Dopo un festival incolore, Kenneth Branagh ci viene in soccorso con la sua Belfast. Una pellicola delicata che ci rassicura e ci mostra l’amore per il cinema

Belfast, 1968.
La città insorge.
C’è una spaccatura che si sta dilatando sempre di più. Il vociare aumenta, la gente corre, le urla si alzano, i fuochi si accendono e i vetri si infrangono. I protestanti vanno a caccia dei cattolici e Troubles stanno per vedere la luce.

Kenneth Branagh ci porta nella sua città natale per mostrarci la guerra civile dal punto di vista di un bambino. Il bianco e il nero divorano lo schermo, tutto si fa candido, in questo gioco di luci, come nei sogni di Bobby.
Lui ama stare in compagnia, è un bravo bambino, studia matematica ed è innamorato. Bobby ha una buona famiglia, con il papà sempre fuori per lavoro, una mamma che pensa a tutto, e i nonni pronti a rincuorarlo per ogni cosa.

La vita di Bobby è semplice e felice e, probabilmente, sarebbe stata sempre quiete e morigerata se non fossero insorti i protestanti. Sì, perché gli scontri, per quanto possa essere assurda la vita, iniziano tra gli stessi cittadini irlandesi. Sangue contro sangue. Il motivo? La fede religiosa. La stessa fede che professa la famiglia di Bobby, ma che gli permette tranquillamente di vivere con le altre famiglie cattoliche. A lui va bene, ma a molti altri no.

Belfast è una pellicola particolare, con una chiara chiave artistica che viene perseguita dal regista pluridecorato. È lineare e si articola quasi esclusivamente in 3 set, quasi a voler ribadire quanto fosse magicamente monotona una città per un bambino di 8 anni. Sempre gli stessi posti e le stesse persone, ma a lui non importava, l’unica cosa che contava era vivere.
Branagh ci vuole mostrare la vita attraverso gli occhi dell’infanzia, tra i sogni di potersi sedere al primo banco, l’andare al cinema tutti insieme e il timore di dover scappare di nuovo dalla strada dietro le barricate.

La scelta di porci una visione totalmente in bianco e nero non è fine a sé stessa. Riprende ovviamente un filone neorealista ormai sopito e, conseguentemente, permette di proiettarci più facilmente nell’epoca storica, ma l’artificio più affascinante adoperato dal regista è il contrasto cromatico che avviene con l’arte visiva. I nostri protagonisti vedono la luce al cinema, al teatro. I loro occhi si colorano di tavolozze pregne di blu, rossi e gialli, riuscendo, per quei pochi secondi, a fuggire da una vita che pian piano li sta consumando.
Belfast è tranquilla, monotona e pacata. L’unico modo per accenderla è il fuoco della rivoluzione.

Con questa pellicola Branagh ci dimostra il suo amore per il cinema e la dona a tutti quegli amanti della settima arte che, almeno una volta nella vita, sono riusciti a volare via grazie ad un film. La composizione sullo schermo, ovviamente, arriva ai nostri occhi anche per merito di un accompagnamento musicale elegante e di pregiato gusto. Ballad romantiche, swing e canzoni di ogni tipo provano a rompere il sottofondo della quotidianità di una vita che prosegue nonostante il vento che soffia sul fuoco.

belfast

In Belfast, però, tolto il lato prettamente artistico, una delle caratteristiche che colpisce maggiormente, è il tempo. Il ritmo è regolare, cadenzato, un sali e scendi che ci porta dolcemente per le vie della città irlandese, ma il tempo è tutt’altra cosa. Ogni sequenza, ogni battuta ha un taglio che ci lascia comprendere la realtà, l’evidenza, le emozioni da dover provare, solo dopo aver assistito concretamente all’atto. È un discorso di un nonno che termina con un aneddoto simpatico, un padre che prima di partire fa la solita raccomandazione, un pallone calciato e l’esultanza che ne conviene. In Belfast c’è un gioco di tempi, sia nel portare a termine le azioni, sia nel ricordarci di qualcosa che abbiamo vissuto sulla nostra pelle, che sia un gesto o un desiderio.

Belfast, in sostanza, è una piccola scatola dei ricordi donata da Branagh al pubblico. Una carezza gentile che ti rincuora nel mentre senti le pale degli elicotteri che tormentano il cielo di notte. Una battuta di un parente che di allieta l’animo dopo una giornata no. Un film fatto da chi ama il cinema, per chi ama il cinema.
Un ricordo a colori in una vita in bianco e nero.

Leonardo Diofebo
Classe '95, nato a Roma dove si laurea in scienze della comunicazione. Cresciuto tra le pellicole di Tim Burton e Martin Scorsese, passa la vita recensendo serie TV e film, sia sul web che dietro un microfono. Dopo la magistrale in giornalismo proverà a evocare un Grande Antico per incontrare uno dei suoi idoli: H. P. Lovecraft.