“Io Tarzan, tu Reboot.”

La moda, quasi ossessiva, di Hollywood di rebootare in versione live action delle storie classiche, la maggior parte delle volte già viste anche in versione cartone animato Disney, continua inesorabile. Dopo l’ottima riedizione de Il libro della giungla ad opera di John Favreau (regista dei primi due Iron Man), ci prova anche David Yates, veterano della serie Harry Potter (di cui ha diretto ben 4 film), con The Legend of Tarzan.

Più che un reboot, però, la pellicola in questione rappresenta una sorta di sequel della storia che tutti conosciamo, quella nata dalla geniale mente di Richard Rice Burroughs. Sono infatti passati 8 anni da quando Tarzan, ora John Clayton III, ha lasciato l’Africa per andare a vivere in Inghilterra con sua moglie Jane. Il sovrano del Belgio, però, è deciso a sfruttare fino all’ultimo diamante le risorse minerarie del Congo ed invia un suo fido collaboratore, lo spietato Lèon Rom a contrattare con una tribù locale, esperta nell’estrazione delle preziose pietre. Il capo tribù ha un solo desiderio: farsi consegnare Tarzan, colpevole di aver ucciso suo figlio. Rom acconsente ed architetta un losco piano per attirare “la leggenda della giungla” nelle grinfie dei selvaggi. La giungla però non si è dimenticata di suo figlio e la furia della natura si scatenerà ancora una volta.

L’idea alla base del film non sarebbe nemmeno male: offrire una visione alternativa del mito di Tarzan, partendo ovviamente dalle sue origini, per mostrare una storia completamente nuova. La sceneggiatura originale di Adam Cozad e Craig Brewer, però, è il vero punto debole del film. I due, in fase di scrittura, cercano di strizzare l’occhio al classico immortale di Burroughs, inframezzando la narrazione con dei flashback sulle origini del mito. Roba vista e rivista e infarcita di clamorose cadute di stile, come il primo incontro fra Tarzan e Jane, con il selvaggio acconciato con dei perfetti dread-lock, completamente depilato e sbarbato e con le sopracciglia rifinite, nonostante abbia passato l’intera sua esistenza nella giungla, probabilmente tirato su da scimmie estetiste. Ma a parte questo, l’uso dei flashback è chiaramente veicolato dalla necessità di riempire i vuoti di un film che non trova mai un ritmo coerente e soprattutto convincente. Sono buttati tra una scena e l’altra quasi a caso, giusto per poter dire “Ehi ragazzi, stiamo facendo una roba nuova ma vedete? Parliamo del Tarzan che conoscete tutti!”.

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Poi, come se non bastasse, Yates satura lo schermo con un quantitativo veramente nauseante di CGI. Sembra non esserci niente di reale in questo film. La maggior parte dei set, escluse le scene negli interni, sono chiaramente digitalizzati ed anche la versione computerizzata dei vari animali, soprattutto delle scimmie, ha un che di artificioso, anni luce lontano dai sorprendenti risultati visti con la nuova saga de Il Pianeta delle scimmie. In questo trionfo di effetti speciali si cerca di riportare a galla i temi fondamentali dell’opera originale: la diversità, il razzismo dell’uomo bianco, il desiderio di affermazione in un gruppo, l’amore che supera ogni confine.

Peccato che la sceneggiatura continui a non imbroccarne una nemmeno quando il film sembra entrare nel vivo, anche per colpa di un cast di altissimo livello ma che lavora in maniera palesemente svogliata, va detto. Alexander Skarsgard è un Tarzan pessimo, che non riesce ad andare oltre i suoi addominali e quelle due espressioni contate che ogni tanto balenano sul suo visino da fotomodello. Margot Robbie cerca di essere una Jane sprezzante e fuori dagli schemi ed è il personaggio che, insieme a quello di Samuel L. Jackson, detiene il maggior numero di battutine che cercano di smorzare il tono drammatico della pellicola. Il fatto è che la maggior parte delle volte si tratta di battute e scenette veramente idiote, che stonano totalmente con l’atmosfera generale che il film dovrebbe avere (ah, quanti danni hanno fatto i Marvel Studios). E poi c’è il due volte premio Oscar Christoph Waltz, ancora una volta nel ruolo del villain stronzo e spietato, che non riesce a scrollarsi di dosso, ancora una volta, quell’atteggiamento da Hans Landa di tarantiniana memoria. Lui ci prova, ma finisce per essere risucchiato nella mediocrità generale della pellicola, anche per colpa di un minutaggio risicatissimo.

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Il resto del disastro lo compie proprio Yates con la sua regia spettacolarizzante e caciarona. Tarzan che combatte e corre costantemente in rallenty, che appeso a una SINGOLA liana riesce a attraversare chilometri di giungla e tuffarsi a peso morto da rupi alte centinaia di metri. Ma non è l’unico che nelle proprie scene d’azione riesce a rasentare la follia pura: vogliamo parlare della gigantesca mandria di gnu, evocata ovviamente dal buon Tarzan, che demolisce avamposti degli oppressori senza mancare, però, nella propria furia cieca di distinguere perfettamente i cattivi dai buoni, evitando attentamente di travolgere questi ultimi? Ecco, da tutto questo si evince che Yates non ha colto una semplice regola del reboot: nel momento in cui decidi di attuare una rivisitazione live action di un film, conosciuto prevalentemente per la sua versione animata al grande pubblico, devi essere in grado di restituire ad esso un minimo di realismo, per evitare quantomeno di incappare nel fantascientifico.

Si continua così per quasi due ore, che sembrano interminabili. Tra penzolamenti tra gli alberi, scimmie che ruggiscono, Tarzan che fa Tarzan ma con pantaloni attillati e camicia bianchissima e i continui ammiccamenti all’opera originale, che vengono a noia più o meno dopo una ventina di minuti. Un disastro fatto e finito.