Blind Faith: Edo No Yami sa perfettamente quel che vuole fare ma, all’atto pratico, riesce a perdersi in un bicchier d’acqua, seppur senza deludere

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i è mancato davvero poco che questo articolo avesse come titolo “Blind Faith: Edo No Yami è intelligente ma non si applica”. Mi sono trattenuto più per paura di risultare banale, nonostante continui a ritenerla una definizione fin troppo calzante per l’opera di Troglobytes Games, team italiano insediatosi a Barcellona già apparso sulle nostre pagine con Hyperparasite. Inoltre, volevo evitare a tutti i costi di passare per uno schiacciasassi, dal momento che le ore passate nei panni del samurai Yami sono state valide, ma anche costellate di piccoli problemi frustranti e facilmente evitabili.

Blind Faith: Edo No Yami è ambientato in un Giappone innovativo rispetto alle rappresentazioni a cui siamo abituati in titoli simili e non: un nuovo periodo Edo dove lo shogunato tradizionale opera in un mondo post apocalittico fatto di città industriali abbandonate e macchine assassine. C’è poi il nostro protagonista Yami, uno dei più fedeli samurai dello shogun che viene non solo privato di buona parte degli arti ma anche gli occhi, in modo permanente e orrendo. Viene salvato da un’IA chiamata Tengu, probabilmente in onore del suo corpo robotico ispirato alle leggende giapponesi, ma riottenere la vista è impossibile: l’unico modo per sopravvivere e combattere è imparare a sfruttare i sensi rimanenti e riprendere il suo posto tra i fedelissimi dello shogun.

Con la pressione del grilletto sinistro, si ha modo di selezionare un senso specifico da utilizzare sia in battaglia che in esplorazione: l’udito ci farà “visualizzare” i nemici in avvicinamento ed altri rumori, l’olfatto la presenza di veleni o corpi marcescenti, mentre il tatto ci darà modo di avvertire fonti di calore intenso. Da questa idea di sottrazione si sviluppa un combat system semplice, ma che premia la creatività del giocatore nell’inanellare combo fatte di colpi, schivate, attacchi a distanza e contromosse. Anche l’esplorazione beneficia di questa meccanica diventando fresca e interessante, giacché ogni senso ci darà indizi su come procedere nei livelli, mostrando anche percorsi secondari letteralmente invisibili agli occhi. Queste trovate, insieme ad un albero delle abilità classico, rendono esplicita una certa ispirazione dal sapore di metroidvania e il giocatore che decide di riesplorare verrà sempre ricompensato in qualche modo, anche tramite frammenti di storia che ampliano la lore e upgrade che forniranno miglioramenti permanenti e preziosi soprattutto se si decide di affrontare l’avventura ad alte difficoltà.

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Difficoltà che comunque è capace di sopraffare in Blind Faith: Edo No Yami, in particolare negli scontri con i boss. Ognuno presenta un espediente sempre diverso, abbastanza da rendere ogni battaglia interessante, ma anche una lunghezza atipica che mostra il fianco a piccoli momenti di frustrazione, al netto che buona parte delle volte è il giocatore a sbagliare e non un’IA disonesta. Il resto sono invece frutto di tutta una serie di piccole anomalie che, benché non siano tali da stravolgere l’esperienza, hanno sicuramente il demerito di macchiarla.

A partire da cose semplici come un leggero input lag che si fa sentire nei momenti più concitati ed una gestione dei checkpoint un po’ cattivella, ho davvero sofferto alcune scelte di design che mi hanno fatto buttare parecchio tempo in esplorazione (anche se ciò ha significato anche farmare un po’ e dunque avvantaggiarsi sugli scontri futuri). In particolare ci sono state un paio di volte dove non avevo idea di dover andare e che mi sono rimaste impresse: nella prima sono anche stato fesso io, in quanto è bastato rivedere il log delle conversazioni per ritrovare il percorso corretto. Nella seconda, però, sono stato tratto in inganno dall’immagine dimostrativa del livello, la quale mostrava la porta che stavo cercando, che però si trovava nel livello precedente.

Ho poi riscontrato tutta una serie di errori, tra musiche che sparivano, effetti sonori non presenti e traduzioni italiane mancanti, tutti tipici segnali di una build preliminare che avrebbe giovato di una maggiore pulizia e attenzione. Ci tengo a precisare che nessuna di queste riesce a scalfire in modo determinante l’esperienza e tutto potrebbe risolversi con una patch; tuttavia non riesco a nascondere un certo fastidio nel dover avere a che fare con build non rifinite in sede di analisi, a prescindere che si parli di titoli altisonanti come l’ormai celeberrimo Cyberpunk 2077 o un’uscita indipendente di un team storico come Baldo. Una tendenza che poi rischia anche di fare cattiva pubblicità a giochi e mercati che invece hanno molto da dire.

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Lo voglio dire chiaramente, perché Blind Faith: Edo No Yami non solo mi ha saputo intrattenere di gusto, ma ha anche saputo offrire una formula di gioco innovativa in tempi in cui il mercato indipendente tende ad inseguire i trend del mercato, piuttosto che sfruttare la propria libertà in esperienze atipiche ed originali. Per questo dispiace vedere una pletora di piccoli problemi dovuti a una mancata rifinitura, problemi che potrebbero anche non essere presenti nella build finale destinata al pubblico, ma che ho constatato diverse volte nella mie 16 ore di gioco e che mi sento in dovere di menzionare. Resta comunque il fatto che Troglobytes Games ha svolto un lavoro che vale la pena di essere provato da chi cerca un action peculiare e che si differenzia da buona parte della concorrenza grazie ad idee valide e ricercate.

Francesco Paternesi
Pur essendo del 1988, Francesco non ha ricordi della sua vita prima del ’94, anno in cui gli regalarono un NES: da quel giorno i videogiochi sono stati quasi la sua linfa vitale e, crescendo con loro, li vede come il fratello maggiore che non ha mai avuto. Quando non gioca suona il basso elettrico oppure sbraita nel traffico di Roma. Occasionalmente svolge anche quello che le persone a lui non affini chiamano “un lavoro vero”.