Il caos della guerra

Con The Walking Dead ci siamo trovati più volte nella situazione di dover compiere una scommessa. Cercare di comprendere come si svolgerà la stagione in base alla prima puntata.

Questo, si potrebbe obiettare, è valido per qualsiasi altro show televisivo. Eppure con TWD è diventata una costante. Un primo episodio che sembra, alla fine della storia, non rispettare mai del tutto quanto accadrà in quelli che seguiranno, finendo poi per fuorviare lo spettatore. Questo perché ad una prima solitamente brillante corrisponde una serie di puntate fatte di nulla totale. E indovinate un po’? No, questa volta la season premiere non invoglia a proseguire nella visione.

In passato ci siamo chiesti se questo tipo di atteggiamento pagasse. Forse siamo noi a sbagliarci. Forse abbiamo sbagliato a credere fossero ridicole queste scelte di sceneggiatura e trama, in cui gli eventi vengono gestiti col contagocce e diluiti in un mare di niente e i personaggi si dimostrano sempre capaci di fare cose illogiche in un contesto post apocalittico (va bene, Tallahassee in Zombieland cercava delle merendine, ma non è la stessa cosa). Siamo giunti all’ottava stagione, quindi questa gestione, in termini di pubblico, paga.

Dopo una settima stagione sacrificata sull’altare dell’ottimo Neagan di Jeffrey Dean Morgan, e che sembra essere stata un lunghissimo preludio alla guerra che avrebbe opposto i Salvatori alle comunità di Alexandria, Hilltop e del Regno, finalmente ci siamo. La guerra è scoppiata. E viene gestita in maniera illogica e spesso confusionaria.

Ma non stiamo parlando di un episodio da buttare completamente. Così come è giusto e doveroso evidenziare le tante, troppe lacune di questo show, non si devono passare sotto silenzio alcune scelte di caratterizzazione dei personaggi e le idee che possono aver portato a una puntata che, a conti fatti, ha qualcosa di buono diluito in un mare di nulla. Parliamo di un tentativo di mettere in scena qualcosa di difficilissimo, forse al di sopra delle possibilità dello show. Un tentativo di fare televisione che, se da un lato può risultare lodevole, dall’altro resta solo questo. Un tentativo che non si è concretizzato con successo. Così come non è corretto fare processi alle intenzioni, non è nemmeno giusto assolvere qualcosa o qualcuno perché l’idea iniziale era ammirevole. Nota tragicomica. L’episodio viene dedicato alla memoria di George A. Romero. Forse il maestro degli zombie movies avrebbe preferito un altro genere di tributo.

Per cercare di riassumere il più velocemente possibile questa puntata, ci troviamo di fronte a tre filoni temporali distinti, incentrata su Rick. Il leader dei sopravvissuti di Alexandria viene mostrato situazioni molto diverse: al comando dei suoi uomini nel corso della guerra, in un momento di dolore con una serie di primi piani su di lui e, infine, molti anni dopo la fine della guerra coi Salvatori, in una mattinata tranquilla con i suoi figli e Michonne al suo fianco; quest’ultima con una fotografia apertissima. Sì: in The Walking Dead 8, una serie in cui una delle cose più lodevoli per sette altalenanti stagioni è stata la fotografia, si è deciso di smarmellare.

D’accordo, si vuole sottolineare la diversità tra questa situazione e quella della guerra, ma è difficile accettare qualcosa di così osceno. Il tipo di scelta per lo show di AMC non è una novità, quindi non si può pensare a un tentativo di trovare un espediente tecnico innovativo. Ci avevano provato già due stagioni fa, alternando a spezzoni in bianco e nero altre fasi a colori, e già allora la cosa aveva fatto storcere il naso a molti, segno che non si era trattato di un buon escamotage. Se il tentativo apparente è quello di mettere in scena una sorta di evoluzione del personaggio di Rick, più probabile è che lo scopo sia un altro: quello di sviare i lettori del fumetto di Kirkman, a conoscenza del risultato della guerra tra i Salvatori e le comunità guidate dal leader di Alexandria. Il modo in cui viene messa in scena la sequenza appare imbarazzante. Si vorrebbe, forse, portare tutto su un piano onirico, proprio per confondere le idee agli spettatori, portarli a domandarsi se quello a cui stiamo assistendo sia un futuro prossimo, un sogno di Rick o una sua fantasia, in contrasto con l’altra immagine, quello che lo vede addolorato e piangente sotto un albero, davanti a un’insegna di vetro colorato.

Ovviamente non è da escludere che il flashforward sia vero. Nel qual caso però ci troveremmo di fronte alla fine di un ciclo per The Walking Dead. Sarebbe la fine della serie come l’abbiamo conosciuta e, inevitabilmente, l’inizio di qualcosa di completamente diverso. Almeno se la volontà sarà quella di seguire, ancora una volta a grandi linee, quanto mostrato dal fumetto.

L’intera narrazione di questo primo episodio ci appare confusionaria. Si cercano di mettere insieme tante, forse troppe cose. Scene che sembrano essere un omaggio proprio a Romero (cosa che comporta una messa in scena degli zombie, finalmente, degna di nota in alcuni frangenti), riferimenti alla storia della serie e parallelismi con avvenimenti passati (Carl che sembra iniziare un percorso simile a quello del padre nelle prime stagioni), presente, futuri prossimi e alternativi. Il tutto perdendo di continuità, spiazzando lo spettatore e portandolo, spesso, a confondersi.

Il primo episodio di The Walking Dead, è quello che smuove maggiormente gli eventi della narrazione. La scelta usuale, quella che già in passato ci aveva portato a criticare la gestione della trama e della sceneggiatura, alternando a un ciclo di episodi privi di veri avvenimenti altri in cui vengono condensati fatti più importanti, non è mai stata nelle nostre grazie, ma questa volta si sceglie di fare peggio.

La season premiere di questa ottava stagione ci mostra il primo atto della guerra. Una guerra attesa, quasi agognata a partire dalla seconda metà della sesta stagione, forse anche da prima, quando venne per la prima volta fatto il nome di Neagan. Il focus dell’episodio è quindi Rick, il fatto che lui abbia scelto di andare in guerra, spinto dalla propria ira contro Neagan, complici l’omicidio di due suoi cari amici e le minacce alla sua famiglia. Il tema che dovrebbe però essere presente è anche quello della speranza. Iniziare una guerra, specie quando si è sopravvissuti all’Apocalisse, non è una scelta facile. Se si inizia uno scontro lo si fa per la speranza di un futuro migliore, perché debba esserci qualcosa di meglio per tutti coloro che vivnoo e coloro che nasceranno. E, almeno in questo, il discorso iniziale di Rick centra il concetto. Le tematiche ci sono. L’esecuzione, a livello di trama, è povera.

L’esempio portante è quello relativo alla parte centrale dell’attacco di Rick e i suoi al Santuario. L’intero leitmotiv della seconda metà della scorsa stagione è stato mettere insieme persone e risorse per arrivare a uno scontro ad armi pari e scatenare l’inferno. Il contrattacco delle comunità alleate contro il Santuario, dopo gli eventi del finale di stagione, è però gestito male. Il piano di Rick ricalca esattamente quanto visto sulle pagine del fumetto. Lui e gli altri sopravvissuti assaltano il Santuario, abbattendo le loro difese e facendo in modo che un’orda di morti si scateni contro le forze di Neagan per indebolirli. Uno dei modi di farlo è sparare contro le finestre del fabbricato in cui hanno trovato la propria sede i Salvatori, scatenando una pioggia di proiettili contro di esse. Sembra una buona cosa che gli eventi dell’opera originale siano stati rispettati. Potremmo lodare l’intero piano, la sua realizzazione e la messa in atto, ma dobbiamo ricordare che il merito è dello sceneggiatore del fumetto, non di quello della serie TV. Il vero problema è che il serial ha preso un’altra strada nella stagione precedente, tale da compromettere la validità di questo evento.

Una delle risorse più preziose nel mondo di The Walking Dead sono le munizioni. Questo, nella scorsa stagione, è stato detto fino allo sfinimento, di pari passo con quanto successo nel fumetto. La grande differenza è che nel fumetto i sopravvissuti sono riusciti a trovare un modo di produrre nuove pallottole per contrastare i Salvatori, cosa che nella trasposizione televisiva non succede. Eugene, unico sopravvissuto in grado di produrre nuove munizioni per quanto ne sappiamo, al momento è dalla parte di Neagan. Quindi le pallottole in questione sono del tutto sacrificate: si spara in aria per attirare l’attenzione, si spara alle finestre utilizzando un gran numero di munizioni. Ma ha senso far svolgere le cose esattamente come nel fumetto se la cosa cozza con gli avvenimenti e la logica delle precedenti stagioni? Francamente non sembra questo il caso.

Dove questo episodio pare poter donare nuova linfa vitale allo show è, come accennato, nelle tematiche. Alcuni spunti interessanti ci sono: abbiamo Carl, il cui modo di pensare sembra ormai stridere con quello del padre, che ha trovato un nuovo atteggiamento votato a una maggiore spietatezza; abbiamo l’evoluzione di padre Gabriel, che da vigliacco pronto a sacrificare la sua intera comunità si dimostra ora pronto a fare il contrario, mettendo in gioco se stesso per altre persone (cosa che, secondo la logica dello show, lo condannerà a morte molto presto). E questo si traduce in alcuni dialoghi che sembrano finalmente mostrare un senso, qualcosa che aiuta lo spettatore a trovare qualche momento d’interesse. Il confronto tra Rick e Carl a inizio pilot è lodevole, per fare un esempio.

Ma la domanda adesso diventa un’altra: basta qualche punto di forza per salvare l’intera puntata? Questo centesimo episodio di The Walking Dead sembra essere un paradigma della serie. Un modo di ricordare a tutti, spettatori fidelizzati e non, disillusi e fedeli, che questo è sarà per sempre The Walking Dead. Eventi interessanti diluiti, un brodo allungato oltre quanto consente il buongusto. Anche se in questo caso, più che di brodo, dovremmo parlare di minestrone.

the walking dead 8 premiere

Cosa ci è piaciuto?

La messa in scena degli zombie in alcune parti appare migliore che in passato; l’evoluzione di alcuni personaggi e i molti riferimenti al fumetto e agli episodi portanti della serie TV. La possibilità che si chiuda un consistente arco narrativo per la serie con la sua inevitabile rivoluzione.

Cosa non ci è piaciuto?

Il tentativo maldestro di mettere in scena più eventi, più linee personali diverse, che portano a un risultato pasticciato e spesso brutto da vedere (il flashforward di Rick). Eventi che, pur di ricalcare pedissequamente il fumetto, sconfessano buona parte delle stagioni precedenti.

Continueremo a guardarlo?

Questa volta no. Abbiamo resistito a lungo. Di aspettare settimana dopo settimana la messa in onda in attesa di qualcosa che cambi le carte in tavola, smuovendo gli eventi non abbiamo più molta voglia. Forse a fine stagione, con tutti gli episodi disponibili potremmo farci un pensierino.

Federico Galdi
Genovese, classe 1988. Laureato in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie, Federico dedica la maggior parte del suo tempo a leggere cose che vanno dal fantastico estremo all'intellettuale frustrato. Autore di quattro romanzi scritti mentre cercava di diventare docente di storia, al momento è il primo nella lista di quelli da mettere al muro quando arriverà la rivoluzione letteraria e il fantasy verrà (giustamente) bandito.