Amsterdam di David O. Russell è un’opera ibrida impigrita tra comedy e thriller

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ll’inizio degli anni Dieci c’è stato un biennio che pareva sorridere a qualsiasi cosa David O. Russell facesse. Prima The Fighter, con il quale il regista ha portato all’Oscar Christian Bale, poi Il lato positivo, dove l’Oscar è toccato invece a Jennifer Lawrence, e infine American Hustle, film magari contestabile ma quantomeno brioso.

Nel 2015 arriva Joy, ancora con Jennifer Lawrence, opera stroncata dai più che ha decretato poi un ritiro di Russell dalla scena cinematografica. Perlomeno fino a oggi, dove lo vediamo tornare sulle pagine della sceneggiatura e dietro la macchina da presa con Amsterdam, presentato in Italia in anteprima alla 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma.

Per questo suo nuovo approdo sotto le luci della ribalta l’autore sceglie un period drama che si trova però anche appeso a metà tra la comedy e il thriller. Vuole accaparrarsi prima un pezzetto di storia vera, quello del poco noto e ipotetico colpo di stato che si sarebbe dovuto mettere in atto negli USA in favore del nazionalsocialismo (il Business Plot), intessendogli attorno un fitto intrigo politico e criminale all’interno del quale rimangono impelagati alcuni individui ai limiti del grottesco.

Nel crocevia delle vicende ad essere invischiato è l’anomalo – nelle intenzioni – trio composto dagli acciaccati veterani Burt (Christian Bale) e Harold (John David Washington) assieme alla lunatica infermiera Valerie (Margot Robbie), formatosi dopo gli eventi della Prima guerra mondiale proprio nella città olandese che dà il nome al film. Le loro vite si separano su strade differenti salvo poi ritrovarsi anni dopo in occasione di alcune strambe coincidenze, chiamati ora a trovare il bandolo della matassa.

E già qui pare scricchiolare la struttura di un’opera che vuole porsi fin da subito come una frenetica giostra di personaggi, nomi e volti lanciati in pasto a una messa in scena in costume dove le cose migliori che la pellicola ha da offrire sono proprio le attenzioni tecniche per la ricostruzione dei climi, del vestiario, delle scenografie della New York dei primi anni Trenta dove Amsterdam è principalmente ambientato.

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Per un momento, a guardare solo al modo in cui lancia dentro al film il suo ampio parterre di interpreti (Robert De Niro, Rami Malek, Zoe Saldaña, Anya Taylor-Joy, Chris Rock, ecc.), pare di trovarsi in uno degli arazzi sempre più corali di Wes Anderson. Di Anderson però il film non ne contiene né la raffinatezza dell’impostazione né il rigore nel dosare il modo in cui queste facce compaiono per pennellare qui e lì il quadro.

Certo, Russell vuole fare tutt’altro, ovvero puntare su uno humor stralunato da contrapporre a una costruzione da giallo vissuta come un accidente piombato per caso nelle vite dei tre improbabili protagonisti. Non ci riesce, per due ragioni. Il primo motivo sta nella totale mancanza di mordente di una storia che rimane confusa dall’inizio alla fine, annacquata dal costante voice over del personaggio di Burt che cerca di accompagnare lo spettatore volendogli far credere nella complessità labirintica di un corridoio che invece è una linea retta tracciata da un punto A ad un punto B senza particolari ostacoli.

Nel mezzo prova ad offrire un minimo di contestualizzazione utile da sfruttare in sede di battuta finale (lo storico rigetto degli Stati Uniti nei confronti dei propri veterani di guerra), ma è disarmante la maniera in cui Amsterdam arrivi dopo due ore e un quarto a una morale sbandierata con tale pigrizia da lasciare sbigottiti.

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Il secondo motivo sta nella formula che dovrebbe fare se non da altro peso della bilancia perlomeno da tappa buchi, ovvero quella linea di ironia allucinata che offre davvero poco al di là di alcuni momenti di commedia quasi slapstick, che eppure conducono alla risata più per inerzia che per acutezza. Nel ricco cast di cui il film si fregia non c’è un personaggio che rimanga impresso per più di cinque minuti dopo il termine della proiezione, praticamente tutti fiaccati dall’insistente carattere on the nose di una sceneggiatura che più procede verso la risoluzione, più si stringe in un imbuto di incredibile banalità.

Non convince nemmeno il terzetto che ci accompagna lungo le strade di una Grande Mela dove agiscono le forze occulte dell’alta società (occulte anche allo spettatore), amalgamato con la forza dell’insistenza dello script («the pact is the pact») e freddo, poco empatico, diretto anche abbastanza male e dove persino il talento di un interprete come Bale, la bussola del film, vaga un po’ a vuoto.

Anche a volerci cercare dell’innocuo intrattenimento il tentativo è a dir poco arduo, azzoppato da questa pallida natura ibrida dove il farsesco pende sul collo come una spada di Damocle, inconsistente nel contenuto, quasi infantile nel grande “volemose bene” che Amsterdam va ad apporsi sul petto come chiosa finale.

Alessio Zuccari
Laureato in Arti e Scienze dello Spettacolo all'Università Sapienza di Roma, al momento prosegue lo studio accademico del mirabolante mondo del cinema. Nel fare equilibrismo tra film, videogiochi e serie TV, si interessa pure attivamente alla sfera della critica cinematografica facendo da caporedattore per la webzine studentesca DassCinemag e autore all'interno delle redazioni di IGN Italia e StayNerd. Crede in poche cose, una di quelle è la Forza. This is the way.