Quando è meglio non parlare, storia di una fake-news e dei suoi effetti.

Nel 1774, in Germania, viene pubblicato I dolori del giovane Werther, romanzo che narra la sfortunata storia d’amore del protagonista e il suo tragico epilogo. Subito dopo l’uscita del libro, il tasso di suicidi attuati con la stessa modalità del giovane personaggio di Goethe – un colpo di pistola alle tempie – aumenta spingendo, secondo alcune stime non ufficiali, fino duemila giovani uomini a togliersi la vita per amore. Il romanzo viene messo al bando in molti paesi europei, come tentativo di arginare questa mortale emulazione.

Duecento anni dopo, nel 1974, un sociologo della University of California, David Phillips, conia il termine Effetto Werther per definire la catena di morti che spesso segue la notizia di un suicidio pubblicata sui mezzi di comunicazione di massa. Soprattutto tra i giovani, l’emulazione fa alzare la percentuale di suicidi del 7% nel mese successivo, arrivando a sfiorare il 12% nel caso di “suicidi famosi” come successo nel 1962 con la morte di Marilyn Monroe. Per questo motivo, molte testate giornalistiche hanno delle apposite linee guida da seguire in caso di notizie riguardanti il suicidio e l’Organizzazione Mondiale della sanità suggerisce di non usare un linguaggio che sensazionalizzi o romanticizzi il gesto, di non diffondere le modalità dell’atto e di evitare l’uso di materiale fotografico o di video.

Nel 2012, una data molto più vicina a noi, ma abbastanza vecchia perché a quel tempo le balene fossero solo mammiferi marini a rischio di estinzione, il numero di suicidi adolescenziali in Russia era di circa 1700 morti, il triplo della media mondiale. Per l’Istituto Nazionale della Salute, le cause sarebbero da ricercare nell’alto tasso di abuso di alcool in questa nazione; infatti il numero di suicidi è calato nello stesso momento in cui è diminuito il consumo di alcool pro capite, nonostante la crisi economica in scena da quel momento a oggi.

Prendete tutte queste informazioni, agitate (non mescolate) il tutto con un programma italiano che si ostina a voler fare informazione quando non riesce neanche a produrre dell’intrattenimento decente e aggiungete uno spruzzo di psicosi: avrete ottenuto la notizia più spaventosa degli ultimi anni, quella che impedisce sonni tranquilli ai genitori, ma anche a chiunque cerchi di capire quanto ci sia di vero in queste informazioni mai verificate.

Se siete qua per capire cosa sia il Blue Whale Game, ci dispiace deludervi, ma non ne parleremo. Potete trovare anche troppe informazioni in rete, e ci auguriamo che sappiate discernere la realtà dalla bufala, il giornalismo dal sensazionalismo. Quello di cui vorremmo parlarvi è l’isteria collettiva che ha colpito i social dopo che i mezzi di informazione italiani hanno trattato l’argomento. In sociologia, per isteria collettiva si intende un fenomeno che genera in un gruppo più o meno esteso l’illusione di una minaccia, reale o immaginaria, scaturita da un mix esplosivo di voci non confermate e paure.

Gli effetti della balena sulla gente.

 Questo porta al primo dannoso risultato dell’attenzione mediatica prestata a questa quasi-del-tutto-fake-news (al momento non ci sono ancora dati oggettivi sul numero di morti causati dalla Blue Whale): orde di analfabeti funzionali, dotati di una connessione internet, si sono scagliati contro malcapitati ristoranti di pesce e app per la virtual reality dal nome omonimo a quello del ceruleo cetaceo, augurando la morte a cuochi e sviluppatori, colpevoli di aver spinto alla morte centinaia di bambini. Dopo il recente caso del ragazzo accusato di pedofilia su facebook, non avevamo certo bisogno di conferme sulla potenza del popolo dell’internet, che non smette mai di stupire per la sua incapacità di filtrare le informazioni e farne un buon uso.

Bloccati in questo settembre infinito di nuovi utenti non educati alle regole basilari della rete, non stupisce che il fondatore di Twitter, Evan Williams, abbia parlato, in una recente intervista del New York Times, di un internet che si è rotto: “pensavo che una volta che tutti avessero potuto parlare liberamente e scambiarsi informazioni e idee, il mondo sarebbe diventato automaticamente un posto migliore, ma mi sbagliavo”, ha confessato, non senza una punta di scoraggiamento. E mentre i genitori condividono articoli scritti da dubbi professionisti del settore, dimenticano che i figli, in questo mondo, navigano molto meglio di loro, capaci di riconoscere la differenza tra una vera testata giornalistica e una pagina acchiappalike, non più abbagliati dal mantra del l’hanno detto alla tv. Questi genitori sono potenzialmente più dannosi del gioco stesso: con la loro mania di condividere senza verificare e di scagliarsi contro le passioni dei figli, solo perché a loro sconosciute (sì, stiamo pensando alla brutta reputazione di manga e anime nel nostro bel paese e alla diffamazione messa in atto da chi probabilmente un tankobon non l’ha mai neanche aperto), durante casi mediatici simili chiudono ancora di più i canali comunicativi con i figli, in grado solo di guardare con sospetto alle loro attività, incapaci di accettare che un ragazzino possa avere un cervello funzionante in grado di comprendere la realtà che lo circonda. Se saper identificare una fake news è importante per chiunque usi i social, ancora più lo è per quei genitori che, preda di ansie e preoccupazioni per la sicurezza dei propri figli, sono prede perfette del clickbaiting. E se i giornalisti sono troppo impegnati a contare le views per controllare la veridicità di quello che scrivono, è necessario smettere di prendere per oro colato tutto quello che leggiamo, riattivando il pensiero critico in grado di discernere ciò che è vero da ciò che è soltanto verosimile.

Quando la regola del Fight Club è una buona regola.

Il secondo risultato del diffondersi di questa quasi-del-tutto-fake-news risiede, invece, in una molto più dannosa emulazione del gioco: anche se abbiamo ancora forti dubbi se sia nata prima la balena o l’ondata di suicidi russa, è pur sempre vero che una sovraesposizione di informazioni legate al suicidio può essere dannosa per soggetti particolarmente vulnerabili o sofferenti di disordini mentali, soprattutto nella fascia di età adolescenziale, per sua natura impulsiva.

Dovremmo dunque censurare alcune notizie per preservare la purezza dei pargoli?

No di certo, ma abbiamo dei dubbi sulla necessità di riesumare un articolo molto opinabile datato 16 maggio 2016 di un periodico russo per scatenare il panico tra i genitori italici e importare un gioco al massacro di cui non possiamo neanche appurare la reale esistenza. Tutto in nome dell’infotainent e di un pugno di like, sembrerebbe, storia vecchia anche questa: quando ancora Facebook era nei sogni di Zuckerberg, i giornalisti nostrani si sono scagliati contro i giochi di ruolo, colpevoli di permettere un’eccessiva evasione dalla realtà e portando quindi il malcapitato giocatore a non saper più distinguere tra la morte del proprio personaggio e la morte reale (di questo argomento tratta anche il nuovo romanzo di Vanni Santoni, La stanza profonda, candidato al Premio Strega), o contro la musica metal, ascoltata – è risaputo – solo da satanisti e profanatori di tombe. Non è quindi una novità che i genitori si spaventino per fenomeni che non conoscono, perché l’ignoranza spaventa, soprattutto quando ci sarebbero gli strumenti per informarsi, ma si preferisce restare fermi su una posizione di chiusura. Del resto, a volte, sarebbe meglio tacere e passare da idiota, che aprire bocca e fugare ogni dubbio, lezione che i naviganti, giornalisti o meno, non sembrano proprio voler imparare.

 

 

 

Angela Bernardoni
Toscana emigrata a Torino, impara l'uso della locuzione "solo più" e si diploma in storytelling, realizzando il suo antico sogno di diventare una freelancer come il pifferaio di Hamelin. Si trova a suo agio ovunque ci sia qualcosa da leggere o da scrivere, o un cane da accarezzare. Amante dei dinosauri, divoratrice di mondi immaginari, resta in attesa dello sbarco su Marte, anche se ha paura di volare. Al momento vive a Parma, dove si lamenta del prosciutto troppo dolce e del pane troppo salato.