio di Jun’ichiro Tanizaki, Il tatuaggio.

Una lunga e severa battuta d’arresto ci fu quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, fino al 1946. Chi era tatuato era ritenuto indisciplinato e non incline al rispetto e alla vita militare che ormai si era chiamati a condurre per il bene del Paese. Inoltre, già da prima si pensava che il tatuaggio fosse una pratica per persone non acculturate, dei ceti più bassi, che il Giappone tendeva a voler nascondere. Tuttavia, quando poi il cinema si riprese i propri spazi, dopo un lungo periodo di propaganda nazionalista, cominciarono a diventare popolari i film che vedevano membri della yakuza come principali protagonisti, affermando così definitivamente l’associazione tra tatuaggi e illegalità.

Tatuaggi in Giappone: cosa succede adesso?

La situazione è rimasta pressoché invariata per diversi decenni. Il Giappone ha adottato sempre di più molti aspetti dello stile di vita occidentale e oggi, anche grazie alla crescente globalizzazione, sta tornando quella fascinazione per i tatuaggi e l’enorme significato simbolico e artistico che sono capaci di racchiudere.

Tanto più che il legame con la yakuza ormai è decisamente superato, in quanto l’organizzazione, già dal 1992 con le prime leggi antimafia, cerca di tenere sempre un basso profilo, pur agendo praticamente alla luce del sole, e i suoi membri ormai non si tatuano più (almeno non per i motivi di cui sopra). I tatuatori giapponesi cercano in tutti i modi di conservare la tradizione attraverso le loro tele umane, mettendo assieme immagini con samurai, geisha, dragoni, serpenti, peonie e tanto altro, con colori sempre più sgargianti col tempo che passa (cosa consentita proprio dalla tecnica tebori, che ha questo effetto rispetto al tatuaggio con macchinetta).

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Eppure il governo, ancora una volta, ha tentato di mettere un freno a tutto, imponendo già dal 1948 che i tatuaggi potessero essere fatti solo da qualcuno in possesso di licenza medica. Il caso più eclatante e recente riguardo questa legge è quello di Taiki Masuda: tatuatore professionista di Osaka, nel 2015 venne accusato per aver tatuato tre persone senza tale licenza, in realtà agendo come moltissimi altri tatuatori che hanno continuato a lavorare praticamente di nascosto. Il suo processo è giunto a conclusione proprio in questi giorni, con un esito inaspettato: la Corte Suprema ha stabilito un risarcimento per Masuda che, secondo il verdetto, non ha agito contro la legge in quanto il tatuaggio richiede capacità artistiche, diverse quindi da quelle richieste per atti legati alla medicina, annullando fondamentalmente la legge in vigore.

Un verdetto che, da qui in poi, anche in vista del recupero delle Olimpiadi e della ripresa del turismo internazionale, potrebbe cambiare le sorti dei tatuaggi in Giappone e, forse, allentare ancora di più quell’intolleranza ormai ingiustificata verso una forma d’arte che affonda parte delle sue radici in un Paese che ancora la ripudia.

Alessia Trombini
Torinese, classe '94, vive dal 2014 a Treviso e si è laureata all'università Ca' Foscari di Venezia in lingua e cultura giapponese, con la fatica e il sudore degni di un samurai. Entra in Stay Nerd nel luglio 2018 e dal 2019 è anche host del podcast di Stay Nerd "Japan Wildlife". Spende e spande nella sua fumetteria di fiducia ed è appassionata di giochi da tavolo, tra i quali non manca di provare anche quelli a tema Giappone.