Un climax di sfortunati eventi.

Quando lo scorso anno ci siamo trovati a guardare questa nuova trasposizione dei libri di Lemony Snicket (aka  Daniel Handler) Una serie di sfortunati eventi, è stato quasi impossibile nascondere di essere partiti con un immagine precisa in mente: quella di un colosso del grande schermo come Jim Carrey e del suo Conte Olaf, un personaggio che, seppur limitato a un’isolata comparsa nel mare magnum Hollywoodiano, era riuscito a entrare nell’immaginario collettivo per l’indiscussa abilità del proprio interprete.

Ci è stato impossibile non avere sempre nella mente e davanti a gli occhi l’interpretazione di Carrey. Poi, andando avanti nella visione, qualcosa è cambiato. Poco alla volta il Conte Olaf di un interprete di valore come Neil Patrick Harris ci ha conquistato, dando un’ultima poderosa picconata ai nostri dubbi nel momento in cui il paragone con il suo ben più quotato collega non era più possibile, con gli episodi 7 e 8 della precedente stagione.

Eppure, giunti a quel punto, nonostante l’elevato apprezzamento siamo infine giunti a un’altra consapevolezza: avremmo aspettato al varco questo nuovo Conte Olaf nella prossima stagione. Avremmo aspettato tutti gli interpreti della serie Netflix diretta da Barry Sonnefeld al varco.

E indovinate? Questa seconda stagione di Una Serie di Sfortunati Eventi, libera da paragoni scomodi si è dimostrata migliore della precedente. La nostra strana, piccola serie Netflix ha fatto i compiti, smesso di paragonarsi al fratello maggiore e finalmente ha raggiunto la maturità.

Una scolarizzazione Snervante.

Se con la scorsa stagione avevamo lasciato i giovani Baudleire ad attendere di poter avere un colloquio in una scuola privata dai toni e dalle strutture cimiteriali, possiamo finalmente dire che il tempo speso sembra essere stato ben ripagato.

Il nuovo ciclo di dieci episodi copre dal quinto al nono libro della serie di Snicket. Come nella scorsa stagione a fare da collante all’intero episodio è sempre lo stesso Lemony, interpretato da un azzeccatissimo Patrick Warburton, raccontandoci le vicende dei tre orfani, perseguitati dal perfido Conte Olaf mentre cerca di accaparrarsi la loro fortuna.

Il classico schema dello show, ripreso a piene mani dai libri e già visto nelle precedente stagione, sembra inizialmente ripresentarsi anche in questo nuovo ciclo di episodi. I Baudleire vengono affidati a un parente, legato a una misteriosa organizzazione di cui hanno fatto parte anche i genitori, prima che Olaf scombini tutto presentandosi alla porta di casa con un nuovo travestimento e un piano malvagio ideato apposta per tormentare i tre orfani.

Eppure, già dai primi episodi, qualcosa sembra cambiare. Con il primo episodio diventano parte integrante della show i due fratelli Quagmire (tradotti come nei libri Pantano), anche loro divenuti orfani e privati di un gemello da un misterioso incendio. Sembra cosa da poco, ma le vicende dell’organizzazione segreta di cui hanno fatto parte anche Olaf e lo stesso Snicket diventano ora parte attiva della vicenda, molto più di quanto non lo fossero in passato. I VDF (o VF) restano quindi sullo sfondo, venendo poco alla volta svelati dalle vicende che accompagnano i Baudleire, sempre più consapevoli di quello a cui stanno andando incontro.

Sembra poco ma la prospettiva si amplia in maniera incredibile.

Al tentativo di entrare in possesso della fortuna dei Baudleire si unisce quello di mettere le mani su quella dei Quagmire, con cui il conte sembra avere maggiore fortuna nel rapirli. E Olaf si mostra più machiavellico, più organizzato e capace. L’immagine del cattivo pasticcione, verso cui lo spettatore sembra persino capace di provare empatia, viene poco alla volta superata, arrivando ad essere demolita. Perciò se da un lato gli orfani dovranno sventare i piani del Conte per impadronirsi della loro eredità, dall’altro dovranno anche trovare un modo per aiutare i loro nuovi amici. E, sullo sfondo, i misteriosi VFD, su cui gli indizi all’interno della serie continuano a moltiplicarsi, ampliando un’intrigante sotto-trama che nella prima stagione era solo stato abbozzato. Di sicuro il tutto è aiutato dall’ottima interpretazione di Nathan Fillion, qui nei panni di Jacques Snicket, fratello di Lemony, che riesce a tenere in piedi quasi da solo l’intero arco narrativo parallelo sviluppatosi a partire dal terzo episodio.

Quello che era uno dei difetti principali dello show, ovvero lo schema classico che vedeva i Baudleire affidati a un tutore, sventare i tentativi di Olaf di adottarli per prendersi la loro fortuna e cambiare ancora una volta l’affidatario viene definitivamente sovvertito a metà stagione, con l’arrivo degli orfani del Vile Villaggio, aprendo nuovi scenari e nuove prospettive per una serie che, pur impeccabile sotto il profilo tecnico (fotografia sempre coerente con i toni del libro e regia di Sonnefeld sempre sul pezzo), richiedeva agli spettatori una forte sospensione dell’incredulità e una certa capacità di non badare troppo alla ripetitività.

Possiamo quindi dirlo con gioia: questa seconda stagione è riuscita a superare la prima e a migliorare lo show, riuscendo a spazzare via anche gli ultimi dubbi che poteva nutrire nei confronti dell’intero sceneggiato, facendo accantonare (accantonare, mai dimenticare) il suo corrispettivo cinematografico.

E questo non solo a livello di trama: anche la resa sullo schermo del mondo creato a Lemony Snicket appare migliorata e più convincente. I colori smorti degli ambienti a cui fanno da contrasto alcune sparute note di colore, la bellezza e l’illogicità di certi personaggi, i dialoghi perfettamente trasposti capaci di creare un vero e proprio universo parallelo contribuiscono a realizzare uno spettacolo inusuale e, proprio per questo, degno di nota a apprezzabile.

Soprattutto le ambientazioni sembrano toccare delle nuove vette: tra tutte, ci sentiamo di sottolineare gli interni dell’Ostile Ospedale, capaci di dare un nuovo significato alla parola “malasanità”.

Un coro caleidoscopico.

Se trama, fotografia e sceneggiatura sono riusciti ancora una volta a convincerci, una menzione tutta loro meritano personaggi e interpreti. Il livello della recitazione è sempre elevato e capace di dare allo spettatore qualcosa di molto piacevole da guardare.

Ancora una volta è però impossibile non iniziare parlando dell’Olaf di Harris. Salutato il convitato di pietra costituito dall’interpretazione di Carrey, l’attore noto ai più per essere stato Barney di How I Met Your Mother sembra ora capace di dare libero sfogo alla sua creatività in un terreno completamente nuovo. Il difficilissimo scoglio da superare per poter interpretare il Conte Olaf è quello di mettere in scena personaggi diversi cercando di non distaccarsi mai dal modello principale del villain della saga, quello del commediante fallito ed egocentrico.

Quello che appare chiaro è che Harris si sia divertito molto nel dare vita ai diversi personaggi di Olaf e, nel farlo, riesce a divertire anche noi, ma aggiungendo al tutto un tocco in più, quello capace di donare al personaggio quel tocco di malvagità in più che sembrava essergli mancato nel corso della prima stagione.

Si tratta di un processo lento, che giunge a pieno compimento solo negli ultimi due episodi, ma che mostra anche quella che potremmo definire una maturazione dell’interprete, capace di essere meno se stesso e più personaggio.

Il Conte Olaf non è però l’unica nota positiva di questa stagione. Attorno a lui gravitano una serie di personaggi interessanti e capaci di trasmettere allo spettatore un sincero divertimento nell’osservarli e nel seguire il loro sviluppo. Tra questi spicca Jacques Snicket, interpretato da un Nathan Fillion in grande spolvero, capace di dare al personaggio uno spesso maggiore di quanto potessimo aspettarci.

Chi ha seguito la carriera di Fillion lo sa, al momento di mostrarsi charmant e un po’ farfallone riesce sempre a dare il meglio di sé. Se a questo aggiungiamo i trascorsi sullo schermo proprio con Harris (se non avete ancora visto Dr. Horrible’s Sing-Along blog dovreste subito correre ai ripari) e l’innegabile chimica presente tra i due non si può che apprezzare la messa in scena dei confronti tra i personaggi di Olaf e Jacques, col secondo che non sembra ancora del tutto pronto a considerare l’amico di un tempo come un avversario, nonostante faccia tutto ciò che è in suo dovere come Volontario per fermarlo.

Quello che colpisce della serie televisiva è la capacità di dare il giusto risalto e la giusta dimensione a tutti i comprimari che girano attorno ai Baudleire e al Conte Olaf. Ogni singolo personaggio dimostra di essere stato studiato e trasposto nel migliore dei modi, talvolta riuscendo anche a migliorare quanto era stato soltanto abbozzato da Handler nei romanzi. Risulta quasi impossibile restare indifferenti di fronte al Vicepreside Nero o davanti al miope Hal.

Meritano una menzione anche le nuove interpreti femminili di questa stagione. La bibliotecaria Olivia Caliban, personaggio assente nei romanzi e creato ad hoc per la serie, interpretata da Sara Rue, si dimostra un’aggiunta interessante al cast, capace di essere la spalla adatta per Fillion nel corso della storyline che li vede impegnati nel tentativo di salvare i trigemini Quagmire sopravvissuti. Un personaggio che può essere percepito come “usa e getta” forse, ma che mantiene un proprio scopo e una propria funzione all’interno dell’intero arco narrativo. Maggior risalto ha poi l’Esme Squallor interpretata da Lucy Punch, in grado di diventare una vera e propria controparte femminile del Conte Olaf. E poi lei, Carmelita Spars, l’irritante ragazzina messa in scena dalla giovane Kitana Turnbull, capace di farsi odiare dallo spettatore sin dalla prima visione. Il desiderio di ogni spettatore sano di mente, dopo pochi istanti, è quello di dare fuoco alle sue scarpette da tip-tap.

Verdetto

A questa seconda stagione di Una serie di sfortunati eventi spettava il compito non facile di migliorare quanto era stato fatto nella prima. Compito che viene portato a termine, mostrando una maturazione sullo schermo da parte degli interpreti e dello stesso show che, ormai del tutto svincolato da scomodi paragoni cinematografici, riesce a far comprendere meglio la propria idea dei romanzi di Handler. Nuovi e vecchi personaggi si mescolano in una trama che, seguendo la traccia imposta dai libri, riesce a superare i propri limiti di sceneggiatura, rinnovandosi e dando agli spettatori uno spettacolo degno di essere guardato.

Federico Galdi
Genovese, classe 1988. Laureato in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie, Federico dedica la maggior parte del suo tempo a leggere cose che vanno dal fantastico estremo all'intellettuale frustrato. Autore di quattro romanzi scritti mentre cercava di diventare docente di storia, al momento è il primo nella lista di quelli da mettere al muro quando arriverà la rivoluzione letteraria e il fantasy verrà (giustamente) bandito.