Ci meritiamo l’estinzione? Dinosauri, panda e foche risponderebbero di sì, ma che dire del nichilismo tutto umano di questa affermazione?

triceratopo estinzione

i ricordate – sembrano ormai passati secoli – quando nei cristallini e vuoti canali della laguna di Venezia nuotavano i delfini e noi, all’interno delle nostre case, spiavamo la natura là fuori prendersi spazi lasciati vuoti dai nostri lockdown? Vi ricordate di come un diffuso sentimento a metà strada tra il senso di colpa e la meraviglia si fosse fatto strada nei nostri cuori alla vista del cielo sopra la pianura padana – allentato il giogo del pendolarismo lavorativo – limpido come non mai? Avete ricordo, negli ultimi due anni, di aver sentito, o letto, la frase – più o meno in capslock – ci meritiamo l’estinzione?

Ci meritiamo l’estinzione è il mantra lavacoscienze più hip del momento: si presta bene al commento di quasi qualsiasi fatto di cronaca e non necessita di nessuna azione concreta per essere efficace, anzi, nel suo nichilismo lascia intendere che il fallimento della specie umana sia inevitabile – e allora tanto vale andarsene in grande stile, senza neanche provare a salvare la baracca. Un lasciapassare per la perpetuazione degli errori dell’umanità.

Del resto, già nel 1985 – durante un ciclo di lezioni tenute alla University of Glasgow Carl Sagan sottolineava che “Extinction is the rule. Survival is the exception” (l’estinzione è la regola, la sopravvivenza l’eccezione), e se è vero che i 200.000 anni passati dalla comparsa dell’Homo Sapiens sono niente rispetto agli oltre 80 milioni di anni di dominazione dinosaurica, sappiamo a priori che non possiamo vincere nessuna sfida contro i terribili lucertoloni, neanche quella di persistenza sulla Terra.

Ma quindi, meritiamo l’estinzione? Come spesso accade, la riflessione su questi temi attuali e pressanti viene accolta dalla narrativa speculativa, che mastica e digerisce le afflizione della contemporaneità ancora prima che questa si renda conto della necessità di riflettere sul dato tema. Nel corso degli ultimi sei mesi, in Italia, due esordi molto diversi hanno affrontato l’estinzione, lo specismo, la sindrome di Stoccolma che lega la specie umana alle altre specie del pianeta, usando un impianto distopico con punte di speranza che vanno a stemperare un plausibile fin troppo reale.

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Contrappasso (HarperCollins Italia), esordio romanzesco di Andrea Delogu, dipinge un mondo di sopravvissuti in cui gli animali sono nemici, pericoli, bombe inesplose in grado, con la loro solo presenza, di minacciare la vita degli esseri umani. Succede un giorno, nel mondo immaginato da Delogu, che – dantescamente – ciò che una persona infligge a un animale, si ripercuota all’istante su di essa. Calpestare una formica significa morte truculenta e immediata, per non parlare di luoghi che di morte sono intrisi, come mattatoi e allevamenti intensivi. “La natura” sostiene la protagonista, Sara, “li aveva ripudiati e loro non avevano fatto tesoro degli errori commessi” continuando a tenere in piedi un sistema di prevaricazione che, non potendo più sfruttare le specie animali, si introflette verso la propria specie. In Contrappasso, che è il migliore dei romanzi della pandemia possibili per il suo modo intelligente di parlare di ciò che abbiamo recentemente vissuto – città vuote e strade deserte, la pericolosità di un abbraccio, figure politiche a cui affidarsi come ci si affiderebbe a una persona di famiglia, mentre le famiglie di sangue o di elezione si sfaldano – il regno animale mette in atto una sottile vendetta nei confronti della specie dominante. “Ora che siamo alla pari, come qualsiasi altro animale, veniamo trattati come qualsiasi altro animale” ovvero sfruttati, allevati, macellati, come sfruttati, allevati, macellati, sono i subumani di Chiara Castello, che per il suo romanzo d’esordio Come volano le api (le plurali) immagina un futuro lontano che – perché no – potrebbe essere il nostro, in cui una nuova specie di esseri umani – chiamati subumani – viene allevata per fini di sperimentazione e per essere cacciati altri esseri umani ben più crudeli – quelli che noi chiamiamo nostri simili.

Seppur scritto prima della pandemia, anche in Come volano le api si trovano, sullo sfondo, epidemie e ribellioni della natura – e del resto Spillover, di David Quammen, è stato pubblicato in Italia nel 2014 e il fatto che nessuno si sia interessato agli effetti dell’antropizzazione coatta degli ambienti naturali fino al 2020 non significa che tali meccanismi non fossero già in azione, né che le idee non girassero già nella mente di chi crea mondi tra le pagine.
Se in Contrappasso gli animali hanno un ruolo passivo, a favore degli intrighi scientifici e politici di una società che continua a provare a stare a galla, in Come volano le api la natura ci parla – dalle pagine di un vecchio libro letto dalla protagonista – ed è più incazzata che mai: “Tutto quello che volevamo era vivere. […] Ma voi non ce l’avete permesso, voi volete sempre di più. Volete il pelo quando avete l’erba e il sangue quando avete il pelo. Come pulci sulla nostra pelle, succhiate più che potete.” È la natura che parla, sono le specie animali, sono quelle forze che smettono di scappare dalla crudeltà degli uomini e delle donne e tornano indietro “di corsa. A zanne scoperte. Verso il nostro aggressore.”

Anche nella società di Chiara Castello, nel momento in cui la natura si ribella alla sottomissione, la specie umana si accanisce sui suoi simili – disumanizzandoli per rendere meno atroce la violenza perpetrata – in nome della sopravvivenza. Carla, la protagonista di Come volano le api, si chiede “perché non distruggere tutto […] uccidere tutto finché non rimangano più vittime, né carnefici”, proprio come Sara, in Contrappasso accusa la mater-patria Ava di aver reso gli umani “schiavi, diffidenti, privi di empatia. E pensa” domanda alla donna politica “che una specie così abbia futuro? Un qualche diritto di esistere?”

Ce la meritiamo, insomma, l’estinzione?

Se in Contrappasso la domanda resta senza una risposta – o meglio, la risposta è nelle mani di noi che leggiamo – in Come volano le api una parziale, intima, risposta arriva dalla conclusione della storia di Carla – che non è la fine di un sistema di oppressione e sfruttamento, ma una crepa da cui filtra quell’essenziale empatia. “Il mondo non è nostro.” scrive Chiara Castello “ci piace illuderci che lo sia per giustificare quello che ne facciamo, ma non è così. Siamo la specie dominante, ma siamo una specie tra le altre.” Un’affermazione che riecheggia del comunismo pan-specie  – la cui idea di base è che “tutte le specie sulla terra siano state create uguali” – promulgato da Mike Evans ne Il problema dei tre corpi di Liu Cixin, che porta il concetto di ci meritiamo l’estinzione oltre i confini del sistema solare.

Se ci meritiamo l’estinzione come specie – se sia giusto entrare a far parte della regola, smettere di essere un’eccezione – dovremmo forse chiederlo alle altre specie (la risposta, in questo caso, ce l’ha data Stefano Benni trent’anni fa con La compagnia dei Celestini: “Tra tutti gli animali l’uomo è quello che corre il maggior pericolo di estinzione. Perché mentre noi ci preoccupiamo di proteggere i panda e le foche, i panda e le foche non si preoccupano di proteggere noi, anzi vivamente sperano che ci estinguiamo con tutte le nostre atomiche, pesticidi, defolianti, petroliere e villaggi vacanze.”) o perlomeno fare lo sforzo di separare la fine del mondo con la nostra fine.

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Quando ci lanciamo in invettive contro la nostra stessa specie, quando auspichiamo la fine della nostra supremazia, lo facciamo come atto performativo, senza crederci veramente, perché il nichilismo è sempre più facile dell’alternativa, ovvero cercare di cambiare una società che rende la nostra vita comoda, libera da rischi e decisioni da prendere. “Pur di non rinunciare al superfluo” scrive Andrea Delogu “avevamo perso l’essenziale”. E, tutto sommato, mentre noi rincorriamo il superfluo, preferendo forse l’estinzione alla prospettiva di modificare il nostro stile di vita – mentre i panda, e le foche, festeggerebbero la nostra scomparsa – mentre ci domandiamo se un triceratopo abbia mai pensato di meritare di scomparire dalla crosta terrestre – è proprio al romanzo più famoso di Michael Crichton che dovremmo guardare in cerca di risposte – o almeno per rimettere in prospettiva i nostri ipocriti mea culpa.

“Siamo chiari.” ci ammoniva il matematico Ian Malcolm nel 1990 dalle pagine di Jurassic Park “Il pianeta non è in pericolo. Noi siamo in pericolo. Non abbiamo il potere di distruggere il pianeta: o di salvarlo. Ma abbiamo il potere di salvare noi stessi.” E io, ancora, non ho molta voglia di fare la fine del triceratopo.

Angela Bernardoni
Toscana emigrata a Torino, impara l'uso della locuzione "solo più" e si diploma in storytelling, realizzando il suo antico sogno di diventare una freelancer come il pifferaio di Hamelin. Si trova a suo agio ovunque ci sia qualcosa da leggere o da scrivere, o un cane da accarezzare. Amante dei dinosauri, divoratrice di mondi immaginari, resta in attesa dello sbarco su Marte, anche se ha paura di volare. Al momento vive a Parma, dove si lamenta del prosciutto troppo dolce e del pane troppo salato.