“Ancora tu? Ma non dovevamo vederci più?”

È il 24 settembre 2007 quando va in onda la prima puntata di The Big Bang Theory, che porta una gradevole brezza d’aria fresca nel panorama delle sit-com, regalando la luce dei riflettori al mondo nerd forse per la prima volta su di un livello così “mainstream”, cambiando l’accezione del termine per sempre, e non necessariamente in positivo. Dieci anni dopo anche l’aria a Pasadena, California, è diventata viziata, e il ricircolo imposto dagli sceneggiatori nelle ultime stagioni non ha aiutato del tutto il telefilm a riemergere dal pantano in cui si era incagliato, ahinoi, da un bel po’ di tempo.

Chi vi scrive è innamorato perso della serie, intendiamoci. Le prime tre stagioni di TBBT sono, a nostro avviso, tra le cose più divertenti che la TV abbia proposto negli ultimi 15 anni, ma poi qualcosa è cambiato. La crescita dei personaggi troppo repentina e poco credibile, la sensazione che l’intero show si reggesse sulle spalle di Jim Parsons, a costo di snaturarne il personaggio, la trasformazione in macchietta di alcuni dei main character, hanno purtroppo stravolto un po’ lo spirito originale della serie, tornata ad essere “una delle tante”, che si trascina per inerzia, aiutata dagli ancora ottimi ascolti negli Stati Uniti.

Questa è la sensazione che ci ha regalato anche il primo episodio di questa undicesima stagione, soprattutto per quanto riguarda la banalizzazione dei personaggi, su tutti quello di Raj, un tempo uno dei più divertenti della cricca, trasformato in metrosexual effeminato prima e in piagnone solitario poi. Ma andiamo con ordine: la puntata si apre partendo dal cliffhanger della scorsa stagione, con la bizzarra proposta di matrimonio di Sheldon ad Amy che finalmente trova una risposta. Tralasciando il forzato cameo di Stephen Hawking, i momenti salienti delle sequenze con i due protagonisti sono state la telefonata con Leonard e Penny e la cena coi colleghi di Amy: troppo poco, tutto già visto.

Altra “bomba” della prima puntata ce la regalano Bernadette e Howard, con una notizia (a proposito, se non altro strappa un sorriso il relativo dialogo tra i due) che, se gestita bene, potrebbe portare qualche cambiamento alla serie, soprattutto se, come prevedibile, il piano dei due di coinvolgere Leonard e Penny andrà in porto. Si prosegue nella visione stendendo un velo pietoso su Raj che si umilia prima con la Dottoressa Nowitzki e poi con Stuart, confermando il discorso macchietta di cui sopra, e con la totalmente inutile scena di Leonard e Penny che dimenticano il proprio anniversario. Filler come se non ci fosse un domani.

Tenero il dialogo finale tra Sheldon e Amy, con uno sfizioso quanto a suo modo calzante paragone tra la loro situazione e… gli Avengers, sebbene proprio questo costituisca ulteriore testimonianza di quanto i riferimenti al mondo nerd (in questo caso, fumetto e cinecomics) siano più blandi e faciloni rispetto a quelli decisamente più ricercati delle prime stagioni. Ci torna alla mente, ad esempio, la gag col fluido non newtoniano, per non citare lo Sheldon vestito da Effetto Doppler a Halloween.

E gira e rigira è questo il problema più grave di The Big Bang Theory, a costo di risultare nostalgici: era una serie che, pur non avendo inventato nulla, si era imposta nel panorama delle sit-com come qualcosa di diverso, e quando per non risultare stantia ha tentato di rinnovarsi, lo ha fatto nella maniera sbagliata, ripetendo l’errore già commesso da How I Met Your Mother, rinunciando cioè alla propria identità per tentare di imporsi come la “Friends” di questi anni ‘10.

Cosa ci è piaciuto?

Qualche blanda novità, un paio di momenti sfiziosi, o teneri, ma non abbastanza da convincerci che la serie abbia fatto, con questa undicesima stagione, il cambio di passo che le serviva. Insomma, qualcosa ci è piaciuto, ma troppo poco.

Cosa non ci è piaciuto?

Il rovescio della medaglia del paragrafo precedente: constatare che The Big Bang Theory continua la sua parabola di invecchiamento, senza maturare né ringiovanire con spunti freschi o tornando alle proprie nobili origini. Personaggi macchiettistici e gag fin troppo pop, per quanto comunque divertenti, rendono questo show semplicemente una buona ma non eccezionale alternativa sulla vostra lista.

Continueremo a guardarlo?

La domanda da un milione di dollari: dipende. Se siete tra i fan della prima ora e avete resistito nonostante i passi falsi, si tratta presumibilmente delle ultime due stagioni. Essendo una comedy da venti minuti a episodio, tempo che probabilmente spenderemmo su Facebook, il sacrificio potremmo farlo, siamo sinceri, giusto per vedere come andrà a finire. Ma è probabilmente l’unico caso in cui lo consiglieremmo. Ci piange il cuore a dirlo visto l’affetto che ci lega alla serie, ma il mercato è saturo di alternative, e lo smalto perso dalla serie difficilmente verrà recuperato in futuro.

Gabriele Atero Di Biase
Diplomato al liceo classico e all'istituto alberghiero, giusto per non farsi mancare niente, Gabriele gioca ai videogiochi da quando Pac-Man era ancora single, e inizia a scriverne poco dopo. Si muove perfettamente a suo agio, nonostante l'imponente mole, anche in campi come serie TV, cinema, libri e musica, e collabora con importanti siti del settore. Mangia schifezze che lo fanno ingrassare, odia il caldo, ama girare per centri commerciali, secondo alcuni è in realtà il mostro di Stranger Things. Lui non conferma né smentisce. Ha un'inspiegabile simpatia per la Sampdoria.